Il 16 ottobre del 1943 le SS invasero il ghetto ebraico di Roma, si scatenarono tra le vie del Portico d’Ottavia, e rastrellarono 1024 persone. Tra loro anche la madre del piccolo Emanuele Di Porto. Per non essere costretta a portarlo con sé verso una morte certa, la madre lo allontana ed Emanuele si ritrova da solo mentre le squadracce portano il terrore nel quartiere. Come farebbe forse qualunque bambino anche oggi, il piccolo cerca rifugio dove spera di non essere raggiunto e cerca di allontanarsi dall’orrore. Così sale su un tram. In questo modo incredibilmente si salva. La scrittrice Tea Ranno ha raccolto a ottanta anni di distanza le parole di quest’uomo che è ormai uno degli ultimi sopravvissuti di quei giorni terribili. Ne è nato un libro emozionante, Un tram per la vita (Il Battello a vapore 2023), tenero e commovente seppure nella narrazione onesta e senza sconti della violenza nazifascista. Rivolto probabilmente ai ragazzi ma che tutti dovrebbero leggere. Io l’ho letto e ho deciso di conversare con Tea su questa straordinaria avventura di un bambino tra gli orrori del mondo.
Arrivo al capolinea di Monte Savello, il tram sta per partire, salgo, mi accosto all’uomo che stacca i biglietti.
– So’ ebreo, – gli dico in un sussurro – i tedeschi me stanno a cerca’.
Lui non perde tempo manco a guardarmi, mi dice solo: – Vie’ qua, vicino a me. Nun te mòve!
E così faccio.
E il tram parte, e di mia madre e degli altri non ne so più niente.
Questo è il momento del libro in cui il bambino ebreo viene salvato dal rastrellamento perché viene protetto dagli autisti dei tram, detta così sembra l’invenzione di uno sceneggiatore, sembra una storia inventata! Come nasce questo libro così particolare?
Da un caso. Una sera, all’inizio del 2022, mi capitò di vedere uno stralcio di un programma televisivo in cui si parlava della razzia nel ghetto, a Roma, il 16 ottobre 1943; mi soffermai sulle scene in cui un bambino si salvava dai nazisti salendo su un tram e rimanendovi per tre giorni. Mi sembrò una storia bellissima, sia per il coraggio dei tramvieri, che rischiarono la vita “nascondendo” quel bambino, sia perché mi sembrò straordinaria l’idea del nascondersi restando sotto gli occhi di tutti. Così cominciai a fare ricerche e, grazie a un amico sacerdote che vive a Gerusalemme, ebbi il numero di telefono di Emanuele Di Porto, il “bambino” del tram. Non lo chiamai subito, temevo un’invadenza irrispettosa dell’intimo di un uomo che aveva vissuto una tragedia che forse non voleva ricordare. Il mio amico insistette. Così, dopo un mese circa, chiamai Emanuele e ci incontrammo. Tutto sarebbe potuto finire lì: una chiacchierata, la rivisitazione di un tempo atroce, il vedere, come in un film, i fatti di quel sabato nero che lui evocava. Al momento del congedo, però, mi abbracciò forte, era ancora commosso per quanto aveva raccontato e la sua commozione passò a me con una forza straordinaria: mi innamorai del bambino del tram, della sua vicenda. Così mi dissi che quella storia non solo avrei voluto scriverla, ma anche fare in modo che venisse pubblicata, e pubblicata subito. E così, in effetti, è stato.
Com’è diventato un uomo che è vissuto fino a 91 anni, dopo essere stato bambino nella tragedia del 1943?
Un uomo fortissimo, una roccia; capace di trovare sempre una soluzione a ogni problema, determinato a non lasciarsi abbattere, a cogliere, di ogni giorno, il senso e il valore. Un grande esempio, per me.
Cos’è rimasto in lui di quello che è stato? Secondo te ha superato in qualche modo quell’epoca?
