Intervista a Marco Speroni sul docu “A Declaration of love”

Oggi come Sconsiglio settimanale vi propongo di ragionare sulla forma del documentario. Intervistando Marco Speroni, che ha scritto e girato da poco un documentario bello e particolare, A Declaration of love.

Oggi come Sconsiglio settimanale vi propongo di ragionare sulla forma del documentario. Intervistando Marco Speroni, regista, documentarista, sceneggiatore che ha scritto e girato da poco un documentario bello e particolare, A Declaration of love, sulla storia vera di un condannato a morte, Curtis McCarty, un americano di Oklahoma City, accusato dello stupro e dell’omicidio di una sua conoscente, episodio che avvenne nel 1982.
Dopo diciannove anni trascorsi nel braccio della morte, nel 2007 viene scagionato dall’accusa e rilasciato.

Abbiamo visto il film al Nuovo Cinema Aquila – zona Pigneto, qualche tempo fa, per il RIFF Rome International Film Festival, – un Festival importante, dedicato al cinema indipendente nazionale e internazionale – dove alla fine eri chiamato a dare un voto al film in concorso. Seguiva una breve presentazione del film da parte del regista e qualche domanda del pubblico.

Poi in serata, davanti a un bicchiere di vino rosso, in un locale qualunque e troppo affollato non lontano dal cinema, abbiamo chiacchierato in libertà sul film, sulla sua professione rischiosa, avventurosa, vitale e complicata, su altro. Conosciamo il regista da parecchio. Si lavorò assieme per un certo periodo, una quindicina di anni fa, in sceneggiature che poi non si realizzarono.

Insomma ti è piaciuto?

Ho votato il massimo. Mi è piaciuto molto. Anche per il modo come l’hai costruito, eliminando anzitutto la figura dell’intervistatore (cioè te stesso) e le tue domande, e tutta la struttura dell’intervista, ne viene fuori una specie di lungo emozionante monologo nel quale il condannato, sguardo in macchina, racconta la sua storia…

Sì, più che un monologo direi che è un flusso di pensieri in libertà, infatti il mio lavoro con Curtis, non è stato quello di intervistarlo… ma di lanciargli input e lasciarlo libero di parlare, di vagare e tornare, di prendersi pause lunghissime per poi ricominciare con un argomento completamente diverso e inaspettato.

Già l’inizio è spiazzante, e mette secondo me nella giusta prospettiva e nella giusta distanza lo spettatore: il film comincia infatti con una lunga sequenza (allegorica) subacquea, con la sua voce off che prova a descrivere la sensazione psicofisica che si prova nel braccio della morte, come di avere la testa immersa sott’acqua… È un film che sembra non offrire riscatto e consolazione.

Quindi, un uomo condannato a morte per un delitto che non aveva commesso, costretto a passare 20 anni nel braccio della morte.

Che significa stare seppellito sottoterra senza mai vedere la luce o avere contatti umani. Che è già in sé una condanna a morte, se ci pensi. Chi vive quell’esperienza come Curtis, non ne uscirà mai più, esci che sei un relitto umano e anche se riconosciuto innocente la società ti respinge. Ecco quello che ho cercato di raccontare e trasmettere allo spettatore.

Ma com’è venuta fuori in fase processuale la sua innocenza?

Da un’indagine venne fuori che il perito incaricato del suo caso aveva falsificato le prove. Fu Innocence Project, una importante associazione americana composta di avvocati che studiano casi in cui la prova del DNA è contestabile o non coerente, che nel 2007 provò il caso di corruzione del sistema legale dello Stato di Oklahoma facendo esplodere uno scandalo enorme. Curtis è uscito da quell’esperienza devastato, con un grave PTSD, il Post Traumatic Stress Desorder. Senza supporti esterni è tornato a vivere da homeless e tossicodipendente. Nel 2016 è stato accusato di possesso di due dosi di metanfetamina per uso personale, e condannato nel 2018 a 10 anni di carcere, il massimo della pena.

Sembra impossibile…

E invece è andata proprio così. Dopo 2 anni, nel gennaio 2020, è stato rilasciato in libertà vigilata, da quel momento si sono perse le sue tracce. Insomma non ho voluto fare un documentario investigativo (con le consuete immagini della scena del crimine, le prigioni, le interviste ecc.) o un manifesto contro la pena di morte, per quanto l’argomento sia ben presente, ovviamente.

