Zebù bambino – un’epopea mefistofelica in versi di Davide Cortese

Cosa avrà imparato davvero da noi umani, il diavolo piccino?

Il poeta di questo numero di #perilgiustoverso è Davide Cortese, poeta eoliano nato a Lipari, laureato a Messina, e residente a Roma dove è legato a un gruppo di poeti “romani”, in massima parte come lui “provinciali”, approdati per una ragione o per l’altra, non necessariamente per ragioni di poesia, alla Capitale. Il testo di cui ci occupiamo è il suo libro più recente, Zebù bambino [Terre d’ulivi edizioni, Rende – CS, novembre 2021].

Si tratta di un piccolo libro, che segue a una intensa attività e presenza di Davide Cortese come poeta ma anche come sporadico narratore che ha mantenuto nel tempo un occhio puntato sulla sua prima passione, e cioè la ricerca intorno alle figure meravigliose nelle credenze popolari eoliane centrali nella sua tesi di laurea – dunque un interesse tra antropologia e tradizioni. Un piccolo libro, di soli 21 brani in versi, spesso risolti in vere e proprie quartine in cui ci si muove tra rime alternate e rime baciate e a volte in componimenti che apparentemente esorbitano dalla scansione in quattro quarti eppure sempre radicati nella misura due confermata come vedremo tra poco in alcune composizioni in cui le coppie di versi altro non sono se non emistichi (cioè due metà segnate dalla cesura di un a-capo) di versi che se non fosse per la cantilena musicale fatta di ritorni sonori potrebbero tranquillamente esser anche presi per frasi di un periodare magico e corto.

Il mattatore assoluto del testo è del resto il diavolo piccino. Un fanciullo che fin da subito promette.

Gli piace il fuoco, gli piace sparigliare, è un guardone, ha la classica posa da impunito che in un bambino può esser tollerata come simpatica spiritosaggine un po’ spinta ma poi crescendo diventa intollerabile offensiva aggressiva violenta crudele e di un orrore totalizzante (pensiamo al Satana di John Milton).

Ali nere d’angelo randagio

ha sul dorso Zebù bambino.

A dadi inganna il tempo malvagio

il signor Mefistofele piccino.

_________________________

Gioca ai dadi con le bambole

il piccolo Zebù.

A una ha dato il nome

della madre di Gesù.

Tatua fiori di melo e serpenti

sul seno di plastica di Maria.

Poi rosicchia quel seno coi denti.

Succhia il latte che finge vi sia.

Qui la sensazione è che la vera struttura non sia quella che si vede. Cosa vediamo? Vediamo otto versi a rime alternate. In realtà la netta sensazione è che si tratti di una quartina i cui emistichi sono stati spezzati dagli a-capo: lo indica subito la rima irregolare tra “bambole” e “nome” che chiude il primo e il terzo verso. Chissà che l’autore non riesca a illuminarci su questo punto.

La conferma arriva poche pagine dopo con questo brano:

Piace la cioccolata

al piccolo demonio

non dividere in sillabe

la parola abominio.

Vuole il gesso nero

per scrivere alla lavagna.

Manda al cimitero

la maestra che si lagna.

Non vuole saperne d’ a, e, i, o, u.

Ama la ricreazione

il piccolo Zebù.

__________________________

A pagina 15 e al brano n.11, ritroviamo il segno più chiaro (ed è paradossale dirlo) di questo diavoletto malvagio in modo puro, cioè irriverente, blasfemo, irrispettoso, però allegro, vivace, frizzante: il nero e il fuoco, le fiamme e il gusto di bruciare, di dar fuoco a tutto e a tutti.

Disegna angeli bianchi

il diavolo bambino

poi li accartoccia tutti

gli dà fuoco con l’accendino.

“Solo angeli neri”, dice

guardando bruciare la luce.

Il colmo dell’irriverenza, della sfrontatezza arriva poco dopo:

Ruba la spada di legno a Gesù

quel monello del bimbo Zebù

gli pesta i piedi, gli fa lo sgambetto

non gli risparmia neppure un dispetto.

