Cosa voglia dire essere o meno creativi è una delle questioni più dibattute e anche – per me – una delle più fastidiose, perché ripetuta da almeno trent’anni nelle discussioni intorno alle scuole di scrittura e alla scrittura creativa. Che vuol dire creatività? E cosa vuol dire essere creativo? Perché pensare di fare una scuola per insegnare tecniche e mestieri che dovrebbero essere guidati solo dal talento? O si è creativi oppure non lo si è, inutile insegnarlo. Domande, affermazioni, opinioni guidate dal senso comune oppure dal pregiudizio, talvolta anche dal proprio fallimento personale (non ci sono riuscito io, a fare lo scrittore, come possono quelli che per diventarlo vanno addirittura a scuola?).
Ebbene, in queste giornate estive di metà anno, che sono di pausa per quasi tutti, è giusto approfittare del rallentamento delle attività lavorative per fermarsi a riflettere sul proprio lavoro e sulle proprie idee guida. Per questo abbiamo pensato di porre qualche domanda a un intellettuale che su questi temi ha molto riflettuto, Simone D’Alessandro, Docente universitario di sociologia dei processi creativi all’Università degli Studi “Gabriele D’Annunzio” di Chieti-Pescara e autore (tra le altre tantissime pubblicazioni) di Creative Actions and Organization: Towards a Reflexive Sociology of Serendipity (Cambridge Scholar Publishing, 2021).
Almeno, per una volta, invece delle chiacchiere sparse al vento, o agitate nelle acque dei social network, abbiamo sentito l’opinione di un esperto. Ed ecco cosa ne è venuto fuori.
La tua attività si muove tra la ricerca universitaria e il mondo dell’impresa. Li ritieni entrambi ambiti creativi?
Un pubblicitario americano, Barry Day, diceva: «prova a chiedere una definizione di creatività e ti ritroverai con tante opinioni quanti sono gli individui». Non esiste organizzazione che sia priva di processi e azioni creative. Qualsiasi collettivo umano, nel momento in cui percepisce un problema innesca un dialogo con esso per trovare possibili soluzioni. Da questo punto di vista l’essere umano si distingue dall’intelligenza artificiale per il suo essere inevitabilmente creativo. Carenze, ostacoli, vincoli, resistenze, fallimenti sono ingredienti di base di una Serendipity che viene portata a termine, bene o male, dal solutore.
La ricerca della creatività può diventare una trappola?
Definirsi creativi è un’auto ingiunzione paradossale. I professionisti che operano in realtà innovative pensano di essere unici detentori della creatività per il fatto di avere un ruolo definito come tale. Ma questo li acceca, rendendoli incapaci di accettare una buona idea proveniente dal cosiddetto “non addetto ai lavori”. Eppure, numerose scoperte, invenzioni e innovazioni (tre cose distinte che però dipendono anche dai processi creativi innescati), sono arrivate da persone comuni. In Storia popolare della scienza, Conner racconta le rivoluzioni della scienza dal punto di vista degli artigiani, dei fabbri, degli operai e dei mercanti che hanno contribuito al suo sviluppo dal basso, senza gloria o riconoscimenti. Fu uno schiavo di nome Onesimus a introdurre la pratica dell’inoculazione contro il vaiolo nel Nordamerica. Il merito della scoperta della vaccinazione appartiene a Benjamin Jesty, che di mestiere faceva l’agricoltore. Le idee creative sono venute fuori da tentativi, errori e soprattutto necessità. Vi è una seconda trappola che risiede nella scelta del metodo. Nella mia attività di ricercatore e consulente – avendo intervistato ma anche lavorato con centinaia di creativi, ricercatori e inventori provenienti dagli ambienti più disparati – ho compreso che ognuno di essi ha un metodo. Ciascuno ritiene che il suo metodo sia produttivo. Alcuni addirittura pensano che sia il più produttivo. Ma tutti ignorano i fallimenti prodotti dalla ripetizione del metodo.
Nell’opera Contro il metodo, Feyerabend, uno dei più grandi epistemologi del XX secolo, mostra che numerose scoperte sono il risultato di un superamento dei metodi scientifici consolidati. Se il metodo si sclerotizza, diventa un atto burocratico che ti porta sempre dalla stessa parte.
Parliamo di creatività collegata alla scrittura. Come definiresti la creatività dello scrittore?
Anche in questo caso, provando ad esaminare centinaia di manuali e libri sulla scrittura creativa, da autori come Raymond Carver a copywriter come Emanuele Pirella, ci rendiamo conto che ogni scrittore enfatizza alcuni rituali e alcune tecniche, sottovalutando la portata di altri aspetti.
