Scrivere è sempre un modo per mantenere viva la memoria e i ricordi, destinati altrimenti a perdersi, sia che l’autore faccia riferimento ai propri fatti personali o alla cronaca, sia che si rivolga alla pura invenzione, che contiene sempre comunque i segni dell’epoca in cui uno scrittore si trova a scrivere. Il romanzo d’esordio di Mariarosaria D’Andria, Anima nera (Bertoni 2024, collana Schegge diretta da Anthony Caruana) che arriva in questi giorni in libreria, proprio di memoria si occupa. C’è una donna oggi, Teresa, ormai anziana, che ha perso quasi del tutto i ricordi del suo passato, ma che – grazie a una terapia psicologica a base di scrittura di post-it colorati – comincia a ricordare e quel che ricorda fa tornare alla luce il lato oscuro del Novecento: il fascismo, l’odio, la faida. Attraverso il ricordo di un uomo, che nel paese di Castillo tutti chiamano Anima nera, appunto. Quando D’Andria ha cominciato a scriverlo e io a seguirlo come tutor nella scuola, ho avuto subito l’impressione che si trattasse di un testo davvero utile, anche per aiutare noi tutti a non disperdere il ricordo di quello che è stato. E pure perché il percorso di riemersione dei ricordi attraverso brevi frammenti di testo appuntati al volo, che si sviluppano fino a creare scene complete di conflitti e rivelazioni, mi sembrava somigliare molto da vicino al lavoro dello scrittore. E poi Anima nera è scritto con cura e pazienza, posso testimoniarlo, con una prosa limpida che è frutto di un accurato lavorio d’autore, per niente semplice da raggiungere, per niente improvvisato. Ora che è stato pubblicato, mi piace l’idea di farlo illustrare da lei ai nostri lettori.
Mariarosaria D’Andria, chi è Anima Nera?
Durante il ventennio, Anima Nera indossò la camicia nera per vendicarsi dei ricatti e delle molestie subite da sua madre e delle malelingue che lo hanno emarginato. Molti castigliani conservavano sulla pelle e nella memoria i segni delle sue torture, tanto feroci da fargli guadagnare il soprannome di Anima Nera. Solo pochi hanno creduto alla favola del desiderio di morire lì dove è nato. Tra quei pochi c’è Teresa, la protagonista, pronta ad ascoltare il racconto della sua verità.
Chi è Teresa, la tua protagonista? Una donna che ha voluto dimenticare o ha dovuto farlo?
La Teresa del 1974 è una giovane insegnante; moglie e madre; una femminista impegnata nelle lotte sociali, convinta che il mondo possa cambiare in meglio. Oggi è una donna anziana che ha vissuto gli ultimi tre decenni affidando agli psicofarmaci il compito di nascondere i ricordi più angosciosi in una nebbia sempre più densa. Gli stessi ricordi che ora è determinata a recuperare per dare un senso alla sua vita e alle sue scelte. Su consiglio dello psichiatra psicoterapista annota sogni, sensazioni, flash di memoria su dei post-it colorati. La distinzione tra il volere e il dovere non vale in questo caso, è più corretto dire che Teresa ha dimenticato per la necessità di non affrontare un dilemma morale che il lettore scoprirà nelle ultime pagine del romanzo.
Teresa sente la fascinazione di Anima Nera oppure è troppo buona per unirsi alla condanna generale?
Teresa si ritiene priva di pregiudizi, eppure la sua certezza, che il fascismo del ventennio ormai sia parte di un passato che non può ripetersi, altro non è che un pregiudizio. Per questo motivo la presenza in paese del vecchio torturatore non la inquieta: in fondo ormai non è altro che un uomo in là con gli anni e solo. Quando ha modo di conoscerlo meglio, Anima Nera si mostra al meglio: educato, garbato, persino commovente quando le parla del suo grande amore. A quel punto Teresa arriva a scordare le raccomandazioni di prudenza della sua famiglia, e comincia a provare tenerezza, persino simpatia per quel signore anziano.