Tira le trecce a Maria, sua madre.

Per correre al circo ruba i soldi a suo padre.

E come si atteggia, Zebù bambino, verso i coetanei?

“Sei una schiappa”, “Sei grasso”, “Sei brutto”.

Ai compagni di gioco dice di tutto.

Li seppellisce sulla spiaggia ardente

sotto infiniti castelli di sabbia.

Solo quando non muovono più niente

repente ha fine la sua rabbia.

Anche qui l’aggettivo “ardente” ci fa presente la natura bruciante del diabolico frugoletto. Ma non si deve dimenticare che trattasi di angelo caduto visto in una finora mai narrata infanzia “di fuoco”:

A chi aspramente lo rimprovera

per qualche suo scherzo atroce

“L’ho imparato dagli uomini”

ogni santa volta dice.

Qui troviamo due termini chiave: “scherzo” e “santa”, a cui corrispondono direttamente altre due parole: “atroce” e “uomini”. Dunque questa favoletta nera non è distante, come si vede ci tira dentro. Cosa avrà imparato davvero da noi umani, il diavolo piccino? Di sicuro la recita, la finzione, la mistificazione – e così è l’Uomo a fornirgli gli strumenti più efficaci per perseguire il suo fine fisso: l’uccisione di dio.

Talvolta se ne sta solo

ginocchia sotto il mento

in cima ad un pensiero

battuto dal vento.

Nessuno lo vede e piange

nel silenzio che fa spavento.

Lacrima zolfo, il piccolo Zebù

gocce che sfrigolano

cadendo giù.

Dopotutto non guasta tentare la carta della compassione, del patetico che ha sempre presa su quei creduloni dei viventi pronti a credere alle lacrime di zolfo del putto ambiguo, naturaliter sapiente e inevitabilmente saccente.

Quando in petto lo strugge

un arcano bisogno d’amore

va a rubare all’emporio del gobbo

un lecca lecca a forma di cuore.

Ecco, questa è la prova che il piccolo diavolo vive tutto senza vivere, è tagliato fuori dall’autentica esperienza: una vita, per quanto ancora in erba, però già completamente infernale: esclusione totale. Lo struggimento d’amore è una costipazione misteriosa che sembra alludere a qualche sentimento lontano, la sua soddisfazione può essere saziata, e resta insaziabile ovviamente, solo da un surrogato, un lecca lecca a forma di cuore – dunque un cuore senza il cuore, e poi tosto da suggere, e per averlo deve vedersela con un gobbo che lo vende all’emporio. Un racconto giocoso e semplice tutto fatto di segni, di allusioni, e di oggetti che hanno il loro saldo valore letterale e un ampio respiro simbolico. Verrebbe quasi da lasciarsi impietosire e provare sincera pena, però – attenzione:

Diventerà un bel giovane

il piccolo Zebù.

Presto farà breccia

nel cuore di Gesù.

Il punto è questo. L’insidia. La seduzione insidiosa. La lasciva intrusione della parola, del discorso che ammalia accompagnato dalle carezze degli occhi e dalla posa sensuale del corpo.

“Parlando, e parlando dolcemente, svanendo, il poeta ci ricorda la nostra mortalità e, insieme, il nostro aver a che fare – fare un che – col linguaggio: «L’aver-luogo del linguaggio fra il togliersi

della voce e l’evento di significato è l’altra Voce, la cui dimensione onto-logica abbiamo visto emergere nel pensiero medievale e che, nella tradizione metafisica, costituisce l’articolazione originaria (ρθρον) del linguaggio umano. Ma, in quanto questa Voce […] ha lo statuto di un non-più (voce) e di un non-ancora (significato), essa costituisce necessariamente una dimensione negativa. Essa è fondamento, ma nel senso che essa è ciò che va a fondo e scompare, perché l’essere e il linguaggio abbiano luogo». [ci dice nella post-fazione Mattia Tarantino, che trae il virgolettato da Giorgio Agamben, Quarta giornata, in Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino, Einaudi 1982]. E prosegue: “Al poeta – lo scomunicato, il balbuziente, l’insonne che veglia – non resterà che dire, allora: «Scoccano insieme / la mezzanotte e il mezzogiorno». È la visione di Zebù, il bambino con le ali “da angelo randagio”»”.