Gli ingenui si concentrano sulla mistica della cosiddetta ispirazione, trascurando l’importanza dell’abitudine e del mestiere. Ma quando si diventa professionisti della scrittura bisogna rispettare scadenze, modalità espressive, aspettative di editori e lettori. Ci sono autori che diventano schiavi di un genere loro malgrado. Ce ne sono altri che tentano di uscire dal loro stile consolidato, fallendo miseramente. In altri casi si assiste al cambiamento radicale. Ma l’innovazione radicale non dipende soltanto da chi l’ha innescata, dipende soprattutto dal contesto che l’ha recepita. Il cambiamento è sempre relazionale, perché necessita di innovatori, ma anche di contesti che li sappiano accogliere.
La creatività del narratore come si differenzia da quella di chi scrive saggi o articoli basati sulla cronaca?
Quando si è capaci di fare la differenza, introducendo nuove categorie di pensiero o nuovi punti di osservazione, il genere diventa secondario. Esistono saggi che hanno cambiato paradigmi teorici. Penso a La grande Trasformazione di Polanyi oppure a Il crudo e il Cotto di Levi-Strauss.
Esistono romanzi che hanno stravolto la letteratura: Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, la Caduta di Camus, Metamorfosi di Kafka. Ci sono articoli che hanno cambiato il volto del giornalismo. Si pensi agli scritti corsari di Pasolini o agli elzeviri di Flaiano. Tutte le volte in cui un autore cerca di cambiare le regole del gioco, assistiamo alle medesime dinamiche dialettiche tra essere e divenire.
Si può esercitare la creatività, farla sviluppare, farla crescere?
Esistono correnti di pensiero convinte della possibilità di costruire una didattica della creatività. Se pensiamo ai libri di Bruno Munari o alla pedagogia Montessoriana questo risulta evidente. Ma possiamo risalire alla maieutica socratica. Ci sono state civiltà che hanno posto al centro della loro riflessione la possibilità di emancipare attraverso la conoscenza la dimensione collettiva. Ma anche civiltà che hanno costruito una cesura netta tra chi è dotato e chi non lo è. Quest’ultima visione ha preso il sopravvento creando una barriera elitaria (a volte classista) tra chi può e chi non può. Mi sembra un sentiero errato e più povero di possibilità. Secondo me dovremmo invertire la massima retorica e melensa che dice “tutti siamo utili, nessuno indispensabile” in “tutti siamo indispensabili, nessuno è inutile”.
Che relazione c’è tra creatività e talento? Esistono persone prive di talento?
Edison affermava che la creatività è: «1% talento e 99% sudore». Einstein sosteneva: «il segreto della creatività consiste nel saper nascondere le proprie fonti». Poincarè considerava creativo tutto quello che fosse in grado di portare novità e utilità. Nasciamo tutti con talenti specifici che costituiscono la nostra personale biodiversità utile alla co-evoluzione, sia naturale che culturale, individuale e collettiva. Successivamente le circostanze della vita, ma anche le condizioni economiche, culturali e relazionali di partenza, possono facilitare oppure ostacolare l’autorealizzazione. Se una nostra peculiarità non viene allenata costantemente nel tempo, si perde. Forse dovremmo lavorare alla costruzione di una società che, partendo dalle scuole, valorizzi tutte le possibilità di talento invece di ridurle. Ma spesso i programmi scolastici selezionano temi, saperi e competenze che sono considerati direttamente spendibili per il futuro. Ma vi sono inclinazioni utilissime e non direttamente spendibili. Ad esempio, se una persona mostra talento notevole nella generosità e nell’empatia, come si costruisce un percorso che possa portarlo ad essere un cooperante internazionale, un diplomatico o un operatore di strada? Se una persona è capace di vedere metafore in ogni cosa che osserva o realizza, come lo si può trasformare in un designer, in un esperto di ergonomia, in un poeta o in un imprenditorie visionario? I talenti si scontrano ogni giorno con le routine imposte dai nostri sistemi formativi e lavorativi.
Tu insegni agli studenti universitari Sociologia dei Processi Creativi, li vedi più o meno creativi oggi rispetto a qualche anno fa?
