La televisione italiana, quella degli inizi, ci ha offerto anni fa alcuni documentari che possono senza dubbio essere identificati con il senso stesso del viaggio. E del viaggio in provincia, nella provincia italiana. Anche la letteratura, ovviamente, si è incaricata di narrare il territorio del nostro paese, spesso dal punto di vista degli stranieri che l’hanno visitata, scoprendo il bene e – molto spesso – il male che la abitano. E nel 1957 Mario Soldati realizzò ben dodici puntate di un viaggio eno-gastronomico nella valle del Po, che mi è ritornato subito alla mente (ricordo ai lettori che si può vedere ancora qui su RaiPlay) quando mi è capitato tra le mani questo libro di Franco De Chiara: Sentite un Po… Ovvero: “Li vuoi quei kiwi?” (Porto Seguro Editore 2022). A parte il fatto che vedere quel Po senza accento al posto del più abituale po’ all’inizio mi ha dato l’orticaria, poi quando ho compreso che si trattava di un gioco di parole tra po’ e Po, ho perdonato l’autore e ho cominciato a leggere il libro. Franco De Chiara (che ha lavorato molto in televisione, da qui il mio pensiero rivolto al documentario di Soldati, oltre ad aver pubblicato diversi testi) racconta di un viaggio in bicicletta compiuto da due amici – uno dei quali abbastanza malridotto fisicamente – da Roma verso il fiume Po. E nel farlo riempie la pagina di un fluviale (ovviamente) scorrere di ricordi, piccole avventure, rivelazioni, citazioni, senza mai annoiare, con uno stile lievemente ridondante ma sicuro. Oltretutto mi è piaciuto il fatto che in un’epoca di ciclisti alla moda, incontrati spesso tutti sbrilluccicanti per una gita fuori porta, il rapporto tra uomo e bicicletta che ne viene fuori sembra una relazione antica, senza fronzoli, tanto che il ciclista porta il vestiario per il viaggio in una semplice busta di plastica. Mi sembra sufficiente per parlare un po’ con lui del suo libro, no?
Potremmo dire che è la storia di un uomo che voleva andare a Stoccolma e poi è stato catturato dal Po?
Sì, potremmo dirlo, ma è meglio non dirlo. Non si tratta, infatti, di un individuo che, camminando a piedi, voleva raggiungere un rinomato ristorante sito all’altro capo della città, e poi, per motivi imperscrutabili, ne ha incontrato un altro più vicino, nel quale si spacciano altrettante buone leccornie.
Come molti certamente sapranno, Stoccolma sta da una parte, e il fiume Po da un’altra. Dal che ne deriva che, come viene ampiamente narrato nel primo capitolo di Sentite un Po, il protagonista, cioè io medesimo stesso in persona, voleva raggiungere Stoccolma in bicicletta, pedalando per 3.550 chilometri, ma al momento della partenza, nel marzo 2020, è accaduto l’inimmaginabile. Il quale inimmaginabile ha un nome e un cognome: Covid 19. Il resto, ahinoi, lo conosciamo tutti…
Laondepercui qualche mese dopo, a settembre di quello stesso anno, in una (apparente) pausa della pandemia, ho deciso di effettuare la discesa del Po, dal centro storico di Torino fino al Delta, sull’Adriatico.
Non è stato, insomma, un “ripiego”, dato che conoscevo già il Po, soprattutto il Delta, dove ho cicloviaggiato spesso, e non è stata nemmeno una rinuncia a Stoccolma, città che ho frequentato in varie occasioni: quello che è mancato, purtroppo, è stata la possibilità di mettere in atto la follia di raggiungerla in bicicletta.
Per ora…
La definiresti una sorta di autobiografia?
Questa ha tutta l’aria di essere una domanda indiscreta… anche se, come suggeriva Oscar Wilde, “Le domande non sono mai indiscrete. Le risposte, talvolta, lo sono”. Un aforisma che poi è stato messo in bocca anche al gigantesco Lee Val Cleef in Per qualche dollaro in più, ma questa è un’altra storia….
