IL PENSIERO I COLORI LA MUSICA
Ho a lungo ragionato su un pugno di poesie, tra le molte (tutte) perfette, risonanti, pensive, creatrici, per scegliere da dove cominciare a mostrarvi esempi di questa poesia altissima nutrita di sentire e pensiero, cioè, avrebbe detto Pasolini (che in questo 2022, cent’anni dopo la sua prodigiosa nascita, nomineremo tutto l’anno), di intelligenza sensibile, e, aggiungo io, di pensiero senziente: la poesia di Esther Basile, filosofa, autrice di questa raccolta, CAMMINI DI PIETRA (HomoScrivens, Napoli 2017). Avrei potuto cominciare da qualunque parte del piccolo volume, nutrito anche da una prefazione sapiente e sensibile di Elio Pecora (cui sono anche dedicati dei versi nella sezione UTOPIE), dai tre contributi, in coda, di “sorelle nel pensiero e nella poesia”, e anche dalle fotografie della giovanissima Maria Rosaria Rubulotta, e dalla riproduzione in copertina di “Paesaggio con stelle”, acquerello di Adriana Assini. Alla fine ho deciso di partire da qui:
Il pane nero
Il pane nero
dalla parte del sole
immagine
di muraglie
e cammini di pietra.
I corpi in movimento
dall’alba
con l’isola incantata
e i rami di bouganville
che hanno figure
di reti sulle spiagge.
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Lampedusa
Il pensiero di te
si unisce
a questa calda
notte d’autunno.
In questo luogo
di randagi
dove sembra
che sul battello
non ci siano
più uomini
ma primavere
di dolore.
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Il mare sa
Il mare sa
di gelatine chiare
di morbide canne
di inganni
ed euforie.
Il vento
come altalena
trasmuta
in geografie.
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Mi ribello
Mi ribello
I popoli sanno
cosa significa
aver fame
mi ribello
di fronte allo sfruttamento
alla pace
solo annunciata
mi ribello
alla menzogna
al paesaggio
di questi anni
alle sirene
dei mediocri.
Dentro questo pugno di versi ci sono motivi e oggetti indicativi della poetica e degli strumenti umani praticati e frequentati da Esther Basile nella propria scrittura in versi. Comincio dalla versificazione, e da ciò che sempre desta perplessità in chi legge la poesia e si stupisce della arbitrarietà degli a-capo come se il/la poeta decidesse la scansione non per una musica e per un intento che si chiarisce a lui e a lei (in questo caso) nell’atto di trovarla, ma a casaccio, solo per dare una veste di apparente poesia a una prosa andata a male. Signore e signori! È ora di finirla con queste liquidatorie superficialità, e con la supponenza della lettura. Ogni testo è una proposta, è un frammento di discorso amoroso di cui chi legge diventa destinatario privilegiato. Leggere poesia in specie è come pescare dei messaggi in bottiglia: fortunato chi li trova e sa connettercisi.
Se teniamo custodita in noi la lezione di Emily Dickinson, che addirittura usava le maiuscole e i trattini lunghi (hyphens), spesso al posto degli a-capo, per scandire e per enfatizzare, allora non stentiamo a riconoscere una versificazione che, lungi dal voler proclamare e declamare in modo stentoreo ogni suo singolo elemento, cerca però, nella grande economia lessicale, di richiamare l’attenzione sui propri componenti, a questo punto tutti significativi, senza nessun punto morto.
Nel primo testo citato, Il pane nero, è ben chiaro che Esther Basile raccoglie il testimone vagheggiato da Eugenio Montale in Meriggiare pallido e assorto e ai carrugi genovesi sostituisce i vicoli di Napoli e le stradine capresi di pietra tra alti muri, ed è evidente il dialogo tra le case arroccate che salgono al vertice di un’isola o di una città che si erge e il mare, evocato dalle reti che sono figure lasciate saltare tra la spiaggia dove capita trovarne di abbandonate, e le muraglie a cui si avvinghia una delicata bouganville. Troviamo un ermetismo di fatto: non, intendo, un limite (come formulò il Flora che intendeva il termine in senso negativo) ma una soglia che è trampolino dal buio verso un’insperata uscita. Vediamo qui, in modo esemplare, l’analogia come metodo di composizione e la galoppata per agilità poetica su “a heap of images” (diceva T. S. Eliot), cioè tipicamente una scrittura che consiste nel cavalcare una teoria di immagini.
