Accade che a volte una disgrazia possa essere la fortuna per qualcun altro. È esattamente quello che succede a Tambudzai, detta Tambu, una ragazzina alla fine degli anni ’60, inizio ’70, che vive in Rhodesia, attuale Zimbabwe. Quando il fratello maggiore Nhama muore per una misteriosa malattia, a lei viene finalmente permesso di continuare gli studi, prendendo il posto di lui nella missione cristiana di cui lo zio Babamukuru, fratello del padre, è preside. Tambu sfida le convenzioni sociali e i pregiudizi legati alla visione patriarcale della donna e nel corso del tempo, grazie alle letture audaci e all’esempio della cugina Nyasha, arriverà a considerare il matrimonio dei genitori come un esempio soffocante e riduttivo di vita e a rifiutarlo.
La convivenza con la famiglia dello zio è fatta di sconfitte e vittorie, il tutto reso più sopportabile proprio dalla complicità con la cugina, tornata in Africa dopo un’infanzia e adolescenza trascorse in Inghilterra.
Insieme le due ragazze svilupperanno consapevolezza di genere e orgoglio razziale, rifiutando quello che è da sempre identificato come il destino irreversibile di donne e ragazze afro: una sudditanza verso uomini neri e bianchi, una forma di accettazione di una pretesa inferiorità che nessuna delle due ragazze è disposta ad accettare o a subire. Consapevole che solo lo studio, sia pure in condizioni di ristrettezze, è la strada per l’emancipazione, Tambu decide di andare a studiare in un convento, mentre la cugina inizia a rifugiarsi nel rifiuto del cibo, rendendo visibile la sua disperazione e per questo verrà additata come vittima di isteria.
In un mondo asfittico, dove le aspirazioni di studio delle persone di genere femminile sono ancora considerate asservite alla benevolenza maschile, le ragazze vengono considerate isteriche, specialmente Nyasha, che non può accettare la società nella quale è costretta a vivere.
Un romanzo di formazione dove la realtà vissuta dalle ragazze africane emerge in tutta la sua portata costrittiva, con la descrizione di sistemi gerarchici evidenti, che finiscono con il bollare di infamia le donne libere, come la zia di Tambu, Lucia, che non vuole avere un solo uomo, e soprattutto rassegnarsi a essere donna solo per dare figli alla società.
“È una brava persona, un bravo africano, un cafro maledettamente bravo”, affermò con tono sarcastico. Poi tornò a sussurrare “Perché lo fanno, Tambu?” sibilò amaramente, con il volto che si contorceva dalla rabbia. “A me, a te, a lui? Vedi cosa ci hanno fatto? Ci hanno portati via. Lucia. Takesure. Tutti noi. Hanno privato te di te, lui di lui, noi stessi l’uno dell’altro. Noi ci prostriamo. Lucia per un lavoro, Jeremiah per i soldi. Papà si prostra davanti a loro. Noi ci prostriamo davanti a lui”. Cominciò a dondolare, con il corpo teso che fremeva. “Io non mi prostrerò. Non sono una brava ragazza. Non mi prostrerò, non morirò” disse furiosa e si accucciò come un gatto pronto a scattare.