L’ultima immagine

Un artista predispone con cura i colori con cui dipingere i suoi ultimi istanti.

La domenica è dedicata ai racconti: quello che vi presentiamo oggi è di Chiara Sardelli una, lettrice della rivista.

 

Ormai ero giunto a quella svolta della mia vita in cui tutto mi sembrava insignificante, le persone a me care mi avevano abbandonato, le amicizie si erano rarefatte e dileguate, sperimentavo quello speciale stato dell’anima in cui ciò che prima mi dava calore e consentiva l’espandersi del mio essere vitale si scioglieva come neve al sole.

L’ispirazione che mi aveva sorretto nella mia vita d’artista e mi suggeriva temi e tonalità, consegnandomi inerme all’impero delle emozioni, si era ridotta al lumicino.

Le mie tele parlavano per me: si susseguivano con monotona ossessione, sempre lo stesso sguardo assente, chiuso al richiamo del mondo, preferivo isolarmi tra le mura della casa e ritraevo gli interni. Talvolta solo muri, indagati tra le pieghe della calce, oppure impropriamente illuminati dal fascio di luce che trapelava da un’anta della persiana, rimasta socchiusa per distrazione. Talaltra piani inclinati che creavano strane geometrie, giochi perversi di vuoti e di pieni.

La calura estiva quel pomeriggio non mi dava tregua. Avevo abbandonato la lettura e, per una specie di regola del contrappasso, più ero alla ricerca di pensieri profondi e più mi concentravo sui dettagli, sugli aspetti minuti. Di quella lettera a Lucilio, sul suicidio, a me colpiva il numero, settanta. Settanta volte sette pensavo e mi sembrava un ammonimento, forse un anelito verso l’eternità.

Sapevo di essere giunto alla meta, mi sentivo impegnato a pianificare la mia uscita dal mondo. Con un ultimo residuale moto di hybris mi rifiutavo all’idea che l’Altissimo disponesse per me. Eppure mi ero accostato con umiltà a quelle pagine, spogliavo il gesto, che mi prefiguravo in futuro, di ogni unicità, tutto era già stato scritto prima e meglio di ora.

Mi riscossi alzandomi, intenzionato a raggiungere il bagno nel quale avrei rintracciato il rasoio che usavo in alternativa a quello elettrico. Durante il percorso, la persiana aveva le ante accostate, d’istinto mi affannai a richiuderla, mi lasciai convincere da quei moti involontari che l’abitudine ti rende cari. Lo sguardo si soffermò sull’aia. Il sole alto nel cielo mi ferì con l’usuale baldanza. Quante volte avevo ritratto quello spaccato di natura operosa, il forcone abbandonato in appoggio al tronco dell’albero, i covoni non ancora ultimati, il barroccio con sopra gli utensili agrari o qualche coccio mal ridotto e, disteso sulle sue ruote, chissà quale umile contadinello accovacciato per la sosta con il suo cappello di paglia.

Un senso di rincrescimento e di nostalgia mi pervase, ma fu questione di pochi attimi. Ricacciai la tentazione della tristezza, così non mi fermai a riflettere su quanto e come gli ultimi anni mi avessero cambiato. Non avrei saputo sostenere il senso di colpa per quell’isolamento caparbio che aveva marcato la mia distanza dal mondo.

Spostatomi nella cucina, vi trasportai il cavalletto.

Mi muovevo a scatti, un’ansia mi spingeva a comporre l’immagine, l’ultima immagine che avrei ritratto. Il tavolaccio mal squadrato in semplice legno di castagno attrasse la mia attenzione e ci simpatizzai. Lo posizionai di traverso. Qualcosa tuttavia mi disturbava. Mi affrettai verso la piattaia e, aperto uno dei cassetti che divideva l’alzata dalla parte inferiore del mobile, con ansia rimestai all’interno e distolsi lo straccio cencioso di un grigio ceruleo che un tempo era stato modellato a comporre la camicia maschile. Sebbene di modeste dimensioni, fu sufficiente a ricoprire nella sua interezza il piano del tavolo, anzi con un lembo spiegazzato e rialzato la stoffa accolse i residui del pasto frugale: gli acini d’uva sgranati dal raspo, i pomi di un rosso acceso, unico accenno alla passione vitale, la brocca di rame, rifulgente: come la coppa, ricolma a metà di sola acqua, in esse si specchiava la fiammella stentata del cero che ero riuscito a recuperare, nascosto in qualche anfratto della casa. Mi accomodai per terra, la tavolozza e i colori accostati sul tappeto a portata di mano. Trassi un lungo sospiro prima di rimirare la natura morta. Presto mi risvegliai dal torpore che mi aveva colto di sorpresa e mi misi all’opera, di buona lena. Mi piacque pensare che la fiammella scandiva il tempo che mi rimaneva. Dipingevo con la mano sinistra e non era la prima volta. Nella mano destra stringevo il rasoio. Meglio utilizzare questa seconda che nell’ultimo gesto, senza tremare, sarebbe riuscita vittoriosa.

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