Il gelato

Una coppia cerca di elaborare una perdita importante.

“Ti va un po’ di gelato? Ho preso quello al caramello.”

Mio marito si affaccia dallo stipite della porta e me lo chiede, senza portarlo subito come fa ogni sera.

“No, grazie”.

Gli rispondo secca.

Le luci di Natale disegnano l’illusione di un tepore luminoso, la tazza di tè calda in mano, sto ferma seduta, come infilata nell’imbottitura del divano faccio da bandiera fermaposto.

Accendo la televisione e premo il tasto ‘+’ del telecomando: cambio canale, uno dopo l’altro come in un ritmo serrato.

 

Tu tum, tu tum, tu tum.

 

Mi fermo su una soap opera da quattro soldi, spero di scoprire come andrà a finire tra quei due che da settimane si corteggiavano fingendo di detestarsi. “Sono incinta” dice lei, una fitta al petto, come una scossa mi arriva fino al dito. Spengo la televisione.

 

“Vuoi vedere qualcosa insieme?” chiede mio marito, mentre controlla le email dal tavolo del salotto.

“No, grazie” rispondo.

 

Mi cade l’occhio sulla vecchia console grigia che avevo preso da casa dei miei qualche settimana prima e che si è riempita di polvere; la accendo e prendo il joystick. 

Mi sembra molto piccolo. 

Inserisco l’unico gioco che conosco tra quelli che trovo nella colonnina a destra del mobile beige, poi torno a sedere sul divano.

Lara Croft scivola per una discesa, come ricordavo bene. Il rumore dei suoi passi di nuovo mi ricorda quel ritmo:

 

Tu tum, tu tum.

 

“Ah! Tomb Raider! Vuoi giocare insieme?”

“No, grazie”.

Chiude il computer e se ne va in camera. Lo seguo con lo sguardo.

 

Non premo il bottone in tempo e Lara cade in una buca cacciando un urlo disumano, per poi schiantarsi su degli spuntoni, riducendo braccia e gambe come i bastoncini di Shangai.

 

Mi viene da ridere. Ricomincio.

 

La lascio morire di nuovo allo stesso modo, poi inizio a cercarne altri: lasciando la presa mentre è aggrappata sul muro più alto del livello, facendola tuffare in mezzo ai piranha, affrontando la tigre senza munizioni.

Mi scappa uno sbadiglio.

Provo ad andare avanti, lo schermo diventa nero, la musica singhiozza.

Ma che diamine…

Apro la console e giro il CD, lo faccio brillare contro l’illuminazione della TV e vedo un grosso graffio. È andato. 

 

Mi incanto a guardare nel vuoto, amareggiata con ancora il cd infilato sull’indice.

 

D’un tratto mi viene in mente la canzoncina allegra di Super Mario. 

 

Che bei ricordi, dovremmo averlo da qualche parte.

Turururu tu turu turu ruru tu tu tu ru.

 

Prendo il computer, lo attacco alla presa in salotto e vado in camera a cercare una usb dentro la cesta dei cavi e delle schede di memoria.

Mio marito mi guarda, è sul letto col telefono in mano e mi chiede incuriosito: “Che cerchi?”

“Avevamo una usb piena di giochi vintage, voglio giocare a Super Mario”.

“Lui sorride. Penso fosse quella a forma di Stormtrooper” dice indicando la cesta.

“Questa?”

“Si, provala”.

 

Torno in salotto. La inserisco nel computer e apro la cartella “Giochi Vintage”, deve essere quella. Scorro la lista in ordine alfabetico e pian piano arrivo alla S.

“S, S, S, Super Mario, eccolo”.

Lo faccio partire e sorrido, me lo ricordavo proprio così: i mattoni rossi, i tubi verdi, la musica allegra e alienante, i funghi che ti fanno crescere, le stelline che ti rendono invincibile. Faccio correre Mario in avanti fino ad arrivare alla bandierina finale.