In tutte le epoche esistono due discorsi retorici che sono per me sinceramente urticanti. Da una parte gli apocalittici laudator temporis acti: nostalgici di un’epoca d’oro in cui le persone erano più sensibili, più colte, più rispettose e via discorrendo. Dall’altro lato gli integrati dell’ottimismo: essi ritengono le generazioni di oggi più stimolate, più vispe, più proattive, più sensibili all’ambiente, più aperte alla diversità. Sono enormi menzogne. Abbiamo bisogno di generalizzare e categorizzare il mondo in modo binario per rassicurarci. La realtà è che esistono da migliaia di anni sia delle costanti che delle variabili. Ogni generazione è differente perché entra in relazione con tecnologie, forme di economia, sistemi politici e variabili culturali differenti. Ma le costanti legate alla vanità, al narcisismo, al desiderio di affermazione (spesso di sopraffazione), all’incapacità di prevenire un disastro, mi sembrano immutate nel tempo. Così come immutato nel tempo mi sembra il bisogno di amare, di essere compresi, di donare in modo disinteressato. Ciò che noto oggi è la permanente incapacità di mantenere alta la soglia dell’attenzione, dovuta all’eccesso di stimoli. Osservo anche un eccesso di scelte che ha, paradossalmente, creato incapacità decisionale e fragilità emotiva. Le persone non vogliono rinunciare a nulla e non sanno selezionare ciò che veramente determinerebbe la loro soddisfazione, emotiva e intellettuale. Ma possiamo veramente dire che questi elementi appartengano solo alle giovani generazioni? Oppure a tutte quelle persone che vivono in questo sistema “turbo-stimolante”, dopato, troppo pieno, troppo desiderante e quindi inumano? Inoltre, siamo sicuri che la distrazione, come anche la perdita di memoria storica, sia sempre dannosa? Dimenticare il nazismo è sicuramente pericoloso, ma dimenticare il fallimento dei moti del 1848 o della Comune di Parigi, potrebbe al contrario essere positivo. Potrebbe indurre qualcuno a credere che oggi, quell’esperienza collettiva funzioni. Ma questa è solo una provocazione da mestierante del pensiero creativo e dialettico 😊
Social e web spingono alla creatività o la riducono?
Come tutti gli strumenti, anche i dispositivi tecnologici producono biforcazioni cognitive, ambiguità, contraddizioni e paradossi. Possono alimentare collaborazioni specifiche a livello scientifico o incrementare odio sociale. Possono determinare nuove possibili combinazioni o favorire il conformismo. Il nodo risiede sempre nella capacità del soggetto e nel suo modo di utilizzare i mezzi. Inoltre, c’è il tema della velocità. Per dire o fare qualcosa di aggiuntivo rispetto all’esistente, c’è bisogno di tempo. Se ci facciamo trascinare dalla retorica della prestazione immediata e del ‘tutto e subito’, distruggeremo il nostro pensiero. I tempi della comunicazione non coincidono con i tempi della riflessione e dell’apprendimento. Diamoci più tempo anche per l’ozio, per l’indugio e il tentennamento.
Se dovessi suggerirci degli autori e dei libri per approfondire questi temi, cosa ci diresti di scegliere?
Ci sono classici che vanno assolutamente letti non soltanto per assimilarli, anche per metterli in discussione: Fantasia di Bruno Munari, L’emozione e la regola di Domenico de Masi, Il pensiero Laterale di Edward De Bono, l’Origine del Genio di Simonton, La realtà inventata di Watzlawick. Mi permetto con molta umiltà di segnalare anche i miei lavori. Nel 2010, con il “Libro Creatività: normalissima improbabilità?” ho lanciato una provocazione: la creatività è normalmente inevitabile, un fenomeno evolutivo del vivente che si appoggia a schemi, abitudini che possono essere guidati da un innesco banale, convenzionale o da una conoscenza tacita. In tutte le organizzazioni da me osservate esistono tecniche che innescano routine nella gestione della creatività. Ho censito 200 tecniche (come, ad esempio, il brainstorming, il reverse engineering, il triz). Ciascuna di esse presenta elementi ricorrenti: regole comuni dell’opposizione, della combinazione e della separazione. Tali meta-regole determinano il comportamento creativo e sono innescate dal rapporto circolare e ricorsivo tra pensiero e linguaggio. Nel 2021 ho scritto Creative Actions and Organizations. Towards a Reflective Sociology of Serendipity, pubblicato da Cambridge Scholars. Aggiornando i miei precedenti lavori ho mostrato che la didattica e le tecniche non bastano a determinare i processi di scoperta. È impossibile accantonare dal processo creativo la dimensione ambientale, la biografia del creativo (scopritore, inventore, artista, manager, consulente, scrittore), la stratificazione delle conoscenze pregresse, l’organizzazione con cui ci si relaziona abitualmente, i fattori casuali che innescano un nuovo modo di procedere e, infine, la manualità. Sta di fatto, però, che la governance del processo creativo è figlia di un uso sistematico di regole. Lo stallo creativo si produce nelle organizzazioni che non favoriscono una didattica della creatività. L’umanità non ha bisogno del genio irrazionale e solitario – che non esiste in senso assoluto, poiché percepito geniale o normale, in base al contesto culturale e psicologico di riferimento – ma di una socialità geniale o, meglio, di una ‘genialità sociale’ che generi talenti stimolando le doti di ognuno in modo condiviso, oserei dire in modo relazionalmente-sistemico. Senza il “noi” non vi è alcuna creatività duratura ed effettivamente generativa.