INTERVISTA A SEBASTIANO NATA

Intervista a Sebastiano Nata, pseudonimo di Gaetano Carboni, uno scrittore italiano che ha pubblicato romanzi come: "Il dipendente" e "Tenera è l'acqua".

Dovendo fare un’intervista-ritratto a un altro scrittore atipico che conosciamo, che ha fatto diverse cose nella sua vita, diversi mestieri fra cui quello che ci riguarda direttamente, del romanziere – top-manager di una grande multinazionale del credito, sostenitore di progetti internazionali umanitari di sviluppo, editore, ideatore e giurato del premio MasterCard, ecc., e allora, insomma, dovendo intervistarlo, dopo qualche mail esplorativa, decidiamo di incontrarlo – il nostro amico scrittore –  in un luogo che è  in qualche modo tipico di lui, della sua storia, come scrittore, come uomo, un luogo che ne custodisca l’anima… ci pensiamo un po’, poi scegliamo di comune accordo un luogo calato nel quartiere Trieste-Salario-Africano, il nostro quartiere di quando eravamo ragazzi: la piscina del San Leone Magno, l’istituto religioso di preti dove io studiavo e dove studiavano amici comuni… Insomma, un luogo dell’anima per entrambi.

Al San Leone ho iniziato a nuotare – a 7 anni – e nuotare è stata la mia prima esperienza formativa. Ero un ragazzino molto asmatico, con la bombola d’ossigeno in casa. Mio padre, che era medico, ha pensato che una attività sportiva aerobica potesse aiutarmi, rafforzando i polmoni, a superare le crisi respiratorie. A volte erano terribili, avevo proprio una sensazione di soffocamento. Mio padre mi ripeteva che ero “bronco fragile” e che la mia unica salvezza era il nuoto. Gli ho creduto e mi sono molto impegnato in piscina anche se gareggiare all’inizio non mi piaceva. Ogni settimana prima delle gare ero angosciatissimo tanto che mia mamma insisteva perché non le facessi. Diceva che bastava allenarsi, che era sufficiente fare esercizio. Però mio padre mi voleva campione.

Ecco dove nasce lo spirito della competizione che hai raccontato in tutti i tuoi  romanzi, nelle sue varie declinazioni, in diversi personaggi, non solo in ambito aziendale.

Esatto. Alla fine, comunque, ha vinto lui. Insieme al mio primo allenatore, uomo bellissimo, di cui molte delle altre madri erano innamorate, ma non la mia.  Insomma, il nuoto mi ha insegnato la disciplina e la costanza. Anche ragnetti come me (sei rachitico, diceva mio padre) potevano ottenere qualche buon risultato.

Il tuo primo libro, Il dipendente (Theoria 1995, Universale Economica Feltrinelli 1997), fu un caso letterario: il romanzo racconta la discesa agli inferi di un trentenne in carriera. «Fra grottesco e tragedia» ha scritto Angelo Guglielmi «è una delle storie più incisive degli anni novanta». Lo penso anche io. Tu come lo vivesti quel momento, temesti conseguenze negative per la tua carriera…. Per quello usasti lo pseudonimo? Perché c’erano molte cose vere?, come ti regolasti con i nomi dei tuoi colleghi….

Il dipendente è stato il mio primo libro pubblicato. Anzi, per essere esatti, il primo libro non pubblicato “con il contributo dell’autore” perché un altro romanzo era uscito solo perché l’editore aveva coperto le sue spese con le copie che io ero stato indotto a comprare.

 

Ah, non lo sapevo di questo esordio semiclandestino…

Naturalmente quel romanzo non venne distribuito da nessuna parte. Diciamo che si è trattato di un affare tra me e me, un sacrificio economico celebrato sull’altare del mio narcisismo. La patente di scrittore: magari sapevo anche guidare un po’, ma la patente era contraffatta.

Perché contraffatta? Anche Proust si auto-pubblicò… che cos’hai contro il self-publishing…

Alla fine, dopo tanti rifiuti di altri miei romanzi da tante case editrici, Theoria, e poi Feltrinelli in economica, hanno pubblicato Il Dipendente, che ha avuto anche successo. Ma l’importante per me era potermi dire “Sei anche tu uno scrittore”. Una questione di identità, oltre che di vanità. Ho scelto lo pseudonimo perché Il dipendente è piuttosto scabroso e non volevo noie con colleghi e clienti. Si è trattato di codardia, o di prudenza se vogliamo essere benevoli. Prudenza che non è servita a nulla perché sono uscite mie foto sui giornali e varie persone mi hanno riconosciuto. Ma sul lavoro non è successo niente. Clienti e colleghi avevano cose ben più importanti per loro a cui pensare.