Comunque, no, non è una autobiografia. Trattasi del racconto dettagliato del nostro viaggio pedalatorio, anche se mi lascio andare spesso a digressioni, postille, excursus e parentesi, molte delle quali riguardano la mia vita. Perché, come dicono a Clérmont-Ferrand, “Tout se tiens”, tutto è collegato con tutto. E se un bipede ultrasessantenne, rallegrato da una miriade di problemi di salute piuttosto seri, decide di pedalare per 700 chilometri lungo il Po, ebbene, qualche nota autobiografica affiorerà per forza. Tuttavia, ci tengo molto a precisare che reperti di autobiografia sono SEMPRE presenti in tutta la narrativa mondiale di ogni tempo. Basta saperli stanare: Ray Bradbury, sommo scrittore di fantascienza, ammise che se doveva descrivere un astronauta che cammina su un pianeta alieno poteva accadere che costui assumesse l’andatura dello scrittore stesso quando rientra da un pub o dallo shopping.
Oltretutto, più che una autobiografia, “Sentite un Po, direi che ha l’aria di una svendita, di una liquidazione di tutto il bello, il brutto e il così così che hanno riempito, finora, i miei decenni di permanenza in questo strano scherzo che è la vita umana. Perché accade sempre che viaggiando ti venga in mente quella volta che…
In ogni caso, l’aspetto che per me ha contato parecchio, è proprio la lentezza del viaggio ciclopedalatorio. Il titolo stesso, SENTITE UN PO, ovvero LI VUOI QUEI KIWI? si rifà ai titoli di certe commedie ottocentesche di terz’ordine, tipo “Donna Carmela nel vortice del peccato… overrossia Un marito cornuto”…. eccetera. L’Ottocento, appunto, come secolo della lentezza, almeno per quanto riguarda i viaggi.
C’è qualche autore di cui hai tenuto conto, scrivendo questo libro?
Altra domanda mooooolto indiscreta! Diciamo tutti quelli che ho letto. E, tenendo presente che io ho sempre preso in mano un libro attenendomi al criterio del miglior disordine possibile, gli autori sono variegati. Adoro Simenon, Flaiano, Kerouac e Soldati, tutta gente che ha l’unico denominatore comune di avere litigato con un foglio bianco da riempire di amenità, ma per il resto si assomigliano ben poco. Ma poi, detto tra noi, quando ci si immerge in quella follia gravissima di scrivere un libro non si pensa MAI ad un autore di riferimento, bensì a uno sconosciuto e temerario lettore di Spello (Umbria) o di Trasaghis (Friuli) che, in un momento di esaltazione, prenderà in mano il libro stesso, che io ho portato a compimento, scarsamente interessato al dettaglio che il mondo sarebbe andato avanti comunque anche se non lo avessi fatto. Già, perché scrivere confina anche con territori prossimi alla megalomania conclamata, diciamolo senza tema…
Ogni tanto il lettore non può fare a meno di pensare alla tua pressione arteriosa, ai bypass… era questo che volevi ottenere?
No, non era di certo questo che volevo ottenere. Ma non ci posso fare niente se ogni tanto dovevo interpellare quella specie di oracolo, meglio conosciuto come misuratore di pressione. Perché la mia pressione è subdola, spesso malvagia, sale e scende a tradimento, il che non mi ha impedito… e ci mancherebbe altro… di rischiare la vita pedalando per 700 chilometri con 35 gradi di calore. Diversamente, nessuno mi avrebbe impedito di spiaggiarmi sul divano di casa mia a guardare dei Dvd sui registi uzbeki minori. Solo che mi sembrava più interessante pedalare, anche se un pomeriggio, arrivati in una città chiamata Pavia, mi sono seduto ad un bar davanti al Duomo, pressoché certo di avere 190-200 di pressione massima. O forse anche più. Stavo malissimo, temevo di stirare le mie adorate zampe, ma pazienza, sono cose che possono capitare. Invece, quando ho avuto il coraggio di estrarre l’apposito apparecchietto in mezzo alla folla che si godeva l’aperitivo, ho preso atto che avevo 120-80, cioè la normalità più normale che ci possa essere. E l’ho raccontato, certo, ma non per spaventare il lettore. Ero già abbastanza spaventato io. E comunque, non ho nessun bypass, “solo” un pace-maker, senza il quale non andrei da nessuna parte. Ma ci tengo a precisare che il mio racconto, mi auguro, contiene ben altro che non soltanto le vicissitudini della mia cartella clinica. Negli ultimi anni mi sono anche intrattenuto non con un tumore, ma con due, carta vince, carta perde. E poiché fino a quel momento la carta vinceva, era mia intenzione pedalare fino a Stoccolma (in seguito barattata con il Po), proprio perché prima o poi sarebbe arrivato il giorno in cui avrei scambiare alla pari la bicicletta con un deambulatore.
