Sigarette

Tre fratellini ordiscono un piano contro la presenza più ingombrante della famiglia.

Le sigarette hanno ucciso mio padre.

E pensare che vivevano con noi. Praticamente facevano parte della famiglia.

Ovunque fossimo, il nostro nucleo familiare era composto dai miei genitori, da noi tre figli e dalle sigarette di mio padre. Col tempo si sono uniti anche un cane, due uccellini in gabbia e tre tartarughe.

Le sigarette di papà, con la loro presenza fissa e silenziosa, hanno riempito di fumo la mia infanzia e la mia adolescenza.

Erano una presenza ingombrante. L’odore dei posacenere pieni di cicche abbandonate è rimasto impresso tra i ricordi della casa dove sono cresciuta come le tavolate di Natale, le torte di compleanno fatte in casa e i vestiti di Carnevale che ci cuciva nostra madre.

Erano invadenti. Non si andava da nessuna parte se prima non si era proceduto a un’attenta ricognizione familiare:

“Avete preso il pacchetto di riserva?” Indagava mio padre già sulla porta.

Le sigarette poi mi erano proprio antipatiche. Soprattutto al sabato pomeriggio quando papà mi ricordava i miei obblighi. Ero la più grande e non importava che avessi solo sei o sette anni:

“Gio, devi andare a comprare le sigarette” ordinava, “quattro pacchetti, di quelle col filtro”.

“Ma sto guardando la TV dei ragazzi”. Ogni volta speravo che mi risparmiasse quel terribile imbarazzo.

“Sbrigati, che poi il tabaccaio chiude”.

Ma da qui a immaginare che le sue amate sigarette stavano organizzando un piano omicida, questo davvero non poteva prevederlo nessuno. Neanche il nostro caro medico di famiglia, che fumava anche lui una sigaretta dopo l’altra e che continuava a curare la tosse di tutti noi col Vicks sciroppo, cugino del più famoso e altrettanto inutile Vicks vaporub.

Faccio fatica a ritrovare nella memoria un’immagine di mio padre senza sigaretta. Senza gli occhi stretti per via del fumo. Senza la sua scorta di pacchetti ben allineati in alto sulla cassettiera di noce dell’ingresso.

Su quel ripiano indugiava a lungo. Si appoggiava al livello più alto dell’unico mobile di casa proveniente dal suo passato, con le braccia conserte e lo sguardo verso il muro. Restava affacciato a quella finestra immaginaria volgendoci le spalle e fumava e fumava e fumava. Forse in quella posizione affrontava i suoi demoni. Forse meditava sulla sua dipendenza. Forse cercava di scendere a patti con quella ventina di cui non poteva fare a meno e a cui dedicava attenzioni e gesti affettuosi che a noi ha fatto spesso mancare.

Altro luogo di meditazione casalinga era il bagno. Ne avevamo solo uno a disposizione e, quando mio padre si chiudeva dentro, dovevi rinunciare a qualsiasi necessità per un tempo incalcolabile, ma sempre troppo lungo. In quelle circostanze ci dovevamo lavare le mani in cucina e, in caso di urgenza, arrangiarci a fare la pipì o altro in una bacinella di plastica. Quando finalmente il bagno tornava libero, la stanza era talmente satura di fumo che si doveva trattenere il respiro per raggiungere la finestra e dare aria.

Dieci, venti, trenta sigarette. Quante ne fumasse al giorno non era dato saperlo. Chiederlo era un sacrilegio. Una gravissima violazione della privacy paterna che avrebbe avuto conseguenze nefaste. Per cui ognuno si faceva i fatti suoi. Guardava e taceva. Pensava e taceva. Respirando quel fumo passivo che riempiva, oltre i nostri polmoni, ogni angolo della casa.

Era impregnata di fumo la carta da parati multicolore che negli anni ’70 era un must della decorazione murale. Il divano ad angolo marrone in pelliccia sintetica. I nostri abiti, che non trovavano riparo neanche negli armadi. Il folto e lungo pelo del nostro cane. Canarini e tartarughe erano salvi perché vivevano all’aperto, sul terrazzo.

Noi bambini avevamo un qualche ingenuo sentore di eccesso. Di esagerazione, anche se a quel tempo il tabagismo era un fenomeno parecchio sottovalutato. Ci eravamo convinti che le sigarette fossero la causa del nervosismo del nostro genitore, delle sue continue arrabbiature e del malumore che serpeggiava per casa.

Era molto raro che papà giocasse con noi. Ma quando accadeva questo miracolo passavamo pomeriggi indimenticabili di cui poi parlavamo per giorni. Quando era in vena, nostro padre organizzava tornei meravigliosi. Alle corse dei cavalli o al giro d’Italia inventando percorsi a tappe sempre nuovi con cui invadevamo tutta la casa. Il nostro gioco preferito restava quello dell’isola deserta. Noi bimbi eravamo i naufraghi e lui il nostro invisibile salvatore che, attraverso una specie di caccia al tesoro, ci permetteva di trovare cibo e varie utilità per la nostra sopravvivenza.

Di punto in bianco però si distraeva. Diventava scostante. Le sigarette lo chiamavano. Erano le nostre rivali. Noi restavamo in attesa buoni buoni sperando di riprendere il gioco. Ma dopo il fumo non era più lo stesso papà che tornava da noi.

“Pensa se smettesse di fumare…”

“Giocherebbe tutti i giorni con noi”.

“E sarebbe sempre contento. E pure noi”.

Dovevamo fare qualcosa. Dovevamo trovare il modo di eliminare le sigarette e salvare la nostra famiglia da tutto quel fumo.

Le abbiamo provate tutte. Nascondevamo i pacchetti. Ne riducevamo il contenuto sbriciolando il tabacco nel water. Consumavamo gli accendini a rischio di appiccare un incendio. Nulla. Nessun risultato se non le strigliate paterne.

Ci voleva un rimedio definitivo.

“E se ci mettiamo le miccette?”

Mio fratello, quello di mezzo, ebbe la grande idea. Per noi erano giochi vietati, ma in quel caso la trasgressione sarebbe stata per una buona causa. Abbiamo raccolto i soldi tassandoci la paghetta e abbiamo organizzato il piano in ogni dettaglio. Avremmo agito mentre papà e mamma riposavano nel dopo pranzo quando, come al solito, noi avevamo la consegna del silenzio.

“Tu vai a fare la guardia e se si svegliano, mettiti a piangere forte, così noi nascondiamo tutto”.

Nostro fratello più piccolo era sempre escluso dai ruoli importanti, ma questa volta aveva un compito strategico, mentre noi due con uncinetti, forbicine e cucchiaini avevamo attrezzato in cucina il nostro laboratorio.

L’esplosione avvenne quella sera stessa. Eravamo seduti a tavola per la cena e aspettavamo che la mamma ci portasse le pietanze.

BOOM!

La sigaretta esplose nel posacenere facendo un gran rumore.

Mio padre si infuriò e diede una manata così forte da far rovesciare tutto: bicchieri, bottiglie, piatti, producendo sul tavolo l’effetto di un vero bombardamento.

“Chi è stato? Chi è stato? Ma siete impazziti? Volete uccidermi?”

Era arrabbiatissimo e continuava a urlare facendosi rosso in viso mentre i colpi di tosse gli scuotevano il petto.

Mia madre ci spinse a forza nell’altra stanza dove ci chiuse dentro per proteggerci dall’ira paterna.

“Ma stasera non mangiamo niente?” Il più piccolo con gli occhi gonfi di pianto si preoccupava dello stomaco vuoto. “Per colpa delle sigarette, mi sa che dobbiamo morire di fame”.

 

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