“Agatha” di Claire Luchette (Atlantide)

Un libro fatto di scintillante e dolorosa consapevolezza, è il cammino, a tratti arguto e potente, di una ragazza che rivendica la propria unicità.

Un incipit folgorante che già racconta al lettore la vita senza scosse, che vivono, arrese e serene, Agatha e le sue giovani consorelle, Frances, Therese, Mary Lucille, tutte con meno di trent’anni. Ognuna di loro ha un motivo per aver preso i voti in giovane età e aver rinunciato al dolore e al piacere, il tocco tenero e crudele di una mano che ti tocca con desiderio, il senso di angoscia che può darti quando la stessa mano non ti desidera più. Per Agatha, che vive in una sorta di bolla sospesa, la vocazione non è arrivata accompagnata da luci improvvise nel buio a da voci miracolose, uscite dall’alto dei cieli, ma piuttosto è stata la risposta a un rifiuto, netto, proprio del desiderio, che tanto scompiglio e dolore ha provocato nella sua vita. Orfana di madre a 11 anni, Agatha, che ancora si chiamava Isabelle, ha vissuto con l’anima inceppata, senza parole che non fossero quelle urlate e nascoste di chi non si sente a suo agio nel corpo. Come disse una suora estremamente famosa, “Mi faccio suora per fuggire i pericoli del mondo”, ed ecco Agatha è proprio così: in lei il velo agisce per sottrazione, nascondendo o comunque mortificando la femminilità al mondo, spera che il desiderio si allontani da lei. Essere suora significa fare voto di povertà, castità e obbedienza, e sostanzialmente tutto procede bene nella diocesi di Lackawanna, in Pennsylvania, quando, a causa di improvvisi tagli al budget, il convento viene chiuso, l’anziana Madre Superiore, Roberta, che vegliava su di loro imponendo regole e dispensando una sorta di amore materno benevolo e protettivo, viene mandata in una casa di riposo e le 4 giovani suore inviate in una casa famiglia nel Rhode Island, dove gli ospiti sono ex detenuti o persone che cercano di superare la dipendenza da droghe.

Quello che ancora non sanno ma che Agatha, rispetto alle sue consorelle, intuisce, è che la chiusura del convento è connessa ai cospicui risarcimenti versati dalla Chiesa per le vittime di pedofilia, che dopo decenni di silenzio hanno bucato il muro di gomma di oltraggiosa omertà.

Durante la permanenza nella casa famiglia Agatha scopre la gioia piccola di parlare con persone ferite, che comunque, pur non credendo nei valori della Chiesa Cattolica, sono esseri autentici, che fanno cose vere, ridono, piangono e sono reali. Agatha riapre, prima a piccoli spiargli, poi in maniera sempre più potente, la porta alle emozioni: riprende a pattinare, da sola e con la gioia colpevole di un’adolescente sfuggita al controllo dei genitori, ma soprattutto comincia a insegnare geometria in una scuola e il contatto con la prorompente vitalità delle sue alunne le rammenta dolorosamente che il desiderio che ha cercato di reprimere era considerato proibito o scandaloso o un peccato da dimenticare. Inizia a vedersi come una persona e non come una parte di un gruppo compatto, tanto che quando chiede consiglio su un evento di cui è stata spettatrice a scuola, un bacio tra due ragazze, la reazione delle altre la blocca. Frances, Therese e Mary Lucille la incitano a denunciare le alunne, convinte che “se presa in tempo la devianza può essere repressa” e le ragazze riavviate alla normalità. Le cesure insanabili tra vita e regole imposte dalla vita religiosa portano Agatha a una maturazione profonda e dolorosa, svelando le contraddizioni tra le restrizioni fisiche ed emotive, che ormai vede come insensate, della Chiesa Cattolica e del resto del mondo.

Una storia che porta a riflettere su quale sia il ruolo delle donne in un’organizzazione ancora fortemente appannaggio degli uomini, gerarchica e repressiva, dove siamo sempre viste come seconde scelte, e il potere è sempre riservato all’altra metà degli abitanti della terra. Agatha è un libro fatto di scintillante e dolorosa consapevolezza, è il cammino, a tratti arguto e potente, di una ragazza che rivendica la propria unicità, il proprio diritto ad amare chi sceglie di amare, senza che questo le precluda necessariamente l’amore di Dio.

 

Madre Roberta dettava le regole: niente gomme da masticare, niente biciclette, niente frutta secca, niente animali domestici. Ogni mattina preparava il caffè e ogni sera cucinava la cena. Due volte l’anno cuciva i nostri abiti, li faceva su misura con metri di tessuto misto lana di colore nero. Ricamava i cuscini, faceva il punch con il preparato in polvere, scriveva le omelie per il prete.

Tutto ciò che sapevamo della vita ce l’aveva insegnato Madre Roberta.

Ma ecco qualcosa che adesso so bene, qualcosa che all’epoca non ero in grado di esprimere a parole: la linea dritta è un mito. Tracciate una linea tra gli eventi della vostra vita. Guardatele da vicino, una qualsiasi di queste linee, e capirete cosa intendo. Sulla Terra, una linea è semplicemente un insieme di protuberanze. Non esiste niente di dritto.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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