È da poco in libreria per i tipi della Garzanti un volume originale e di grande qualità, curato da Nina Quarenghi (scrittrice, insegnante, autrice di vari testi), dedicato al poeta Giorgio Caproni. Registri di classe, così s’intitola, raccoglie i registri compilati diligentemente e con passione dal poeta in un arco di quasi quarant’anni, dalla Val Trebbia ad Arenzano e quindi a Roma, in diverse scuole e diversi quartieri. Quarenghi li accompagna con un’introduzione che li commenta e ne sottolinea l’importanza, non solo come documenti del lavoro di una vita, ma anche in quanto esplorazione del rapporto sempre problematico tra arte e mestiere, giudizi esterni ed esistenza quotidiana, però soprattutto – direi – in quella capacità creativa dell’insegnante di essere l’accompagnatore e la guida dei bambini nella difficile epoca della crescita. Leggendo questo libro si comprende anche la capacità di Caproni di sperimentare la relazione con i bambini, che ha bisogno di contenuti innovativi da proporre e la capacità di recepire gli stimoli che provengono dalla classe e dai singoli. C’è in queste scritture un Caproni che resta poeta durante il lavoro di maestro e poi diventa difficile immaginarselo del tutto distaccato dalla sua professione durante la realizzazione della sua opera poetica. Conoscevo Nina Quarenghi per le sua narrativa, ma Registri di classe mi ha spinto a volerne sapere di più e a porgerle qualcuna delle mie domande.
Che tipo di maestro era Giorgio Caproni?
Era un Maestro con la M maiuscola, che formava i suoi alunni come persone complete, solidali, critiche e interessate a tutto. Riusciva a farlo grazie a un metodo tutto suo, quasi un “non-metodo”, basato sulle occasioni che di volta in volta si presentavano in classe con i suoi bambini, sulla voglia di stare con loro, di giocare e divertirsi per imparare.
Mi ha colpito una sua riflessione su quanto sia difficile insegnare, dice: “Bisognerà dimenticare sé stessi, le proprie preoccupazioni”.
Sì, naturalmente è difficile insegnare, per tutti, anche oggi, ma chi si cimenta come lui in questo tipo di insegnamento fantasioso, basato sull’ascolto costante dei propri scolari, sulla messa in discussione del proprio modo di stare con loro, utilizza una grande quantità di energie e tende a dimenticare tutto ciò che non fa parte di questa “famiglia” che è la classe, come le proprie personali preoccupazioni (il che, tante volte, è un bene anche per l’insegnante!)
Come si confrontava Caproni con la burocrazia scolastica?
Dipende: se per burocrazia s’intende la compilazione dei registri scolastici si confrontava benissimo, avendoli compilati costantemente, unendo alle riflessioni didattiche anche i pensieri propri dell’intellettuale e del poeta. Se parliamo invece del controllo asfissiante da parte dei direttori didattici sul suo operato, sulla palese contrarietà espressa dai suoi superiori riguardo al suo metodo d’insegnamento, credo che si sia arrabbiato moltissimo nei suoi trentotto anni all’interno della scuola italiana.
Il poeta difende il lavoro di maestro mentre intorno a lui tutti lo considerano quasi un “mestieruccio”.
Sì, lo scrive su uno dei registri dopo aver sentito questa affermazione da un giornalista che lo intervistava in occasione del Premio Viareggio, che vinse nel ’59: “Perché fa il maestrino di scuola, se è un poeta affermato?” Chi afferma questo, dice Caproni indirettamente tra le righe dei registri, non ha nessun rispetto né per i bambini, né per gli adulti che li accompagnano nella loro crescita di buoni cittadini. È invece un mestiere importantissimo e nobile, faticoso e appassionante, come la poesia.
Alcuni anni fa hai scritto un racconto dal titolo forse ironico, Giorgio Caproni e la capra, è una passione antica, quindi, quella per il poeta maestro?
Antichissima. Ho scritto questo racconto nel momento in cui stavo studiando i registri di Caproni per la prima volta, nel 2016, per preparare l’intervento a un convegno al Miur sugli archivi scolastici. È la trascrizione quasi fedele della pagina di uno dei registri, diciamo che il racconto l’aveva già scritto lui! Il titolo deriva da un episodio realmente accaduto in classe, ma non spoileriamo… lo si trova nella raccolta di racconti Capita a Monteverde!
Nel tuo romanzo Cuore agro hai narrato la storia della maestra Lidia Vitali. Epoche e circostanze molto diverse, ma hai trovato qualche analogia tra le due figure?
Direi che ci sono analogie che travalicano le epoche e le distanze: ogni maestra o maestro che mette al centro il bambino e sperimenta il rapporto educativo a doppio senso di marcia, cioè si lascia plasmare dagli alunni mentre plasma loro, si assomiglia. Ciò accade in tutti i tempi e luoghi. Non sai quante persone, quando giravo per presentare Cuore Agro, mi sono venute vicino per parlarmi della loro nonna o zia che ha insegnato con lo stesso amore, al nord, al centro e al sud Italia, sulle montagne, nelle pianure paludose, nelle periferie delle città. Anch’io ne avevo una!
E la tua esperienza d’insegnante si rispecchia un poco in quella del poeta?
Sì, adoro insegnare, anche se non sono eccezionale come lui! Confrontarmi con la sua esperienza mi ha dato coraggio, mi ha aiutato a stringere i denti nei momenti più faticosi.
I suoi allievi lo ricordano con affetto?
I suoi allievi lo ricordano con amore, è diverso. Le persone che ho intervistato, che lo hanno avuto come maestro in epoche diverse, debordano di riconoscenza e di ammirazione. Direi che questa è una forma di amore, parlare di affetto è troppo poco.
Giorgio Caproni ha trovato della poesia nella scuola, secondo te? Il suo lavoro di maestro ha influenzato in qualche modo i suoi versi?
Sì, è quello che mi sono proposta di spiegare nell’introduzione, perché nonostante lui tenesse separate le due dimensioni (i suoi bambini non sapevano che era un poeta e, d’altra parte, non ha mai scritto poesie dedicate alla scuola) queste si intrecciavano continuamente nella sua grande umanità; in questo senso il maestro ha nutrito il poeta e viceversa.