Ecco, racconta il tuo approccio… questo ci interessa… un approccio estetico, ma anche morale, posso immaginare, trattandosi di un tema come il carcere, la pena di morte, la droga…

È un film intimista, lavora molto sulle emozioni, sul lato umano di Curtis, compresi i suoi problemi di dipendenza da alcune sostanze, – mi sono interrogato se fosse giusto moralmente metterla quella parte sulla droga, ma alla fine la scelta è stata quella di mostrare e non nascondere – che si intreccia all’ambiente urbano in cui è vissuto, i grandi e degradati sobborghi della città.

 

Mi piace molto come hai lavorato sulla città, sul paesaggio urbano degradato, che rendi efficacemente anche nelle riprese notturne.

Curtis e la città, che è anche Oklahoma, che è anche l’America vera, quella meno turistica, la vera grande America.

Dove si svolgevano le interviste?

L’intervista è stata fatta in una stanza di una safe-house che gli avevo affittato per una settimana. Lui stava lì, io ero tranquillo perché sapevo che lo avrei trovato ogni mattina in quel posto, diversamente, essendo lui homeless, avrei rischiato di non ritrovarlo il giorno dopo.

È stato il viaggio fondamentale, quello in cui Curtis apre il suo flusso di pensieri. Da quel viaggio sono tornato con il nucleo della storia e del documentario, poi ne ho fatti altri due per raccontare anche la città.

Ti diverte seguire il film nelle rassegne? Oppure è una cosa che ti pesa?

 

Accompagnare il film nei festival nelle rassegne è una bellissima esperienza. Il contatto con il pubblico, le domande e l’attenzione degli spettatori per me nutrienti, vitali. È bello rivedere il film con il pubblico, ogni volta mi metto nell’ultima fila in fondo e me lo riguardo con loro. C’è un bel sentimento di condivisione…

Dev’essere emozionante, come per uno scrittore, mi verrebbe da dire, assistere alle reazioni del lettore mentre legge il suo libro, magari non visto, una situazione rischiosa (puoi leggervi anche la noia nel lettore o il rifiuto), ma esaltante, che racconta benissimo John Fante in qualche suo libro… forse proprio in Chiedi alla polvere… ma certo per voi registi è più frequente, dico, poter vedere le reazioni del pubblico in sala, non visti, nascosti nel buio…

 

No, io non lo vivo in quel modo, per me è un’esperienza emotiva da condividere con gli spettatori, io “sento” il film insieme a loro, non ne studio le reazioni per capire se sono coinvolti o si stanno annoiando, non è quello che cerco.

Il pubblico qui mi è sembrato molto empatico e vitale, partecipava come se stesse vedendo un film di finzione… Vi hanno fatto un sacco di domande, a te e al montatore…

Mi sono sempre chiesto perché nei documentari tradizionali l’intervistato guarda a sinistra o a destra camera, comunque ignorando lo spettatore. Parla sempre con qualcuno che non si vede. Che senso ha? Sono qui, parla con me… Oppure mi chiedo il perché dell’approccio fotografico spesso sciatto come se non avesse rilevanza. L’immagine è un potente tassello della narrazione, così come l’audio, il montaggio, il montaggio del suono ecc. Utilizzando al meglio questi strumenti si possono realizzare lavori che vanno nella direzione del cinema vero. Sono d’accordo con Herzog quando dice che il suo miglior documentario è Fitzcarraldo (grande film con Kinski). Perché i linguaggi possono essere gli stessi se sai raccontare una storia.

Non a caso viene anche definito “cinema del reale” il documentario…

Sei calato nella realtà, e nella realtà accadono cose che non puoi prevedere a tavolino e sono proprio quelle che creano la bellezza e l’imprevedibilità del documentario. Ti sorprende, a volte ti fa regali inaspettati, accadono cose meravigliose così come può accadere anche il contrario. Quindi ci vuole una preparazione/disposizione verso l’inaspettato e tanta flessibilità narrativa.

