Mio marito Luca si era tirato indietro, sostenendo che gli anni Ottanta erano finiti da un pezzo, che ormai avevano cent’anni per gamba, e che neanche all’epoca gli piacevano un granché.
Decisi di ignorarlo, e quella mattina mi misi in fila al botteghino, sfidando la calura.
Paolo si trovò in fila dietro di me. Non ci vedevamo da trent’anni, ma il tempo era stato clemente, e ci riconoscemmo al primo sguardo.
“Anche tu qui?” lo dicemmo in coro.
Non era strano, ma era strano. Non era strano che entrambi fossimo in fila per comprare i biglietti del concerto dei Simple Minds, perché la cassetta di Street Fighting Years che mi aveva regalato trent’anni prima era l’unica prova tangibile della nostra breve stagione, l’estate della mia maturità.
Era strano perché, pochi mesi dopo quella stagione, Denise l’aveva portato in Svizzera.
Mentre ci raccontavamo per sommi capi il periodo non collegato – “Ancora sposata con Luca” “Ancora sposato con Denise”, figli no, lavoro nulla di avvincente – la mia mente disarchiviava i ricordi.
Paolo non era mai stato uno di tante parole, io nemmeno, e forse per questo avevamo un sacco di cose da dirci. Era cominciata con un libro, un pomeriggio in piscina a casa di amici comuni. Io lo stavo leggendo, Paolo l’aveva appena finito. Gliene consigliai uno dello stesso autore, lui mi suggerì alcuni dei suoi titoli preferiti, io li avevo già letti quasi tutti. La radio trasmise Belfast Child dei Simple Minds. Io dichiarai che Once upon a time era il mio disco preferito. Paolo disse che aveva appena comprato l’ultimo, e si offrì di doppiarmelo. Uscivamo la sera insieme al gruppo, un giro in centro, una pizza al lago, finiva sempre che Paolo si offriva di riaccompagnarmi. Parcheggiava nel piazzale, spegneva il motore, e ascoltando Glittering prize parlavamo dei nostri programmi per il futuro – io alle prese con la scelta dell’università, lui che già lavorava ma meditava di tornare a studiare.
Io ero una ragazzina che non si era mai innamorata, lui sembrava riflettere prima di ogni parola che pronunciava. Precipitavamo l’uno contro l’altro al rallentatore, assaporando ogni momento che ci avvicinava all’inevitabile epilogo.
A Ferragosto Paolo partì per il mare, e in sua assenza fui investita da un ciclone a forma di Luca. Niente chiacchiere notturne, niente consigli di lettura, né scambi di musica, solo le mani dappertutto e la lingua in bocca. Luca mi travolse trascinandomi in una relazione invadente nella quale c’era tutto tranne le parole.
Paolo ci rimase male, e smise di parlarmi, ma bastavano i suoi sguardi gelidi a farmi sentire in difetto.
Qualche settimana dopo, a una festa, comparve Denise, tirocinante all’Università per stranieri decisa a trovarsi un fidanzato italiano. Alta com’era, si era guardata intorno alla ricerca dei ragazzi con cui non sfigurasse con il suo metro e ottanta, e aveva puntato subito Luca. Non si era accorta che era impegnato – non era colpa sua, non mi aveva proprio vista, me e il mio metro e sessanta scarso.
Mentre Denise sfoggiava le sue doti seduttive con Luca, Paolo si avvicinò a me. Io guardavo impietrita quella stangona bionda avvinghiarsi a Luca, Paolo afferrava la mia mano, costringendomi a distogliere lo sguardo dalla scena e a concentrarmi su di lui.
Ci guardammo per un po’, ma eravamo tipi che andavano al rallentatore in un mondo che correva a velocità doppia. Mentre cercavamo le parole, Luca aveva respinto Denise e Denise aveva scelto il suo nuovo obiettivo. Ci piombarono addosso insieme, le nostre mani si sciolsero, e poco dopo io avevo di nuovo la lingua di Luca in bocca e Denise era fra le braccia di Paolo.
Il rimorso che provavo nei confronti di Paolo mi fece quasi sospirare di sollievo, a saperlo con lei. Pensai che si sarebbe consolato sperimentando insieme a Denise le sensazioni travolgenti con cui Luca mi aveva conquistato. Non sapevo che col tempo quelle sensazioni si sarebbero rivelate effimere. Paolo però si era trasferito in Svizzera con Denise, e ne avevo perso le tracce.
Trent’anni dopo, davanti al botteghino, io e Paolo comprammo due biglietti per il concerto dei Simple Minds.
“Denise non viene?” “Luca non viene?” Le nostre teste si scossero ritmicamente. Don’t you (forget about me) che usciva dall’altoparlante del botteghino ci catapultò nel passato come neanche la più sofisticata delle macchine del tempo sarebbe stata in grado di fare.
“Dimmi, che fai il 10 luglio?”
Il 10 luglio, mentre Jim Kerr cantava This is your land, io e Paolo ci scambiammo il primo bacio.
E a entrambi parve di essere tornati a casa.