Riti
Al balcone
si consumavano i riti dell’estate
il paese
all’imbrunire
sembrava
un piccolo regno fortunato.
Un luogo
di oblii
labirinti di oleandri
e in furtive
scorrerie
bruciavano
corpi e anime.
Nessuna assenza
senza fondo
e al di là dell’aria
dove gli uccelli spiano
l’astratto
ogni movimento
teme la barbarie.
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E il cielo notturno
E il cielo notturno
in totale purezza
ci accoglie
alle figure
delle costellazioni
si uniscono
impercettibili rumori
di case antiche.
La natura
questo gioco di luce
su fluide
corrispondenze.
Ritrovare il termine corrispondenze ci aiuta a spostarci dal mero dato tecnico, che pure contribuisce alla rivelazione del valore nitido di questa poesia, ad altri aspetti della scrittura, cioè ai temi e agli strumenti umani (accennavamo sopra, parafrasando Vittorio Sereni), che costituiscono il vero cuore della cosiddetta necessità, e non solo personale urgenza, di questa poesia.
Corrispondenze lo intendiamo qui non solo in senso baudelairiano (come gioco di echi e specchi tra parti apparentemente o certamente separate) ma anche nel senso che suggerivamo due settimane fa commentando la poesia di Maria Concetta “Cetta” Petrollo Pagliarani: come indirizzo di messaggi, come forma di comunicazione a tutto il cerchio umano, come canto del girotondo dei viventi. Qui Esther Basile lega tra loro una serie di temi e strumenti, che danno forza al pensiero non solo di avvicinare i distanti e saldarli in una sodalità profonda in un comune sentire (questa poesia cerca proprio di ridestare quel sentire, di dissotterrarlo da dove ognuno tende a seppellirlo per non sentire la voce lacerante dell’unione) ma di assicurare l’escamotage che nel chiuso dell’animo disperato, nel buio della sciagura e negli spiriti spenti riaccenda la vita della sensibilità e l’ascolto della voce umana e di tutti i viventi. Questa comunicazione rivolta a fratelli e sorelle (soprattutto), e a uomini e donne con cui idealmente come concretamente l’autrice conduce un dialogo costante e unione di intenti e del sentire, è anche, nella trasmissione del messaggio, formulata come stato di transito e di continuo scambio tra generazioni, dunque come attraversamento e come passaggio del testimone e di eredità. Ma Esther Basile non si limita a raccogliere un testimone nella staffetta poetica in cui si è impegnata con tutta sé stessa: va oltre – a mio parere, nel suo caso, dobbiamo parlare di rotazione semantica, riformulando un’etichetta cara alla filologia (la rotazione consonantica che determina una svolta linguistica degna di nota e addirittura genera lingue nuove) per indicare la forza della parola che, mentre elenca ed enuncia, trasforma e rilancia, cioè destina a nuova vita, dunque ha una potenza generatrice.
Traversare
Traversare
universi di parole e suoni
sconfinati
dove i sacerdoti
mostrano
l’ora dell’attesa
e il semivuoto
si riempie
di raggi d’azione
nella consapevolezza
della luce
non mistificatrice
della storia.
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Sono in attesa
Sono in attesa
mentre il tempo fuori infuria
e altre storie
di martirio
entrano in silenzio
nella coperta
in cui piantiamo
la nostra umiltà di profughi.
Se i profeti fossero
nella notte come guardiani
e volti di donne
si mescolassero
al canto di uccelli
e
potessimo
riascoltare Orchestre
apprenderemmo le lacrime
di chi è andato
legandoci al legno.
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Ombra
È stata l’ombra del Vesuvio
a far scoprire
la ruggine della città.
Mentre scendevamo
arrivava il rumore dei passi
e un freddo alla schiena
veloce
percorreva la sua traiettoria.
L’occhio cerchiato
guardava
il cielo della stella sulla verticale
la corrente addosso
avrei voluto lanciare
contro il mare
la tramontana
coperta dal vento.
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Gerusalemme
Oggi il vincolo
non fa caso a noi
al buio
si indovina
la figura da un terrazzo,
una persona porta sandali
d’inverno
si continua a studiare il Talmud.
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Istanbul
Ascolto
nella sera Istanbul
e i ritmi lenti di suoni ancestrali
la Moschea
blu appare rifugio
di straniere
coperte da un velo sottile
nero e profondo.
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La lunga strada
La lunga
strada
è come un cielo
carta da zucchero
ti vedo tra
verde monte
lontano
dalla vastità
dei fiumi.
