Questo brano è tratto da un romanzo in scrittura a cui Elena Zambelli sta lavorando durante il percorso “Diventa uno scrittore”.
Nei pressi di Val Peron, 1985
La radio della vecchia berlina bianca della Polizia gracchiava, probabilmente a causa degli altoparlanti sfondati. Il segnale la raggiungeva appena in mezzo al fitto bosco ma Gunter riuscì comunque a capire che il messaggio era per lui. Cercò di aggiustare la frequenza girando il pomello per poi risolvere la questione alla vecchia maniera, con un bel pugno secco sul cruscotto. Non aveva maturato trent’anni di esperienza per niente.
“Gunter, devi recarti al vecchio convento, qualcuno da valle ha segnalato del fumo. Passo”, disse una voce femminile.
“Avete chiamato Frate Giuseppe? Passo.”, chiese rilasciando il pulsante dell’apparecchio.
“Sì ma non ha risposto nessuno. Abbiamo già avvisato i Vigili del fuoco. Passo.”, avvisò la voce metallica della donna.
Gunter fece un sorriso ironico e scosse leggermente il capo. La camionetta dei pompieri non sarebbe mai riuscita a raggiungere il convento.
Accelerò lungo la strada sterrata del bosco alzando una gran nuvola di polvere, sino a raggiungere lo stretto stradello in pietra che portava al cortile del convento, abbarbicato sul lato destro della montagna.
“Sono arrivato. Il furgone dei frati è qui. Passo”, disse chiudendo la portiera dell’auto ed estraendo l’estintore dal bagagliaio.
Il piccolo cortile era pulito e ordinato, come al solito. Il vecchio Ford nero dei frati era parcheggiato sulla sinistra, a marcia indietro ed era chiuso.
Percorse a piedi i pochi metri che conducevano alla porta di ingresso e bussò, guardandosi attorno con circospezione.
“Frate Giuseppe?”. Restò in attesa di una risposta.
“C’è nessuno? Frate Giuseppe sono Gunter, Polizia.”, disse ad alta voce, continuando a bussare. Nessuno rispose.
Gunter fece per aprire la porta ma un rumore secco e improvviso lo interruppe. Si voltò e sentì uno scoppiettio provenire dal retro del capanno degli attrezzi. Si avvicinò piano e, appena volse l’angolo, scorse un grosso braciere di metallo infuocato che esalava un enorme fumo grigio. Rimase immobile qualche secondo cercando di decifrare quell’odore che impregnava l’aria. Un odore acre che gli solleticava e pizzicava le narici.
Il suo sguardo cercò di spingersi oltre il bordo del braciere e ciò che vide lo fece sobbalzare all’indietro. L’estintore gli cadde a terra, scheggiando le pietre del selciato.
“Ma che cazzo…”, disse Gunter mettendosi una mano alla bocca per trattenere un conato di vomito. Tra le fiamme ardeva Spina, il labrador dei frati. Il corpo del povero cane era ormai ridotto ad una nera carcassa puzzolente. A terra c’era una grossa pozza di sangue ormai rappreso e infestata da decine di mosche.
“Ehi, c’è nessuno. Fra Sebastiano?”, tornò con insistenza a urlare, estraendo questa volta la pistola dalla fondina.
Spinse la grossa porta di legno, che non fece resistenza ed entrò. Tornò a bussare sullo stipite scricchiolante. L’ingresso era immerso nel silenzio e la stufa a legna conservava ancora le sue tiepide braci. Si udiva in lontananza la musica di una radio che diffondeva musica lirica.
Proseguì lentamente, percependo il rumore dei suoi passi sul pavimento, uno dopo l’altro. Quando i suoi occhi voltarono lo sguardo a destra, nella cucina, ciò che vide fu Fra Sebastiano, il più giovane dei frati del convento, riversò con il cranio fracassato sulla tavola.
“Oddio mio”, esclamò Gunter, facendosi avanti piano.
Era ancora seduto sulla cassapanca e le braccia erano distese nella pozza di sangue che fuoriusciva dalla sua testa aperta. Svoltò appena di fianco alla tavola e a terra vide Fra Guglielmo, riverso a terra. I suoi occhi vitrei erano spalancati in uno sguardo di terrore e morte.
“Ehi, Fra Guglielmo”. Gunter si piegò sulle ginocchia e gli tastò il polso. Vide un grosso squarcio nella tunica all’altezza del cuore. Provò a scuoterlo ma la testa gli si ribaltò di peso da un lato. Un rumore improvviso lo fece alzare di scatto. Un’anta del bagno sbatteva sotto la forza del vento che entrava dalle finestre aperte.
“Fra Giuseppe è lei? C’è nessuno?”. Avanzò piano, con l’arma spianata e notando a terra una grossa ascia insanguinata col manico in legno.
La porta era socchiusa e Gunter la spinse leggermente con la canna della pistola. Dalla specchiera sul lavandino intravide l’immagine del corpo di un bambino, accasciato a terra e appoggiato al bordo della vasca. Il petto si muoveva lentamente sotto la maglietta strappata e sporca di sangue.
“Dio Santo. Ehi piccolo, mi senti?”. Gunter si piegò di fronte a lui e gli accarezzò il volto. Il ragazzo riemerse come da un’apnea e riprese a respirare, spalancando gli occhi.
Gunter corse verso il telefono che si trovava nella biblioteca e alzò la cornetta. Le sue mani erano sporche di sangue.
“Anna, sono Gunter, manda immediatamente un’ambulanza al convento”, disse con voce bassa e concitata, guardandosi le spalle.
“Cos’è successo?”, chiese lei preoccupata.
“Due frati sono stati uccisi. C’è un ragazzino ferito ma è ancora vivo”.
“Un ragazzino?
“Non lo so, credo sia uno di quelli dell’orfanotrofio. Devo cercare Fra Giuseppe”, disse Gunter interrompendosi, sentendo un lamento sordo provenire dalla cappella.
“Manda qualcuno. Fai in fretta”.
“Esci di lì subito, mi hai sentita?”, gli urlò lei. Gunter ripose la cornetta e raggiunse la cappella attraverso un angusto corridoio scavato nella pietra. Il gancio in ferro della porta era stato forzato. La aprì e il cigolio lo fece esitare.
Con una mano teneva la pistola e con l’altra accese la torcia che aveva in cintura. Le pareti umide esalavano odore di muffa e riflettevano lo sfarfallio dei candelabri accesi e ormai consumati. Il suo respiro si spandeva nella stanza e la musica diventava sempre più forte.
“Dio mio, ma cosa…”, sussurrò impietrito.
Riposti con attenzione maniacale vide i corpi nudi di tre ragazzini.
Due giacevano sdraiati a terra ai lati dell’altare ed avevano il colore pallido e violaceo della morte. Il loro petto era squarciato da un taglio netto che partiva dalla gola sino al pube e i loro occhi erano sbarrati, tenuti aperti da bastoncini di legno colorati. La stanza ne era piena.
Gunter si avvicinò al bambino sull’altare. Era ancora vivo e aveva le mani e i piedi legati.
“Sono qua ragazzo. Sono della Polizia”.
Gunter appoggiò a terra la pistola e la torcia e si affrettò a slegare le cinghie. Il ragazzino rimase immobile. Poi girò appena la testa verso il poliziotto e, guardando oltre le sue spalle, si chiuse gli occhi con le mani.
Gunter si girò di scatto e non ebbe il tempo nemmeno per un urlo soffocato. Un’ombra silenziosa conficcò con forza l’ascia insanguinata nel cranio dell’uomo e tutto terminò.