E il montaggio…       

Il montaggio è la scrittura più importante. È la terza scrittura, direi, quella definitiva. In quella stanza accadono cambiamenti significativi, rinunce a cose che ami ma che non sono necessarie, continue modifiche finché non si è sicuri dell’esito. Quando giro penso sempre al montaggio, per questo a differenza di molti documentaristi, soprattutto più giovani, non torno dalle riprese con TB e TB di materiale.

Cioè?

Credo che questo approccio derivi dalla mia formazione, io sono cresciuto con la pellicola, le prime cose che ho fatto, i primissimi lavori erano in 16mm, il primo cortometraggio di finzione, Un pomeriggio d’aprile, in 35mm così come il lungometraggio Cosa c’entra con l’amore in 35mm. In quelle condizioni non puoi permetterti di buttare km di pellicola, devi essere sicuro di quello che fai e perché lo fai. Con l’avvento del digitale e soprattutto con l’estrema facilità di utilizzare ogni tipo di camera incluso l’iPhone, puoi fare qualsiasi cosa, poi butti tutto in montaggio e stai mesi a capire cosa volevi dire e come montare tutto quel materiale.

Parlaci un po’ dei tuoi inizi. So che hai cominciato proprio con documentari sull’arte, nella tua città natale, Parma, prima che ti trasferissi a Roma…

 

“In realtà io in origine facevo il pittore.”

“Ah questo non lo sapevo”.

 

“Sì, io nasco come pittore, ho sempre immaginato che sarei stato un pittore ma poi le cose sono andate diversamente…. ho aperto una mia società a Parma, facevo documentari sull’arte e restauro di opere d’arte, poi decisi di venire a Roma per vedere se potevo dare continuità alla mia professione di regista dopo aver realizzato il mio primo lungometraggio. Insomma, mi sono proprio trasferito, armi e bagagli. Una discreta follia. Un azzardo. Credevo molto nel mio carattere determinato, caparbio, professionale, sentivo che anche se arrivavo a Roma senza conoscere nessuno, comunque ce l’avrei fatta perché ero talmente motivato che non potevo fallire. Quanta ingenuità e presunzione! A Roma non sei nessuno, nessuno si occupa di te. Hai fatto un film? Beh, bravo, e allora? Hai voglia a fare telefonate, mandare e-mail, inviare soggetti, fare incontri inutili o fatti solo per cortesia con il tuo interlocutore che palesemente pensa a tutt’altro. Ti ricordi, anche tu ci sei passato.

Eccome se mi ricordo… Ricordo riunioni sfibranti, rinvii… Appuntamenti che saltavano… Era quasi meglio il mio lavoro in banca che volevo mollare.

Se non hai un gruppo di appartenenza, sei fottuto. Oppure cerchi di entrarci. Ma sono mondi chiusi. Se sei un po’ schivo e timido, com’ero io agli inizi, parti male. Dopo tanti anni di “romanità” ho accettato di essere un cane sciolto. Ma sono stato fortunato e forse anche bravo, da 22 anni sono a Roma e sono ancora qui a lavorare e lottare per nuovi progetti.

Che consiglieresti a qualcuno dei nostri lettori, che volesse fare il tuo mestiere?

A chiunque voglia fare questo mestiere consiglierei di stare insieme ad amici che condividono il tuo sguardo, i tuoi sogni, ma anche le tue sconfitte. Poi c’è sempre spazio per l’imponderabile, perché la fortuna e il momento giusto non li gestisci tu, arrivano o non arrivano.

Tuttavia devi avere un certo carattere, devi essere disposto a muoverti… a viaggiare… a vivere in situazioni precarie, se non estreme.

Esatto. Io non sono di certo un tipo stanziale; mettimi sul campo, ovunque e in qualsiasi condizione di lavoro e ambientale e sarò un uomo felice e appagato, lavorerò bene e starò bene. Mettimi a fare networking a Roma e sarò infelice e frustrato. È una contraddizione che mi porto da sempre e con cui cerco di convivere con grandi fatiche e frustrazioni. Viaggiare, incontrare culture lontane e molto diverse apre la mente e il cuore. Non mi importa la fatica, il caldo o il freddo, dormire poco e dormire male, vivere in situazioni estreme, sia a livello igienico (sono stato una settimana in uno dei tanti slum di Dacca e non si immagina cosa possa essere) che naturalistico (la foresta subtropicale o il deserto) che di pericolo (stare in Congo, esattamente nel Kivu, in cui la guerra civile non è mai finita, stare in un ospedale di medici senza frontiere in cui ogni giorno arrivano adulti e bambini feriti da sparatorie) .

