La casa editrice Nero press ha da poco mandato in libreria una nuova edizione di un classico della letteratura americana, Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Operazione non nuova, visto che di edizioni ce ne sono state alcune altre dopo la prima classica di Fernanda Pivano, ma che trovo senz’altro interessante, non fosse altro per la veste grafica, che senza furbizia ma con grazia innovatrice sembra fatta apposta per far attraversare alle poesie di Edgar Lee Masters non solo il secolo in cui vennero composte e pubblicate la prima volta (tra il 1914 e il 1916, prima con le singole poesie su una rivista, poi tutte insieme in un singolo volume), ma anche quello che stiamo vivendo, che da quel tempo sembra piuttosto lontano.
Le illustrazioni di Valeria Zaccheddu rendono il libro molto bello e lo portano in un immaginario pop e gotico contemporaneo, che non dispiacerebbe – secondo me – al Tim Burton che ha firmato la nuova serie con Mercoledì della famiglia Addams. Non che ci sia aria di televisione superficiale o commedia nell’opera, anzi resta forte anche se aggiornato alla nostra epoca l’aspetto malinconico e realistico di quello che L’Antologia è: una rassegna di morti che raccontano la loro vita per rivelare l’ipocrisia e la falsità in cui sono stati costretti a vivere. A firmare le nuove traduzioni sono Alberto Büchi, Armando Rotondi, Matteo Gambaro e Anicka Pasi. Büchi firma pure la prefazione che dà conto in modo preciso dell’operazione, inserisce Masters tra gli autori cult di varie generazioni, ma oltretutto descrive l’incontro delle due menti che furono dietro la prima traduzione italiana, realizzata con coraggio nel 1943 durante il fascismo: Cesare Pavese e Fernanda Pivano.
Vi propongo ora questa pagina così intensa e poi una breve intervista con Alberto Büchi. Buona lettura!
Io ho sempre immaginato più o meno così, il giorno in cui Pavese diede appuntamento alla Pivano per portarle la prima copia di poesie – una selezione – da lei tradotte. Ho immaginato che l’incontro debba essere avvenuto a fine febbraio, perché la prima edizione italiana porta la data del 9 marzo 1943. Pensate alla guerra: la stazione di Porta Nuova era già stata bombardata una volta, se non sbaglio, ma venne bombardata ancora poche settimane dopo il loro incontro. Pensate poi al freddo dell’inverno torinese, alle ristrettezze del conflitto, a quanto fosse difficile o penoso – nel caso di Pavese – ma allo stesso tempo importante (altrimenti non l’avrebbe fatto) viaggiare da ricercato, da un paese all’altro, in quel periodo. E tutto per un libro di poesie, per una ragazza a cui voleva bene.
È tardo pomeriggio e fa ancora molto freddo, le strade sono polverose. Nella buia Torino comincia a salire un po’ di nebbia nelle vicinanze della stazione di Porta Nuova. Fernanda è infreddolita ma emozionata, anche incuriosita. Cesare le ha chiesto di incontrarsi in un Caffè per bere una cosa calda e per una novità importante. Allora Nanda – così la chiamano gli amici e chi le sta vicino – si presenta puntuale. Davanti all’ingresso esita un attimo, poi entra; dopo due passi si toglie lo scialle e sente sotto le suole un sottile strato di polvere umida che scrocchia, quasi fango. Non c’è molta gente e Cesare non si vede. Un cameriere dalla livrea un po’ sciupata accenna ad accompagnarla a un tavolino, ma lei preferisce il bancone.
«Aspetto una persona, non resteremo molto» dice, fermandosi davanti a un puttino intagliato e dorato che orna la parte bassa del bancone.
«Nessun problema, signorina» risponde l’uomo.