Leggendo questa piccola ma intensa opera su Zebù bambino ho pensato a molte cose che riassumo.

Ancor più che di una biografia degli anni precoci di Lucifero prossimo a diventare Satana credo qui si tratti della figura del poeta il quale rompe il silenzio pur tenendone conto, come abbiamo osservato altre volte, cioè appende, per insondabile miracolo della fisica, le sue composte parole nel nulla, in alto, in un mare di muto esistere cui lui/lei strappa espressioni sonore con tutta una fenomenologia acustica di cui, più ancora o prima che indovinare il significato, fa gola, cioè risulta irresistibile seduzione, il potere incantatorio della parola, che proprio nella raffinata espressione si fa diabolica.

Siamo lontani dal poeta di Blake che è puro come un agnello e coincide per innocenza con l’Agnello di Dio. Invece qui ci avviciniamo, o meglio conosciamo l’antecedente del Satana di Milton che è tutto corpo e splendore fisico, tutto sensualità e strafottenza infiltrante e seduttiva. La potenza del Satana di Milton, più che nella parola, benché sia famoso il suo discorso che finisce, disperatamente, così: “Meglio essere re all’inferno che servo in paradiso”, sta nel linguaggio del corpo, nella sua capacità di giocare con la seduzione, nel gusto di mettere in atto una tentazione che ha tratti di ammaliante innocenza: doti che promettono bene e sono tutte qui, nello Zebù bambino di Davide Cortese. Qui però il poeta non tace sul fatto che la devastante malvagità, senza ombre, senza pentimento, del suo Zebù, che certamente “si farà”, riflette la pallida, meschina, ambigua malvagità umana: l’uomo gli è stato mediocre modello efficace, l’uomo modello di tutte le cose.

Ricorro a un aneddoto personale: anni fa ero a New York sulla Madison, a un certo punto scovai un locale dove servivano unicamente caffè in cialde di una nota marca, così, stracca, andai a sedermi a un tavolo in vetrina, e come un falco arrivò una cameriera a prendere la mia ordinazione. Tentai di ordinare un Ristretto, ma lei mi disse che negli Stati Uniti il gusto Ristretto non c’è! Spazientita (chissà quanti romani, e non, di passaggio, le avevano già fatto l’assurda richiesta), mi portò un menu e mi indicò un gusto che (sapeva che era così) era nero nero e altamente intenso: si chiamava, manco a dirlo, Diavoletto – che naturalmente lei pronunciò, Diavolìdo!

Però l’onore del congedo va tutto a Davide Cortese, che mostra in questa raccolta un’acuta sensibilità per i suoni della lingua, per i suoi ritmi ammaliatori e per i giochi sapientemente combinatori dei versi, e ci ha messi a contatto con l’irruzione del logos che è la vera, assoluta sfrontatezza umana, non solo o non tanto come ricamo verbale ma come atto di tentata supremazia, come esercizio di dominio su tutte le cose visibili e invisibili, oltretutto con un asciutto vigore tecnico che tanto era piaciuto anche a Gabriele Galloni, forse il primo lettore in assoluto di questi versi, che infatti gli sono dedicati ex-libro – Gabriele Galloni che prematuramente ha lasciato questa terra ed era parte dello stuolo di amici-poeti, raccolti intorno a una figura di maestro controvoglia che è Antonio Veneziani.

La fotografia nella pagina è di Antonio Strafella

Condividi su Facebook

Potrebbe piacerti anche...

Dentro la lampada

Il tocco

“Le dico mamma non toccarmi. Niente. Che fastidio ti dà? mi dice”. E con le mani continua a scavare nella carne del figlio.

Leggi Tutto
Apri la chat
Dubbi? Chatta con noi
Ciao! Scrivimi un messaggio per dirmi come posso aiutarti :)