La Confraternita dell’uva di John Fante (Titolo delle precedenti pubblicazioni: La Confraternita del Chianti)
Henry, voce narrante, si è allontanato da ragazzo dal paese di origine e da suo padre, cui fa del tutto per non somigliare. La notizia dell’imminente divorzio degli anziani genitori lo convince a tornare a casa. Ritrova, intatto, il repertorio di bassezze e brutalità di suo padre, Nick Molise, erotomane seriale a dispetto della brutta cera. Quella di uno che sta per tirare le cuoia. Per Nick, scappato da un destino asfissiante, privo di vie d’uscita, la morte di Nick Molise sarà l’occasione di confronto decisivo con suo padre. Perché, ce lo dice Fante, la cosa più grave e irreparabile che possa accaderci nella vita è la morte del padre. Occasione di una metamorfosi che lascia senza fiato, nella vita come in questo romanzo. Avvincente viaggio nella sensibilità maschile dove, lungo il tragitto, come in un rovesciamento spazio-tempo, cambiano tutte le coordinate e i sistemi di riferimento fino a capovolgere il senso di quel che vedevi all’inizio: quel che era pulito e luminoso alla fine appare parecchio meno puro e disinteressato. Mentre, al contrario, la bassezza e la brutalità man mano sgusciano dall’ombra per rivelare luce nascosta: nelle mani nodose di lavoro, nell’onestà dell’opera ben fatta, nella fierezza di un “perfetto artigiano”. E succede quando Nick muore, lontano dalla famiglia e dall’ospedale, insieme agli amici di bevute. Quelli che, rispettando il suo amor proprio, avevano ammirato e tifato il suo lavoro. Con cui ha versato il fallimento, le ingiustizie, l’inutilità dei propri sforzi nell’allegra autodistruttività del vino che li ha affratellati più del sangue. “Meglio morire tra amici che morire tra i dottori”. Del resto, il vecchio emigrato italiano non ha mai trovato spazio tra i wasp di Sant’Elmo, che lo guardavano con sospetto. Il funerale getta nuove sfumature perfino sull’amore coniugale della signora Molise «Mi ha sempre dato tante preoccupazioni fin dal giorno che ci siamo sposati. Non sapevo mai dove fosse, che cosa stesse facendo con chi stava (…) E ora è finita non mi devo più preoccupare. So dov’è. E che tutto è a posto.»
Nick è uno scalpellino fiero di quel che ha costruito con le sue mani. Tanto che va incontro alla morte per cimentarsi nella creazione di un affumicatoio per carne di cervo. Da costruire in cima a una montagna. “Ancora un muro da costruire per guadagnarsi il rispetto degli amici.” Ma questa volta trascina il recalcitrante figlio Henry ad aiutarlo. È sempre stato il cruccio del vecchio: nessuno dei suoi figli ha voluto saperne di ripercorrere le sue orme, nessuno ha apprezzato quella sua arte di scalpellino, che lo rende tanto fiero di sé.
Da piccolo portava Henry ad ammirare il suo lavoro, per affezionarlo all’arte. Sognava l’insegna Molise & figli, scalpellini.
«Quello che vedi è un edificio passato indenne attraverso quattro terremoti (…) Cos’è che non si può vedere?»
«Le crepe»
«Perché?»
«Perché l’hai costruito tu»
Henry, lo scrittore che vive sulla costa assolata, ritrova attorno a sé la vita aspra, monotona e povera da cui lo ha salvato solo la lettura dei Fratelli Karamazov. “Dostoevskij mi cambiò. Mi rivoltò come un guanto. Capii che potevo respirare, potevo vedere orizzonti invisibili (…) Era tempo di diventare uomo, di lasciare San Elmo e andarmene nel mondo. Volevo pensare e sentirmi come Dostoevskij. Volevo scrivere.” Continua a chiedersi, Henry, perché mai adesso si sia lasciato convincere a restare. Per giunta, la costruzione di un semplice affumicatoio per carne di cervo è resa più dura dalla pretesa dell’uso di un “quarzo alabastrino (che) va bene per le tombe (…) per i muri è troppo pesante troppo difficile da manovrare.” E dall’ubicazione, in cima a montagne scabre. Solo il vinello di Angelo Musso garantisce l’energia per resistere all’abbrutimento e alla fatica di quel lavoro. Proprio come Henry aveva temuto, la vita a Sant’Elmo non offre vie d’uscita. Circolo vizioso in cui ciascuno è vittima della prepotenza e degli abusi di qualcun altro e, più si sente vittima, più cerca di rivalersi su qualcuno ancora più debole di lui. Perfino l’imprevedibile, minuta, anziana e sensuale signora Ramponi si vendica dei maltrattamenti subiti dal marito, mostro vero, il più mostro di tutti, attirando i cervi nella sua veranda. Semina esche tra la neve e, senza inseguimenti né rischi inutili, li ammazza sparando un colpo dritto in mezzo agli occhi. Fa le stesse cose, segue la stessa logica prepotente di quel bruto di suo marito, Sam Ramponi. Che truffa soldi e lavoro e buona fede per la gioia e la soddisfazione di imbrogliare e vincere con l’astuzia, dominare e umiliare, schiacciare gli altri. Tutti quelli che appaiono deboli di fronte ai forti, si dimostrano pronti ad attaccare chi è più debole proprio quando non si può difendere. Al gioco al massacro sembrano partecipare tutti, uomini e donne, ciascuno con gli strumenti di offesa o di controllo manipolatorio a propria disposizione. Proprio così: tutti si rifanno delle offese e ingiustizie subite su chi è più fragile e credulo. Sul più innocente di tutti. In una perenne caccia al più vulnerabile o al più isolato dal branco. Finché sarà così, nessuno ne uscirà salvo.