È il racconto di un lungo percorso con Mimmo, un tuo amico. Cosa pensi dell’amicizia virile?
L’amicizia virile? Mah, non saprei davvero che cosa rispondere. Mimmo, il mio compagno di viaggio lungo il Po è un caro amico, sì, ma non mi sono mai posto la domanda su che cosa sia, o in che cosa consista “l’amicizia virile”. Ci sono degli individui che uno frequenta perché ci sta bene insieme. Poi, magari, un giorno accade che ci si mandi simpaticamente a fare in culo, ma non mi sembra una cosa importante: così vanno le cose del mondo.
È anche un modo per raccontare molti spunti, talvolta disordinati, spontanei, dal film Casablanca a Zavattini, da Henry Moore a Gian Lorenzo Bernini, da Totò alla storia delle inondazioni. È come un catalogo di gusti e di idiosincrasie?
Gli spunti, certo…. sfortunatamente per me, e per chi mi legge, io sono drogato di cinema e di letteratura. Ma anche di arte…. E, pedalando lungo il Po, si transita in continuazione da Caravaggio a Manzoni, da Zavattini a Guareschi. O a Michelangelo Antonioni, del quale parlo molto, ai limiti della querela per logorroicità. E, in tutto questo, il Grande Fiume continua ad essere il vero co-protagonista: Gente del Po, il primo documentario di Antonioni, del 1947 (rintracciabile su Youtube) sono undici minuti di cinema ASSOLUTO, di prova generale del Neorealismo, ed è miracolosamente collegato al capolavoro finale del Maestro ferrarese, Professione reporter, con il celeberrimo piano-sequenza finale, sul quale io non mi dilungo molto, ma MOLTISSIMO.
Poi, attraversando Brescello, non ho potuto ignorare i film di Don Camillo e Peppone, elargendo anche un imprevedibile e inedito dietro le quinte. Eccetera.
Ma su tutto, mi fa piacere ricordarlo, la presenza incombente del Maestro Gassman, al quale ho fatto “da schiavo” per due anni, e che ha, idealmente, pedalato insieme a me.
Non è diventato un mezzo di locomozione troppo alla moda oggi, la bicicletta?
Sì, può darsi, ma sono scarsamente interessato all’argomento. Posso dire, piuttosto, che detesto le biciclette elettriche a pedalata assistita? Bene, l’ho detto. E, già che ci sono, lo confermo: le trovo ripugnanti.
Hai sempre pedalato?
No, non ho sempre pedalato. La bicicletta io l’ho riscoperta con colpevole ritardo, una ventina di anni fa. E da allora ci vogliamo bene, molto bene.
C’è un momento del viaggio che ha rappresentato per te il punto più importante del percorso?
Nella realtà i momenti importanti sono stati almeno un centinaio. A Pavia, per esempio, quando ho scoperto che non sarei deceduto lì in piazza, è stato piuttosto piacevole. Così come è stato piacevole sedersi a quei sette-otto ristoranti dove la cucina non rasentava la perfezione, ma la superava allegramente.
E poi gli imprevisti…. due vicini di camera, a San Benedetto Po, che hanno intrattenuto rumorosi scambi sessuali tutta la notte, per poi scoprire la mattina, al tavolo della colazione, che si trattava di due ultraottantenni turisti tedeschi… un ragazzo messo piuttosto male con la testa, in seguito a un grave incidente, che continuava a parlare al cellulare con sua moglie. Che, però, si era suicidata un anno prima… un tizio in riva al Po, a Pontelagoscuro, che sputava noccioli di olive il più lontano possibile, per allenarsi in vista di una gara specifica. Eccetera…..
E Stoccolma? Com’è finita, poi?
Stoccolma? Dalle ultime informazioni che mi sono arrivate pare che stia sempre lassù. E il 7 marzo 2023, se il Covid si darà una calmata, se le mie Tac di controllo saranno decenti, se il Pace-maker continuerà a funzionare, se la mia pressione non suonerà il rock-and-roll, ci riproverò. Da solo.