È rimasto l’amore per sua madre, vivo, vivissimo, ne parla con ammirazione, senza enfatizzare però, com’è nel suo carattere. «Era una madre de famiglia», mi ha risposto (in romanesco) quando gli ho chiesto di parlarmi di lei. «Cercava di non farci mancare niente. Fino a quando c’è stata lei, almeno una volta al giorno abbiamo mangiato. Dopo che l’hanno portata via, non è stato più così».
È stato più importante scrivere o ascoltare in questo caso?
Scrivere. Se l’avessi soltanto ascoltato, avrei dimenticato i dettagli, le emozioni, le suggestioni che il racconto del “bambino” mi dava. Scrivere mi ha riportato con più forza al suo tempo; è come se fossi diventata lui: ho potuto guardare coi suoi occhi, avere i piedi sempre bagnati per via delle scarpe di pezza, avere la pancia vuota e mangiare la frutta acerba – “Che allappava” – presa dagli alberi, scaldarmi al fuoco del baule fatto a pezzi e bruciato nelle settimane in cui c’era troppo freddo e neanche un pezzo di carbone.
Hai tratto ispirazione da qualche altro testo dei tantissimi pubblicati su questi argomenti, oppure hai seguito un percorso del tutto individuale?
Ho seguito un percorso tutto mio. La mattina incontravo Emanuele a piazza delle Tartarughe, passeggiavamo per il ghetto, per Campo de’ Fiori, per largo di Torre Argentina e parlavamo, poi, dopo esserci salutati, mi appartavo e scrivevo quello che avevo ascoltato. Intanto, però, avevo già cominciato a studiare: volevo contestualizzare, raccontare alcuni dei fatti accaduti a Roma tra il 1943 e il 1945, entrare nella storia di questa città in cui vivo da ventotto anni e che solo adesso, dopo averla vissuta grazie a Emanuele, sento mia quasi quanto la Sicilia.
Immagino che la documentazione storica sia stata importantissima per scrivere Un tram per la vita, no?
Indispensabile. Non volevo dare soltanto la restituzione emotiva di una tragedia personale, ma ricostruire, senza commettere errori, il clima di quel tempo, le leggi di quel tempo: cosa faceva il re, cosa Badoglio, cosa Pio XII, cosa i Gap, cosa Kappler… La soluzione finale? L’inganno dei cinquanta chili d’oro? Sì, certo. Ma anche l’attentato di via Rasella, la strage delle fosse Ardeatine, l’assalto al forno Tesei, con le dieci mamme fucilate dai nazisti sul ponte dell’Industria solo perché erano andate a cercare del pane, della farina per dare sollievo ai figli tormentati dalla fame. Ho consultato testi cartacei, documenti d’archivio, giornali dell’epoca, ho visto molti filmati, ho cercato in rete fonti attendibili.
Una parte interessante è l’uso del dialetto romano, che non è il classico romanesco dell’Ottocento, però non mi pare nemmeno quello dei coatti, sbaglio?
È il romanesco di Emanuele. Non avrei potuto mettergli in bocca l’italiano standard, avrei snaturato il personaggio – la persona; l’ho ascoltato a lungo, mi sono intrisa del suo modo di parlare e ho cercato di restituirlo senza renderlo stucchevole o – peggio – finto. Ma è da ventotto anni che ho il romanesco nelle orecchie: se anche non lo parlo, so bene come suona.
Adesso, quando passeggi per quelle vie di Roma, le guardi con occhi diversi rispetto a prima?
Sì, adesso guardo e mi torna in mente il film di quegli anni, cammino per la Roma emotiva, fatta non solo di pietre ma anche delle persone che l’hanno abitata e la abitano, che l’hanno vissuta e continuano a viverla, che hanno lottato per lei, che ci sono morte. «Tu con me stai vivendo la Storia», mi dice spesso Emanuele, ed è così.
Secondo te, a chi si rivolge questo romanzo? Chi è il suo lettore ideale?
Il romanzo si rivolge a tutti. È stato pensato per i ragazzi perché mi è sembrato importante che arrivasse nelle scuole, che fosse letto in un’età in cui, piano piano, ci si forma – anche grazie agli insegnanti – un giudizio critico. Ma sono molti gli adulti che continuano a scrivermi dicendo che non è solo un libro per ragazzi.