Non fosse che, a questo punto del romanzo, qualcosa spezza il perfido incantesimo.
Le fatiche, sproporzionate alle forze, hanno compromesso irreversibilmente le condizioni fisiche del vecchio Nick. E, a fine lavoro, il signor Ramponi, prepotenza fatta persona, rifiuta di pagare e deride l’opera. Ed è come se Henry vedesse suo padre per la prima volta. Nick non è come gli altri. Ha qualcosa che lo salva, che gli permette di resistere con la schiena dritta di fronte a quelli più forti, più prepotenti di lui, di non mostrarsi debole davanti a un vero squalo. Con lampi di dignità e di ostinazione insegue il riconoscimento, sempre negato, al suo valore, alla sua abilità e alla sua fatica. Il genio e la commovente grandezza di Fante mettono i brividi man mano che il ritratto di un re degli sconfitti si affianca alla crudele autoironia di Henry, il figlio scrittore affermato. Da qui in poi l’autore, John Fante, infatti cambia bersaglio e sferra la sua zampata di genio: smette di puntare lo sguardo severo e critico contro i difetti, marchiani e già evidenti a tutti, del padre Nick Molise. Henry, il figlio-scrittore, di colpo, rivolge il rasoio del sarcasmo contro sé stesso. Henry inizia a fare i conti con sé stesso e ci fa vedere i suoi, di difetti. Perché è un po’ meno figlio, finalmente. Non gli basta più prendere le distanze e sentirsi diverso da Nick per sentirsi soddisfatto di sé e credersi un uomo come si deve. Ha cercato riscatto nella scrittura e in un matrimonio simpatico (Non era amore. Era voglia, pure meglio), ma ora torna al punto di partenza.
Avvilito mi autocommiseravo. Mio padre giaceva in un letto d’ospedale, stava morendo e tutto quello che provavo era una tragica compassione per me stesso.
Mentre lascia la parte luminosa della scena a suo padre, e ne fa un eroe, con graffio geniale, si descrive:
Mi misi a piangere non di dolore, non di angoscia per la sorte di mio padre ma autocompatendomi. Com’ero buono! (…) Quando le tue debolezze sono la tua forza, che fai? Piangi. Senza lacrime non avrei mai potuto sedurre una donna (…) Era una cosa che devastava il cuore delle donne (…) che in seguito avrebbero voluto uccidermi perché le avevo fatte soccombere. Piangevo perfino mentre scrivevo cose malinconiche. E più invecchiavo, più piangevo.
Nel momento stesso in cui comincia a salvare quel pazzo erotomane di Nick, in Henry affiora la segreta ammirazione incredula, un filo invidiosa di quella vitalità indomabile. Come nella scena con l’infermiera Quinlan, che Nick, a un passo dalla morte si proponeva di sedurre. Dopo la perdita di suo padre, Henry tenta di imitarne le imprese con risultati incerti. È sensibile e gentile, Henry, eppure non riesce a essere un uomo davvero diverso da Nick. Anche Henry tradisce sua moglie. Le sue infedeltà, viziate dal senso di colpa, risultano semplicemente un filo meno frequenti e generose di sé. Il caustico ritratto che fa di sé, come di uno smidollato che usa il pianto per ottenere quel che vuole, apre il dubbio che la sfida con suo padre resti segretamente aperta. È, pure lui, Henry, opportunista e ruffiano come tutti gli altri? È anche lui uno che non pensa che a primeggiare, perfino tra gli amici? Soffre anche lui de “La sindrome del capo, del pezzo da novanta”? Ma ha semplicemente imparato a evitare le sfide frontali, insicuro com’è di possedere i numeri per reggere il confronto. Preferendo gli inganni dell’immaginazione, che confondono le acque.
Fante, da grande e geniale autore, sa portare più rispetto ai suoi personaggi che al beniamino Dostoevskij. Sa ascoltare le voci di Nick e di Henry al punto che, nel narrare la morte del padre, abbandona le orme del Maestro. Mentre il parricida, Dmitri Karamazov, nel finale svetta per nobiltà e grandezza, qui succede il contrario. Le qualità di Henry, lo scrittore, sono messe in ombra e perfino un po’ in discussione, per cedere la scena al padre, Nick, il fallito. Alla fratellanza tra gli sconfitti.
L’alter ego di Fante, Henry, al contrario di lui, è autore affermato. Mentre al gigantesco John Fante, scoperto e amato da Bukowski, si è dato davvero valore solo dopo la morte. Cosa unisce la sensibilità di Fante alla virilità disperata e zeppa d’anima di Bukowski? Beh, chissà. Questa è un’altra di quelle storie che mi appassionerebbe raccontare.