Vanno le torme dietro un vessillo lacero,
per una pena di cui ignorano il misfatto
– su chiuse mura i cieli aperti si stendono
come i luoghi di un sogno impercorribile –
pure vanno affannate e tutte sanno
che il solo premio è tornare alle case,
chiamarsi per nome, infine sapersi figli
di un tempo stretto che si nega agli eroi
ma, ancora, ne piange l’oscura mancanza.
Forse non avete dimenticato, amici e amiche di versi, che già in passato e non da molto ci siamo occupati/e di Elio Pecora, decano della poesia italiana, quando abbiamo spiato la sua poesia dal privilegiato punto d’osservazione del suo Libro degli Amici. Elio Pecora è poeta molto prolifico. Esaminare la sua produzione è possibile solo per piccoli e corposi assaggi come è verso la POESIA tutta a lettere maiuscole. E così, tra cronaca locale e incrocio fra le arti di portata nazionale e forse internazionale, ho tra le mani e vi sottopongo un librino che è un vero scrigno segreto da aprire.
Si tratta di NELL’ARIA DEL MATTINO (frammenti da un prologo).
Vi do subito gli estremi essenziali del libro perché se riuscite a ottenerne copia non ve ne pentirete.
È una raccolta poetica ed è un libro d’arte. In effetti gli autori qui sono due: Elio Pecora per i versi e Giulia Napoleone per le immagini tirate in numero moltiplicato (sono in tutto 175) per le 35 versioni uniche del libro, NELL’ARIA DEL MATTINO, Edizioni d’Arte Il Bulino 2019.
L’incontro del libro, dell’editore e dei due autori col pubblico è avvenuto in realtà soltanto il 10.11.21 scorso perché questa opera coi suoi esemplari è tra quelle che sono rimaste ingoiate dalla pandemia. L’incontro è avvenuto presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, concepita come un tempio, come si evince colonne festini e gradinate, sanamente immerso nell’area di Villa Borghese e da qualche anno bonariamente accudito dai giganteschi leoni bronzei di Davide Rivalta.
Ah, la bellezza indubbia della donna velata,
le allucinanti promesse di un ragazzo ebbro,
i vaticini sconnessi della Cassandra suicida,
e i borboglii, i sussurri, gli ansimi, il requiescare
di colpe riammesse da una mente irriflessa!
Un subbuglio, un rombo, il vorticare di acque
fin dentro i muri e le porte. Lo squarciarsi
di supposte pretese, e l’inappellato finale
sospeso fra ragione indocile e sicuro vaticinio.
Mi prendo un angoletto per un paio di considerazioni sulla sostanza essenziale e generativa di questi versi. Mi limito a dire come qui in modo limpido e denso si stabilisca un legame stretto e dinamico tra un clima che respira le ampiezze e le figure del Mito e il valore cronistico di un diario reale; e che i borboglii e il requiescare, il subbuglio e il rombo segnano un movente di rispecchiamento distante dal modello di Narciso (la mente è irriflessa!). Tutta la sospensione finale è affidata a un chiasmo tra ragione indocile (nome + aggettivo) e sicuro vaticinio (aggettivo + nome), e questo permette al finale d’essere aperto e di ricostituire un inizio… Tutto questo non fa che sottoporci la sorprendente agilità versificatoria di un poeta nato nel 1936 che della danza delicata ha fatto da sempre il suo costume.
Pure del 1936 (forse non sta bene dirlo di una signora) è Giulia Napoleone, pittrice, autrice qui delle 175 tavole che illustrano i 35 esemplari unici del libro a tiratura limitata: la raccolta (17 poemetti di 9 versi più un prologo in due strofe per un totale di 18 componimenti poetici di Elio Pecora) si ripete uguale nei 35 esemplari però ognuno ha serie diverse di disegni per un totale appunto di 175.
Nel cercare di raccontare il proprio lavoro di “illustrazione”, Giulia Napoleone ha rivelato di aver deciso di ritirarsi nel suo atelier in campagna dove si è tuffata nella realizzazione quasi selvaggia di queste tavole, immergendosi nei colori e trovando, oltre alla loro densità materica e in rarefazione, anche dei segni, dei tracciati, che quasi sono emersi a indicare delle vie, dei percorsi, dei movimenti. È come se il lavoro sui colori (sono quadri monocromi) fosse così modellante da far risalire sulle tele (superfici in monocolore) le linee nascoste, cioè le tappe segnate corrispondentemente dalle parole.
“La vergogna di essere vivi!” si dice l’uomo in cammino
quando, ogni istante, ogni ora di ogni nuovo giorno,
all’orrore succede l’orrore e i morti annegati, i morti
uccisi nel chiuso delle loro stanze sventrate, i morti
elencati fra una e l’altra notizia del telegiornale, e
i fiumi deviati che straripano, le foreste che ardono,
e gli assassinii, gli stupri, e popoli interi di affamati,
di assetati, e avvelenate le terre e le acque, e reso
uno sterminato campo di rovi il domani dei figli.