 

Lo faccio saltare per terminare il livello e tirare giù la bandierina bianca e verde.

 

Le luci di Natale si spengono perché è andata via la corrente, ma io sono al portatile con la batteria quindi continuo a giocare.

 

“Che è successo?” urla lui dall’altra stanza.

“Boh”, rispondo io, poi torno a canticchiare “Turu ruru, tu tu turu”.

 

“Non funziona Internet, il modem si è spento” dice lui.

“Ok” rispondo io senza attenzione.

 

Turu turu turu… la musichetta del tunnel è la mia preferita, prendo un sacco di monete e torno su ma il computer mi avvisa che la batteria è quasi scarica.

Maledizione! Avrei dovuto cambiarla mesi fa, questa batteria non dura un cavolo.

Però continuo a giocare, assuefatta, finché la musica si spegne e non riesco più ad accenderla. 

È tutto buio, non riesco più a non pensare a quelle parole spietate:

 

“Non c’è più battito”.

 

Una lacrima scende fino a bagnarmi le labbra.

Il gelo terrificante della sala operatoria mi perseguita da giorni e me lo sento addosso.

Uno schermo nero e vuoto, come la mia pancia. 

 

Vado a cercare mio marito, furiosa: “Che cavolo hai acceso per far saltare la corrente?”

Lo trovo a trafficare col contatore della luce mentre prova a tirare su le levette che continuano a tornare giù.

Niente, se n’è andata.

Apre la porta e prova ad accendere la luce della tromba delle scale: “Vedi? È andata via in tutto il palazzo”.

“Incredibile. Hai fatto andare via la corrente a tutto il palazzo” la bocca distorta dalla collera.

“Io? Ma sei scema?”

“Scema? Ma vaffanculo!”

“Vedi di non urlare, se no svegli Lorenzo”.

“Certo, guai a svegliare Lorenzo”.

“Tu parli bene, l’ho messo a letto io”.

“E quindi? Io l’ho messo a letto tutte le sere da una vita”.

“Rinfacci, come al solito”.

“Rinfaccio sì, tu sei capace solo di lamentarti”.

“Sono mesi che sei nel tuo mondo, esistono anche gli altri eh”.

“Per una volta esisto anche io, non mi pare ti interessi molto come mi sento”.

“Perché, a te interessa come mi sento io?”

“Tu fai finta di niente, vuoi mangiare il gelato!”

 

Torna la corrente. 

“Io voglio solo che torniamo a fare i genitori. Io ci provo a badare a Lorenzo da solo, ma lui vuole sempre sua madre” abbassa lo sguardo.

Accuso il colpo, come se mi fossi schiantata contro una porta a vetri, convinta che fosse aperta.

 

L’orologio riprende a ticchettare, vorrei solo farlo smettere e riaccendere la tv, il telefono, Super Mario. Ma sono stanca, esausta.

 

Prendo un grosso respiro.

“Oggi sono andata a prendere Lorenzo, la maestra mi ha detto che ha morso un altro bambino. Le ho sorriso e le ho detto che mi dispiace, ma non mi dispiace per niente. Quello stronzetto l’avrà graffiato cento volte” gli dico.

Vado in salotto e mi lascio cadere sul divano. Lui mi segue.

“Senti, riguardo a prima…”

“Shhh, ne possiamo parlare domani?”

 

“Ok. Comunque, Lorenzo mica può andare in giro a mordere la gente” risponde lui.

“No, ma se una volta uno piglia e morde quello che lo colpisce tutti i giorni mica è tanto grave, no?! Io lo farei se non fossi adulta. A che serve essere bambini se non si può neanche fare qualche cazzata ogni tanto?”

Lui ride, di gusto, poi torna serio.

“Già” fa spallucce, poi prende la coperta e la sistema sulle mie gambe.

 

“Lo vuoi il gelato?”

Silenzio.

Fa per andarsene…

Alzo un po’ la voce per farmi sentire:

“Sì, solo un po’ però”.

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