Mi piacciono queste tue prime risposte, sono molto sincere, quasi spudorate nella sincerità. Nel rivelare/svelare insieme ai tuoi temi di romanziere, anche te stesso, i tuoi demoni… Che tipo di autobiografismo è il tuo, ammesso che tu lo definisca tale? Che atteggiamento hai verso la scrittura autobiografica? Parli sempre un po’ di te nei tuoi romanzi, ma in un modo sghembo… Parlarci delle tue strategie narrative, facci entrare nella tua officina di scrittore…

Io inizio sempre con l’idea di scrivere un libro comico, ma in realtà cerco di mettere ordine su aspetti della mia vita che mi agitano. Ecco perché forse nei miei libri c’è uno sguardo ironico su panorami angosciosi. La mia ambizione è sempre stata quella di descrivere il mondo partendo da me. Un po’ presuntuoso, no?

Non direi proprio… Partire da sé è sempre l’atteggiamento più onesto, Montaigne docet.

Con l’andare degli anni mi sono sforzato di ampliare l’orizzonte, di avere uno sguardo critico sulla nostra società capitalista che genera disastri di ogni genere. Spero che il timbro grottesco sia rimasto, perché buoni intenzioni e prediche fanno cattiva letteratura, specie se non si è un genio come Victor Hugo. I miserabili, che romanzo straordinario malgrado tutti i pistolotti! Ma appunto, lui era un genio. È sempre pericoloso prendere a modello scrittori con un talento straordinario. Io volevo imitare lo stile di Céline. Si può essere più presuntuosi e stupidi?

Cèline è stato un punto di riferimento, il più importante, anche per me, lo sai bene…

Certo, Céline è stato importante per molti scrittori della nostra generazione. Tornando all’autobiografismo: nei miei romanzi c’è qualcosa della mia vita, qualcosa delle persone che ho conosciuto e qualcosa di totalmente inventato. Mi auguro che ci sia anche qualcosa del nostro mondo, delle sue storture e delle sue bellezze.

Noi ci siamo conosciuti all’epoca de La resistenza del nuotatore, tuo secondo libro, che racconta invece della morte di tuo padre… mi piacque molto quel romanzo e ne scrissi una recensione appassionata su “l’Unità”, ti ricordi?

Certo.

In quel romanzo c’era il nuoto serale nella piscina del San leone, – il tuo passato da nuotatore olimpico… appena diciassettenne, in acqua con i colori dell’Italia. C’era Guarducci se non sbaglio in quella squadra… nuotasti con lui in staffetta… Dovevi sentirti un padreterno con quella cuffia azzurra, avevi la cuffia azzurra? Era l’Olimpiade in Germania ’72, racconta come furono quei giorni, che ti ricordi?

Sì, Marcello Guarducci era in squadra con me e condividevamo la stanza nel collegiale che avevamo fatto insieme. Adesso lo incontro spesso a Piazza Vescovio perché abitiamo tutti e due da quelle parti. Un signore gentile, canuto, esile, modesto. Io non mi sentivo affatto un padreterno a Monaco, tra l’altro ero in batteria con Mark Spitz, un mito per i nuotatori dell’epoca, che al traguardo era davvero parecchio avanti a me.

Ma stiamo parlando di Mark Spitz, forse il più grande nuotatore mai esistito!… come facevi a non sentirti in cima al mondo?

Ricordo che al villaggio olimpico era tutto gratis (qualcuno si immergeva nella vasca del bagno riempita con Coca-Cola) e l’atmosfera era quella di un’allegra fraternità. Adesso magari le pressioni per la performance sono maggiori, non so, circolano anche più soldi. In quegli anni c’erano meno tecnicismi e più dilettantismo. Non esistevano né cuffie né occhialini. Ma il villaggio fu inghiottito da quello che succedeva nel mondo con l’attentato di Settembre Nero alla squadra israeliana. Io ero già uscito dal villaggio. Ho sentito la notizia in macchina tornando a Roma con i miei genitori…

La resistenza del nuotatore (Feltrinelli 1999), dicevamo, che narra del rapporto tra un figlio nevrotico che si difende da ogni emozione – e un padre in lotta con il proprio declino fisico e psichico. “I due uomini alla fine combattono fianco a fianco in uno scambio generoso fra decadenza e rinascita.”, leggiamo in bandella, ma c’è anche tanto antagonismo, tanto sentimento edipico in quel rapporto… che rapporto avevi con tuo padre? Lo hai seguito a lungo andare nel carattere? Oppure coi tuoi figli naturali o acquisiti, ricordo che hai una famiglia vitalissima e allargata, con moglie brasiliana – sei stato diverso da lui…

Ho molto amato mio padre, una persona affettuosa, intelligentissima e folle. È stato un chirurgo di successo (ma lui diceva che avrebbe voluto essere avvocato) che è sempre riuscito ad affascinare uomini e donne. Quando ha sentito che cominciava quella che lui considerava la sua decadenza – fisica, professionale – si è impegnato per accelerarla. In un certo senso, somigliava a un personaggio di un dramma scespiriano. Con lui ho avuto un rapporto sempre intenso, contrastato, ma intenso. Il periodo in cui siamo stati più vicini è stato quello della sua lunghissima malattia. Quando non si muoveva più dal letto e il suo cervello funzionava solo per dei brevi momenti, abbiamo avuto una comunicazione quasi muta però incredibilmente profonda. Una specie di miracolo. Quando non rimane più nulla dell’uomo sociale, affiora a volte con più forza la sua umanità. Con i miei figli spero di essere stato altrettanto affettuoso (pur se ero spesso fuori casa) e un po’ meno folle.