Perché hai scelto di ambientare la vicenda negli anni Settanta? Pensavi che oggi la ferocia di quei tempi possa ritenersi superata?
Ambientare la storia negli anni Settanta mi ha fornito molto materiale. Mi ha permesso di descrivere la difficoltà di vivere in un piccolo borgo del sud Italia svuotato dall’emigrazione e impreparato alla diffusione della droga e al nuovo ruolo della donna. Di accennare agli scontri tra fascisti e comunisti, alla legge sull’aborto. Di rappresentare la filosofia del tanto qua niente cambia di chi è rassegnato a uno Stato presente solo in periodi elettorali. Questi argomenti fanno da sfondo alla storia principale.
Le cronache di questi giorni ci raccontano di migliaia di civili lasciati senza cibo, né acqua, né cure per guerre incomprensibili. I TG trasmettono immagini di imputati in attesa di giudizio trascinati in catene nelle aule dei tribunali; e i dettagli di esecuzioni con maschere all’azoto non lasciano spazio all’immaginazione. Quindi la mia risposta è no, la ferocia di quei tempi non è superata, e non intravedo spiragli per il prossimo futuro.
Il tuo è anche un romanzo su una memoria che tende a svanire, pensavi alla memoria della storia del Novecento?
Sì, ci pensavo. Le nuove generazioni studiano a malapena la storia del primo Novecento, e quelli della mia generazione – o giù di lì – non insegnano loro che il passato contiene l’antidoto agli elementi negativi dell’attualità. È un errore molto grave, come se noi tutti volessimo dimenticare la combinazione della cassaforte a cui abbiamo affidato tutti i nostri averi.
Il romanzo racconta una storia di giustizia e ingiustizia, sei interessata a questi temi?
Mi spaventa la rassegnazione passiva, che sconfina nell’indifferenza, rispetto a ingiustizie perpetrate nelle aule dei tribunali, per le strade, in famiglia. L’indignazione non è sufficiente. Come insegna una vecchia favola russa, i cattivi si trasformano in buoni solo quando ne imitano il comportamento, non servono discorsi.
Aver punito un torturatore e un assassino rende un omicidio meno grave?
Per quanto in alcuni casi possa persino sembrare un atto di giustizia, un omicidio è pur sempre un omicidio, chiunque sia la vittima. Giustificarlo equivarrebbe a tornare all’età della pietra.
Come nasce questa storia nella tua mente? C’è qualche riferimento autobiografico o storico?
Credo che in ogni storia siano presenti riferimenti autobiografici, questa non fa eccezione. La confessione viso a viso alla vigilia della mia prima comunione è stato lo spunto intorno al quale ho cucito il romanzo. Inaspettatamente i personaggi appena abbozzati hanno rivelato una personalità a me ancora sconosciuta, per poi agire in una sorta di autogestione che mi ha relegato al ruolo di mera cronista. La storia che si andava sviluppando mano a mano mio malgrado mi ha appassionato al punto che ero impaziente di arrivare all’ultima pagina per scoprire il finale. Scrivere Anima Nera è stata un’esperienza entusiasmante e allo stesso tempo faticosa, ora sono curiosa di scoprire il parere di chi lo leggerà.
Mi sono documentata, attraverso letture di romanzi, ricerche sul web e documentari, sul ventennio fascista, sui partigiani, e soprattutto sugli avvenimenti degli anni Settanta.
Quanto tempo hai impiegato dalla prima idea alla pubblicazione?
Quattro anni e mezzo circa.
C’è qualche autore al quale ti sei ispirata nella scrittura o nella trama?
La trama, come ho già spiegato, si è sviluppata mano a mano che procedevo nella scrittura. Di sicuro i molti autori che ho letto, le testimonianze raccolte, la storia studiata sui banchi di scuola mi hanno ispirato, ma non saprei indicare un solo nome. La difficoltà maggiore è stata trovare la voce giusta, in questo mi ha aiutato leggere Il sorcio, l’ultimo romanzo di Andrea Carraro.