C’è sempre uno sguardo, una scena che si anima, c’è chi guarda e chi è guardato, c’è sempre una relazione in atto, lasciata trapelare solo attraverso pochi, sporadici dettagli, dunque lo sguardo è nitido, pulito, privo di ombre, così come il poetare è limpido e diretto. E poi c’è il riferimento altrettanto limpido a una comunione sociale, a una fratellanza civile.
Tutta la raccolta è innervata da una potenza di superamento, da una capacità della luce di vincere sul buio, o perlomeno di tenere i due versanti a confronto in un testa a testa senza risparmio di colpi, di condurre dunque con abilità tutta umana la danza in cui luci e ombre volano l’una incontro all’altra se a tenere le redini della faccenda sono le ragazze – la ragazza che Esther Basile è stata e che è viva nel ricordo, anzi in tutto il suo essere, nelle sue fibre che non scordano, ora è la donna che guarda le ragazze del tempo corrente, in un unico tempo in cui tutte sono coetanee: il tempo della poesia.
Il prodigio accade perché tra questi versi trascorrono i suoni e i colori, altrettanti segnali di vita.
Solo così si può uscire dalla nebbia in cui siamo intrappolati e veniamo trattenuti, in apnea e senza libertà. Sono questi gli strumenti umani che Esther Basile ci somministra come risorse certe con cui proviamo a fare i conti con l’esistenza che riserva letteralmente di tutto e che per alcuni è tremenda. Ci sono i suoni, nel mondo, c’è la musica. E ci sono i colori. Il cromatismo delle stagioni e dei luoghi.
C’è Napoli e c’è il mare.
Anna Maria Ortese ci ha detto che “il mare non bagna Napoli”: sta di fatto che a Napoli il mare c’è. Esther Basile che ha legato il proprio nome alla Ortese (poi finita con sua sorella in un altro luogo di mare, in Liguria) come ideatrice di un premio letterario che porta il nome della grande scrittrice; Esther Basile che penso sia pronipote dell’autore de Lo cunto de li cunti, ma soprattutto è in prima persona filosofa dell’Istituto di Studi Filosofici a Napoli ed è legata alla figura di Eleonora de Fonseca Pimentel, l’eroina della Rivoluzione Napoletana del 1799 in cui fu attivo Vincenzo Cuoco (a scuola non si studia più); Esther Basile che allargando l’orizzonte abbracciato dal suo sguardo ha ideato “La tela del Mediterraneo”, progetto rivolto alla cultura delle donne di questa vasta area; proprio Esther Basile riesce a farci sentire il respiro del mare: chi vive in un luogo di mare, anche distanziandosene, non ne perde memoria, porta il mare dentro di sé; e il mare è acqua che respira, è fiato vegetativo, è routine respiratoria, cioè vita che va e viene, e anche quando (se ne) va, poi viene, ritorna, e anche nelle fasi in cui la vita sembra sparire, o peggio esser sparita, c’è un punto remoto e centrale da cui la vita, col respiro, torna. Non è mai finita finché non finisce: Esther Basile riesce anche a farci vedere il Mar Rosso che tira indietro i propri muscoli respiratori per aprire un varco in cui il popolo d’Israele trovi il passaggio per la libertà appena prima che quel passaggio torni ad essere inondato affogando gl’inseguitori.
Il respiro
Il respiro
della riva d’inverno
cambiano in blu
gli scogli
e veli azzurri
di luce
scagliano a spruzzo
grumi di sale.
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Mare, mare
Mare, mare
forza di sabbia rovente.
Il corpo di Israele
si perde
in una nube
e il peso della tenerezza
si fa memoria.
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Trascorriamo
Trascorriamo
come alberi di fico.
Una morte spezza le vene
eppure nel grembo
portavi vita
al termine del sorriso
dopo la prima terra
la seconda è ibrida,
figura trasparente
che si fonde in un’aria senza lode.
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Una preghiera d’amore
Una preghiera d’amore
si fonde
in candide vele
la nebbia
ricorda
le corde
d’un canto antico.
La poesia di Esther Basile, apparentemente costruita su pure descrizioni, consiste in realtà in visioni che sono già oltre i propri stessi costituenti, e hanno in sé la guarigione, per così dire, donata da uno spirito creatore in grado di trasformare, dopo aver domato e re-incanalato, qualsivoglia energia, anzi da uno spirito capace di ripulire qualsivoglia energia trasformandola in linfa sana.