Chi di noi non ricorda che c’è stato un tempo, dal ’45 in poi, in cui chi era uscito vivo dai lager si sentiva abusivo, e questo frammento riporta in primo piano il tormento di essere tutti noi solo colpevolmente fortunati a stare da una parte di mondo dove possiamo perlomeno riflettere sulla rovina cui stiamo condannando il pianeta, il nostro e di tutti gli altri. Questo frammento dimostra anche che la poesia non sceglie finzioni sognanti, falsificazioni sentimentali, simulazioni egoistiche, ma proprio grazie allo spazio costruito sui versi riesce a stare sulla realtà e sulla verità. Qui i versi che partono da una dichiarazione esclamata e scandalosa precipitano sempre più nella lista del disastro per finire in un grido in cui significativamente decade ogni strutturazione sintattica, per deflagrare.
È la poesia civile in cui il poeta che dice IO sta dicendo NOI – come abbiamo imparato da Whitman.
A mio parere proprio il costante pedinamento poetico del nostro mondo e delle sue aberrazioni, cui, pur nella nostra consapevolezza politica, non riusciamo a porre un argine, rimanendone noi stessi travolti, dialoga con le tavole che appunto propongono distese di colore sgranato dalla stratificata elaborazione in cui si fanno strada delle linee di senso: è in entrambi i casi la coesistenza di vita e coscienza, la lotta dicotomica di bellezza e pensiero, l’inquieta consistenza di gravità e volo.
Un uomo siede sull’estremo pontile,
guarda lontano un’acqua senza sponde,
nel cielo acceso di viola e di azzurri
lentamente si slarga una nuvola scura.
Solo un ragazzo folle in quella nuvola vede
gli dei esterrefatti di una mitologia scaduta
di cui va assistendo nel chiuso del cuore
le accese passioni, i dolci cari misfatti
che fanno colme le ore e decisi i percorsi.
È evidente: la poesia si dà staccando l’ombra da terra (parafrasiamo qui un noto titolo del carissimo Daniele Del Giudice) che non è un tradimento o un voltafaccia ma è necessità di distanza e calibro di misura. Bisogna appunto essere fanciulli folli per vedere nella nuvola che si fa strada nel sereno il posto da cui gli dei guardano la Terra con sguardi sgranati sapendo d’essere ormai pure archiviati, superati dai fatti, cittadini a buon diritto solo di cuori puri che con inaspettata saggezza tengono il segreto per sé. Avrete tutti, amici e amiche di versi, notato che ricorre ogni tanto tra le frecce all’arco del poeta la parola “misfatti”, segno che non c’è più innocenza, nemmeno in un cuor di poeta che pure mantiene la postura smagata dell’anima – almeno quella tenuta in salvo! Anche questo si legge nei quadri di Giulia Napoleone che con i versi di Elio Pecora dialogano: i segni si fanno strada nella purezza non più intonsa delle colature monocrome, sono le ferite che lacerano il mondo (e noi non possiamo arrestare il loro aprirsi), però, questo dopotutto sembra di cogliere nei talloncini chiari che descrivono le linee, si tratta anche di cicatrici, e di punti di sutura: forse non riusciamo a evitare che le lacerazioni si verifichino ma la nostra missione è ricucirle tutte, una per una.
Fu niente gli orrori, le distruzioni,
niente le fami, gli assedi, le pestilenze,
niente le attese deluse, i falsi accordi,
niente il pensiero bleso che s’assottiglia
oltre il quadrante di un’età lacerata?
Avanzano lungo i crinali, nell’aria appestata,
i sacerdoti obesi di un dio indifferente:
il loro ufficio è negarsi nella bugia
che assegna la resa, né l’intesa concede.
Il sé, il tu, l’io si chiamano senza cautela,
di istante in istante dentro un rado accorparsi:
l’uno spodesta l’altro nel rito incestuoso
di un’abusata apparenza, di una scelta distratta.
Sempre nel sogno della mente confusa
la ferma alleanza di un andare insieme
dove non più il desiderio, non più la pretesa,
rifrangono l’ora per quel che consente il restare
brevi ed uguali nelle stagioni dei vivi.
Mentre (non so voi ma io) vado in visibilio per la maestria nel maneggiamento sapiente di parole e partiture (tra chiasmi e anastrofi, per esempio), vorrei anche far notare che l’opera poetico-pittorica che stiamo considerando, mentre almanacca sciagure e riparazioni, scempi e ricuciture, come unico (e immane, perché su vasta scala e capillare insieme) compito possibile per i due infaticabili artisti, è stata concepita e realizzata entro il 2019, anno di uscita, eppure sembra parlarci di noi oggi, reduci e non ancora in salvo dalla pandemia. C’è un grado di “travolgimento” individuale e collettivo che pare includere anche questi ultimi due anni, nei quali invece quest’opera ha dovuto stare ferma due giri e mezzo lungo il tortuoso circuito editoriale e d’arte.
In più, per chiudere, tornerei sulla circostanza che gli autori, Elio Pecora poeta e Giulia Napoleone pittrice, sono entrambi della classe di ferro 1936, entrambi (come qualcuno faceva notare) radicati a Roma pur non romani, e questa loro opera a quattro mani è un prodigio che è stato bello battezzare tutti insieme sere fa al riparo da una bufera che non ha avuto ragione di noi.
Se volete, trovate il libro presso il bookshop della GNAM o dall’editore, www.ilbulinoeditore.it
Una stanza, e nella stanza una finestra,
e nella finestra la luce che va crescendo:
l’alba. I mobili e gli oggetti della stanza
prendono forma, colore. L’uomo
che esce dal sonno si muove
lentamente, si cerca i gesti, le parole.
Torna, nasce, rinasce.