C’è ancora una cosa, anzi due, che ti vorrei chiedere, per completare il tuo ritratto (e quello di Curtis): dici che lui, Curtis, ha fatto perdere le tracce, ok, altrimenti lo arresterebbero, ma tu hai avuto modo di fargli vedere il film? o di comunicarci anche segretamente via mail, questo aspetto mi incuriosisce molto, il vostro rapporto epistolare, come avveniva, il vostro rispecchiamento, se c’è stato. Ti sei rassegnato alla sua scomparsa?

Curtis non è il tipo che fugge o si nasconde, il suo PTSD non gli permette ragionamenti troppo articolati e organizzati. Lui non ha visto e non so quando e come potrà mai vedere il documentario. Quando faccio le proiezioni spesso mi immagino lui seduto in platea a vedere sé stesso e la sua storia e mi chiedo proprio questo. Non so darmi una risposta perché le sue reazioni non sono prevedibili. Le nostre comunicazioni avvenivano quasi solo attraverso la chat di Fb. È sempre stato complicato e faticoso per via del fuso (7 ore) e delle modalità (scambiarsi messaggi in inglese nel pieno della notte italiana con lui che scriveva velocissimo e io che cercavo di stargli dietro…)

Come è avvenuto l’aggancio?

L’aggancio con lui è stato tramite la comunità di sant’Egidio da cui ero andato a chiedere supporto per un argomento diverso, poi loro mi aprirono quella porta e io ci entrai dentro totalmente. Anche durante i primi scambi di messaggi con lui una persona mi ha sempre aiutato e fatto da mediazione. Perché anche lui aveva timori, non sapeva chi fossi, non mi aveva mai visto…

Mi ero rassegnato, come tutti, alla sua scomparsa, ma non so per quale motivo, ho sempre creduto che non gli fosse capitato niente di grave o di irreparabile. E alla fine così è stato.

E quelle sue foto molto belle sul consumo di speed, sulla sua difficile dipendenza, i suoi compagni di sventura, la sua esistenza da homeless tossico – ne hai qualcuna di quelle foto? come le hai usate nel film?

Ho visto insieme a lui le sue foto. Ne aveva tantissime molte delle quali erano ripetizioni infinite dello stesso soggetto. Ho fatto io la selezione di quelle che mi sembravano più belle e interessanti per raccontare la vita di quelle persone, alcune volte con il dubbio se era il caso di far vedere immagini così esplicite, come già ti dicevo. Ma poi ho deciso per il sì, erano racconto della sua realtà, di vite devastate, di vite che erano anche la sua.

E hai fatto benissimo.

Condividi su Facebook

Andrea Carraro

Andrea Carraro, scrittore, nasce a Roma. Se avesse ricevuto un euro ogni volta che sui media hanno usato il termine “il branco” per parlare di uno stupro di gruppo, citando il titolo del suo romanzo più noto, oggi sarebbe ricco. Invece è “solo” uno scrittore tra i più bravi. Romanziere, autore di racconti e di poesie, nasce a Roma nel 1959. Ha pubblicato i romanzi: A denti stretti (Gremese, 1990), Il branco (Theoria, 1994), diventato un film di Marco Risi, L’erba cattiva (Giunti, 1996), La ragione del più forte (Feltrinelli, 1999), Non c’è più tempo (Rizzoli, 2002) (Premio Mondello), Il sorcio (Gaffi, 2007), Come fratelli (Melville, 2013), Sacrificio (Castelvecchi, 2017) e le poesie narrative Questioni private (Marco Saya, 2013). Ha pubblicato anche due raccolte di racconti, confluite nel volume Tutti i racconti (Melville, 2017). I suoi giudizi critici, sensibili ma affilati quando serve, lo rendono un lettore del cui parere fidarsi con tranquillità.

Tag

Potrebbe piacerti anche...

Apri la chat
Dubbi? Chatta con noi
Ciao! Scrivimi un messaggio per dirmi come posso aiutarti :)