Le esperienze di un manager di successo durante una vacanza da un amico, parroco in una delle zone più povere del Brasile, sono invece il tema di Mentre ero via (Feltrinelli 2004).

Dopo quel viaggio fra i dannati della terra, il mio protagonista-alter-ego resta sospeso tra possibilità di un cambiamento autentico e il ritorno alla vita di sempre.

Qui comprare il tema religioso, che d’ora in poi si ripresenterà nei tuoi libri… e in generale nella tua vita… ricordo che sei un cattolico osservante, impegnatissimo nel sociale, fai ritiri spirituali, ecc. Tu sei uno scrittore realistico, molto asciutto e concreto nelle tue scelte stilistiche in storie sempre parzialmente autobiografiche… con una tua spietatezza nello sguardo, ma c’è anche questo anelito evangelico che forse attenua un po’… Poi nel romanzo Il valore dei giorni (Feltrinelli 2010) troviamo due fratelli…

 Due fratelli che incarnano due opposti modi di esistere. Quando la morte spariglia le carte, le distanze tra loro si riducono e per chi sembrava ormai prigioniero di potere e denaro, si aprono inaspettate vie verso la libertà.

Poi La mutazione, che ha il sapore di una summa dolorosa e condensata di tutta la tua opera. Un maturo dirigente di una grande multinazionale al top della carriera nel corso di una convention di fine anno con capi e colleghi in un grande, lussuoso albergo internazionale di Miami, che alla fine dà di matto, o finge di sbroccare… Tu hai raccontato nei tuoi libri se non sempre la medesima storia, certo lo stesso personaggio di “dipendente”, di manager in carriera, nei vari passaggi della vita, dalla giovinezza alla maturità, costretto nelle maglie di un ingranaggio totalizzante: quello del lavoro aziendale, del profitto, della competizione selvaggia con i colleghi, e, per estensione, del sistema neocapitalistico che lo incoraggia e lo promuove. Con tutti i sentimenti connessi: l’avidità, il cinismo, la volontà di potenza che sconfina nel delirio di onnipotenza, e per contrasto il senso di colpa e i sogni vaghi di un impossibile, utopico riscatto religioso… Ma i sentimenti negativi sono prevalenti, “Nata riesce meglio a raccontare il male, come noi tutti forse, ha scritto marco Lodoli, nati nel secolo del “brutto” in arte e comunque, certo, dopo la morte del “bello”. Alla fine, non vorrebbe più uscire dalla camera e mette in discussione tutta la sua vita, in primis la carriera che l’ha reso disumano, spietato. Insomma, una resa dei conti con se stessi!, coi propri demoni, che nel finale raggiunge tinte grottesche e quasi comiche,  con il protagonista, maturo dirigente di alto livello di una multinazionale che comincia a dipingersi i “pettorali flaccidi” e il volto con il rossetto davanti allo specchio, fino a sembrare “un vecchio stregone” e scende ululando a torso nudo nella sala colazione dove ci sono tutti i suoi colleghi:  “Arriva l’urlo della nostra specie. – ecco il finale, – Sempre lo stesso. Dall’uomo di Neanderthal a me. L’urlo eterno d’assalto e di difesa, di gioia e dolore”.  Quindi una resta dei conti con la propria coscienza, di un cristiano peccatore… che si osserva e si giudica senza sconti.

È difficile parlare del mio rapporto con la fede. Ti dico solo che, quasi sempre, le persone che ho ammirato di più sono stati uomini di fede, non necessariamente cristiani come me. E che vivere secondo lo spirito del Vangelo mi sembra il modo più giusto. Non che io ci riesca sempre, certo che no, però mi piacerebbe. E poi l’idea di essere amato dal Signore per quello che sono e non per quello che dovrei essere, è troppo bella per non tenersela nel cuore…

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Andrea Carraro

Andrea Carraro, scrittore, nasce a Roma. Se avesse ricevuto un euro ogni volta che sui media hanno usato il termine “il branco” per parlare di uno stupro di gruppo, citando il titolo del suo romanzo più noto, oggi sarebbe ricco. Invece è “solo” uno scrittore tra i più bravi. Romanziere, autore di racconti e di poesie, nasce a Roma nel 1959. Ha pubblicato i romanzi: A denti stretti (Gremese, 1990), Il branco (Theoria, 1994), diventato un film di Marco Risi, L’erba cattiva (Giunti, 1996), La ragione del più forte (Feltrinelli, 1999), Non c’è più tempo (Rizzoli, 2002) (Premio Mondello), Il sorcio (Gaffi, 2007), Come fratelli (Melville, 2013), Sacrificio (Castelvecchi, 2017) e le poesie narrative Questioni private (Marco Saya, 2013). Ha pubblicato anche due raccolte di racconti, confluite nel volume Tutti i racconti (Melville, 2017). I suoi giudizi critici, sensibili ma affilati quando serve, lo rendono un lettore del cui parere fidarsi con tranquillità.

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