Nanda si sfila i guanti ma tiene il cappottino scuro. Si aggiusta i capelli con un leggero tocco della mano, non le arrivano nemmeno alle spalle. Il viso tondo, le labbra sottili e un leggerissimo strato di trucco. Un po’ di ritardo Cesare lo porta sempre e oltretutto è già ricercato; allora si prepara e attende con calma. E, infatti, lui arriva poco dopo. Fa il suo ingresso trafelato, muove a destra e a sinistra il volto lungo e mezzo coperto da una buffa sciarpa e la individua subito. Accenna un sorriso – lei lo capisce dagli occhi – e alza la mano in un saluto. La raggiunge, mentre allarga solo un poco le spire della sciarpa perché non vuole essere riconosciuto. Nanda pensa divertita che è curioso come una persona intelligente come lui possa ritenere che una sciarpa sia sufficiente per mantenere l’incognito. In bocca, tra una piega e l’altra, lui ha la sua pipa. Senza dire nulla fa per accenderla, ma si accorge che l’indumento lo impaccia; in un paio di secondi si propaga attorno l’odore di tabacco.
Nel frattempo il cameriere ha portato due tazze di porcellana con una brodaglia marrone scura e due paste secche su un piattino. Fernanda tocca la tazza, Cesare si limita a scrutare la superficie del liquido.
«In tempi di guerra non abbastanza caffè e non abbastanza cioccolata…» bofonchia lui. Un attimo dopo si guardano negli occhi. Lui li ha lucidi, lei sente di averli allo stesso modo. Cesare sorride, si sposta la pipa da una parte all’altra della bocca, come fa sempre, e poi infila una mano in tasca.
«Eccolo, Gôgnin!»
Poggia tra le tazze un libretto smilzo dalla copertina verde sbiadita, titoli in nero e bianco, e un’incisione in seppia. Uno dei morti disegnati nell’atto di levarsi dalle tombe è una donna dai seni vagamente scoperti.
«Eccolo» ripete «Il tuo San River».
Nanda lo prende e lo guarda bene. Con la mano ancora intorpidita dal freddo accarezza le pagine ruvide. È una selezione delle poesie e il libro le sembra un po’ piccino rispetto all’originale. L’emozione è lo stesso grande.
La mia Spoon River, pensa con un misto di vergogna e pudore, gli stessi di quando lui – Cesare – ha trovato nel cassetto della sua scrivania il quaderno con la traduzione che lei ha fatto di sua iniziativa. L’occhio le cade ancora sull’incisione in copertina, verso l’immagine abbozzata, vaga, della donna a seno scoperto. La sfiora coi polpastrelli. Chissà cosa penserà il Minculpop di questo seno…
La prima edizione dell’Antologia di Spoon River sarebbe uscita nel giro di un paio di settimane. E quasi subito sarebbe stata ritirata dal mercato, per poi tornarci con una copertina differente.
Alberto Büchi, qual è stata la tua sensazione quando hai messo le mani a un testo così famoso come quello di Edgar Lee Masters?
Ho subito pensato che sarebbe stato un lavoro difficile, non tanto per la fama dell’opera, quanto per il fatto che si trattava di poesia. Ho avuto occasione di lavorare su testi classici anche importanti ma mai poesia. Il primo pensiero è stato questo. Come si traduce la poesia? In questi casi la prima cosa da fare è rimettersi sui libri e studiare un po’, calarsi nell’opera. Durante questa fase prendi il testo originale e acquisti, o riacquisti, familiarità. Lessi l’Antologia di Spoon River parecchio tempo fa, non posso dire che sia stata una prima lettura, ma quasi.
Un aspetto di cui ho sempre tenuto conto è il rispetto. Per l’autore e il suo stile, ma anche per i lettori che hanno amato Spoon River negli anni. E anche per la traduzione autorevole di Fernanda Pivano.
Cosa pensi della scelta di proporla in una versione quasi da graphic novel, così lontana da quella famosa bianca della Einaudi?
L’idea è sicuramente bella e, considerata la fama dell’Antologia, credo che sia anche l’unico modo per aggiungere valore o interesse a una nuova edizione. Le illustrazioni di Valeria Zaccheddu sono oniriche, fantastiche, evocano emozioni che ben si sposano con le poesie. La prima volta che le vidi mi fecero venire in mente lo stile di Marjane Satrapi.
