Forse Esther, il romanzo di Katja Petrovskaja pubblicato da Adelphi nel 2014, è un viaggio nella memoria
di una famiglia ebrea dispersa tra Russia, Polonia e Austria. Un viaggio sulle tracce degli scomparsi, di chi è solo un nome e cognome, qualcuno citato quasi per caso nei racconti di qualche zia o nonna.
E, a volte, nemmeno quello.
Sul risvolto della copertina leggo che l’autrice ha vinto il Premio Ingeborg Bachmann e il Premio Strega
Europeo. Leggo che Katja Petrovskaja è considerata l’erede di Sebald. Cosa chiedere di più? Non sapevo,
però, che il meglio doveva ancora arrivare, lì, a pagina 21 del romanzo:
“Nella mia famiglia c’era di tutto, avevo pensato inorgoglita, un contadino, parecchi insegnanti, un agente provocatore, un fisico e un poeta, ma in particolare c’erano leggende. C’erano […] poi anche Arnold, Ozjel, Zygmunt, Mischa, Maria, Forse Esther, forse una seconda Esther, e la signora Siskind…”.
Sì, il meglio doveva ancora arrivare. Quel “Forse” scritto in maiuscolo, quasi fosse il cognome stesso di
Esther, e che si intravede appena in questa lista di scomparsi, è qualcosa che brilla. In quel “Forse Esther”
c’è tutto il senso del libro e di quel viaggio che la Petrovskaja ci fa fare, pagina dopo pagina, foto dopo foto, e in cui ritroviamo così tanto anche di noi stessi.
Buona lettura!