Questo brano è tratto da un romanzo in scrittura a cui Daniela Borgato sta lavorando durante il percorso “Diventa uno scrittore”.
Vittoria sobbalzò. Girandosi in cerca della spazzola che aveva posato chissà dove, incontrò gli occhi sgorbi di sua madre. Regina impalata sull’uscio della camera da letto la fissava con la faccia scura.
“Perché sei saltata su?”
“Non ti ho sentita arrivare. Non credevo che eri qua.”
Regina posò sul copriletto di satin celeste una pila di biancheria pulita, ben piegata. “Mettila a posto, prima di andare fuori”.
Vittoria si voltò verso la pettiniera e continuò a sistemarsi i capelli.
“Mi senti o no? Sto parlando con te”. La voce era tagliente.
Fece un cenno con la testa, per dire che aveva capito e riprese a lisciarsi le onde nere e lucide con la spazzola. “Non riesco proprio a tenerli in ordine, sono un disastro – disse inarcando le sopracciglia – meglio se faccio un cocon”.
“Abbottonati la camicetta”. Il neo sopra il labbro dalla parte destra della bocca fremeva.
Con dita nervose tastò l’orlo in cerca dell’occhiello dove infilare il piccolo bottone di madreperla che si era slacciato dove il tessuto si tendeva, all’altezza del petto pieno. “Ecco fatto, contenta?”. Aprì l’armadio, tirò fuori il vecchio soprabito autunnale di lanetta: “Con San Francesco arriva il primo fresco” cantilenò.
“Va là, Vittoria – pensava masticando amaro Regina – non fare la commedia con me, tanto ti conosco”. Ma non disse niente. Seduta sul bordo del letto cominciò a dividere la roba bianca in due mucchietti: maglietta di sotto, mutande, calze, sottoveste di Clara da una parte e la roba di Vittoria da un’altra.
“Senti qua: da un po’ non vedo le tue pezze. Quando ti sono venute le tue cose l’ultima volta?”.
“A settembre vuoi dire? Non so…” Vittoria scrollò le spalle e nello stesso istante sentì il sangue arrossarle le guance e un tremito, come una scarica elettrica dalla radice dei capelli correre giù per la schiena fino all’osso sacro.
Fece la prima cosa che le venne in mente: aprì il cassetto in alto del comò e ci infilò dentro una mano annaspando con gli occhi appannati tra fazzolettini da naso, reggicalze, magliette della salute. “Non trovo il mio velo bianco, eppure giuro che l’ho messo qua”.
“E stai un attimo ferma! Quando tua mamma ti parla, guardala. Di cosa hai paura?” disse Regina con voce asciutta.
Rise nervosa. “Di fare tardi ai vespri, ho paura”. “Eccolo, finalmente!” Prese il velo da una scatola e lo infilò nella borsetta. “Vado in chiesa”.
“A cosa fare?” sibilò allora Regina con le mani sui fianchi. “Cosa ci vai a fare in chiesa col velo bianco in testa? A farti ridere dietro da tutti?” I suoi lineamenti si erano irrigiditi. Gli occhi sprizzavano cattiveria: “Te lo chiedo una volta sola e tu per una volta sii sincera: sei a posto, sì o no?”.
Lei non disse niente, solo gli occhi le vennero lucidi.
“Si o no?” ripeté Regina calcando bene sulle parole.
Lei serrò le mascelle, deglutì e rispose con un cenno della testa, senza guardarla.
La camera precipitò in un silenzio pesante denso di tempesta.
“Sei sicura?”
“Sì, sono stata dal dottore”.
Scattò in avanti come punta da una vespa, paonazza in viso: “Dimmelo, dimmi il nome di quel farabutto che ti ha mancato di rispetto. Il nome. Voglio sapere chi è quel delinquente che ti ha messo in stato”.
“Non sono fatti tuoi” rispose Vittoria sfidandola con uno sguardo affilato.
Regina non ci vide più. Le saltò addosso e le affondò le dita come artigli nelle spalle, il viso acceso, vicinissimo al suo le vomitava in faccia tutta la rabbia che aveva in corpo: “Sei una disgraziata. Che cos’hai al posto della coscienza? Butti fango sulla nostra casa, disonori la nostra famiglia e mi rispondi che non sono fatti miei?”
“Lasciami stare” gridava Vittoria cercando di sottrarsi alle unghie di sua madre.
“Svergognata. Svergognata. È tutta colpa mia, troppo libera ti ho lasciata. È questa la risposta alla fiducia che ti ho dato? È meglio se ti butti nel canale Morto con una pietra al collo piuttosto che dare questo scandalo”.
“No, no, no… non è come credi, lasciami stare.” Si coprì il viso con le mani e scoppiò a piangere. “Io il bambino me lo tengo”.
“Maledetto il giorno in cui ti ho messa al mondo… non sei mia figlia… sei la mia vergogna. Non ti voglio vedere un giorno di più in questa casa… prepara la tua roba. Domani ti monto sul primo carretto che passa e te ne vai senza voltarti indietro”. Sbraitava gridando frasi sconnesse, fuori di sé dalla disperazione e dalla vergogna.
“Aspetta mamma…”
“Non voglio più vederti passare davanti ai miei occhi. Mai più. Vattene”.
“Papà!” Esaù dalla cucina aveva sentito strepitare ed era corso su. Si asciugava le mani nel grembiule. Vittoria vedendo la tristezza dei suoi occhi provò imbarazzo per lui. “Papà ti prego perdonami”.
“Ora basta – disse lui pallido come un morto. – Basta Regina, calmati, sei fuori di te. E tu, tosa, lavati il viso e vieni giù che c’è gente in osteria”. I volti disfatti di madre e figlia gli facevano un male terribile. “A me mio padre mi ha sempre insegnato che le cose si sistemano, che a tutto c’è rimedio fuorché alla morte. Vieni giù Vittoria che è meglio”.
Regina attraverso lo specchio della pettiniera guardava stranita il copriletto azzurro spiegazzato, il comò di noce, i comodini con i centrini ricamati. Era come se vedesse tutto per la prima volta. Raccolse la borsetta, tirò fuori il velo di pizzo bianco che un tempo era stato suo. Lo strinse nelle mani. Si sentiva dentro uno scombussolamento mai provato prima. Si sentiva umiliata e offesa. Avrai un figlio senza padre che si vergognerà di te. Lei che era stata abbandonata alla nascita, lei che non aveva mai conosciuto sua madre, che era stata allevata grazie alla pubblica carità, sapeva bene cosa si provava ad avere scritto nei documenti Figlia di NN. Non riusciva a togliersi dagli occhi quelle due maledette N che avevano marchiato la sua vita. No, non era riuscita a proteggerla. Vittoria aveva fatto le sue porcherie di nascosto. Si era rovinata con le sue stesse mani. Sapeva che mai né Esaù né Vittoria avrebbero capito la vastità della sua angoscia. Si sedette di nuovo sul letto con le gambe ciondolanti a testa bassa a nascondere le lacrime che le segnavano le guance. E mentre piangeva per sfogarsi con gesti rabbiosi ridusse il velo in un mucchietto di brandelli sfilacciati, li appallottolò e li gettò nel secchio della spazzatura, perché venissero sepolti nel letamaio dietro casa.