Secondo te le traduzioni del 1943 sono ormai invecchiate?
Come dicevo prima il rispetto è un obbligo. Ma è un obbligo anche perché, per quanto mi riguarda, il fascino di Spoon River nasce dalla storia da film della prima traduzione. Cesare Pavese (e i suoi amori e la sua vita), gli incontri più o meno clandestini, l’Einaudi, la Guerra, Torino, la censura, la curiosità intellettuale della Pivano…
Non si può negare, però, che tutte le traduzioni subiscano un invecchiamento. Di recente persino un’opera colossale e sperimentale come Ulisse di Joyce è stata ritradotta. E persino il Signore degli Anelli.
C’è una poesia a cui sei legato particolarmente?
No, non penso. Però, una di quelle che mi torna di più in mente forse è “Wendell P. Bloyd”.
All’inizio mi accusarono di disturbo della quiete pubblica,
non essendoci una legge contro la blasfemia.
Poi mi rinchiusero come pazzo
e fui percosso a morte da una guardia cattolica.
La mia colpa fu questa:
dissi che Dio mentì ad Adamo, e lo destinò
a condurre una vita da stolto,
ignaro che nel mondo esistesse tanto il male quanto il bene.
E quando Adamo ingannò Dio mangiando la mela
e comprese la menzogna,
Dio lo cacciò dall’Eden per non permettergli di cogliere
il frutto della vita immortale.
[…]
Un “blasfemo”, una persona non capita e odiata. Forse una persona illuminata, addirittura. E, per tutte queste cose, uccisa. Una cosa disarmante. Attuale.
De André la canta così:
Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino
Non avevano leggi per punire un blasfemo
Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte
Mi cercarono l’anima a forza di botte
[…]
Questa versione fa pensare a fumetti tipo Dylan Dog, è per caso un Edgar Lee Masters horror?
No, non credo che si possa parlare di un Edgar Lee Masters horror. Però è innegabile un fascino cupo e oscuro. Nella mia prefazione cito Dylan Dog perché la mia generazione è cresciuta con questo fumetto e le sue storie. O meglio, parlo per me, io sono cresciuto con le storie di Sclavi. Nelle righe di introduzione rievoco certi ricordi di quando facevo medie e liceo, periodo in cui subivo il fascino del sovrannaturale e periodo in cui lessi le prime poesie. L’Antologia di Spoon River, ovviamente, si presta molto all’immaginario sovrannaturale; anche per questo custodisco nello stesso “cassetto mentale” il racconto di Maupassant La Morta del 1887.
Una casa editrice di genere come la Nero Press cosa ha trovato nell’Antologia?
Spoon River è una raccolta di memorie. Io credo che in Nero Press abbiano trovato questo. L’affetto per un’opera che avvicina passato e presente, per i temi universali che emergono dai singoli epitaffi e per quello che è stata la prima lettura giovanile di ognuno.
È bastato ricevere le illustrazioni in redazione con la relativa proposta per far partire il progetto.
Alberto Büchi nasce a Milano nel 1978. Il cinema è il suo primo grande amore e dopo la laurea si traferisce a Londra per frequentare la New York Film Academy. Negli anni seguenti lavora in pubblicità e insegna. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su antologie come “Strane Visioni” (Edizioni Hypnos, 2016), il volumetto bifronte “Demoni” (Nero Press, 2017) e “80 voglia di ammazzarti” (AlterEgo Edizioni 2020). Il suo romanzo L’Eroe delle Terre Morenti (Nero Press, 2015) è uscito negli Stati Uniti col titolo Frontier Wanderer (Caliburn Press/Siento Sordida, 2015). Nel 2016 ha pubblicato Fuoco Fatuo (AlterEgo Edizioni) e nel 2021 L’Angelo Trafitto (Nero Press).