Il Maestro impugnò la bacchetta, alzò la testa e guardò la classe.
La bacchetta era il terrore: di legno nero, lunga una cinquantina di centimetri, a sezione quadrata, aveva i profili degli angoli rinforzati da una lamina di ottone che, al momento giusto, infieriva sulla pelle delle tenere mani degli alunni.
Funzionava così: quando era il momento dell’interrogazione, il Maestro chiamava uno alla lavagna. Se questo rispondeva, bene, sennò erano due bacchettate sulle palme. E facevano un male cane. Il secondo che non sapeva rispondere ne beccava quattro, di bacchettate, poi sei al terzo e così via, in una progressione matematica cruenta che terminava solo quando il Maestro finalmente vedeva scorrere il sangue.
Allora si riavviava i capelli scomposti dalle bacchettate inferte scuotendo la testa, si asciugava il sudore che gli imperlava il volto con un fazzoletto bianco che teneva nella tasca di dietro dei pantaloni, si guardava intorno con un sorrisino ben poco amabile e sussurrava:
– Benebenebene… lo diceva così, tutto attaccato, con la bocca tesa sopra i denti.
Ecco, se arrivavi vivo a quel punto, per quel giorno eri salvo, il tributo era stato pagato. Non restavano che i lamenti sommessi dei puniti che cercavano di trattenere le lacrime per evitare le due ulteriori bacchettate punitive previste in quel caso.
Oggi la faccenda era seria. Sulla lavagna strisciavano fredde e sfuggenti una sequenza di espressioni con gli insiemi e con le frazioni che nessuno, a quanto sembrava dal silenzio che era calato sulla quinta b, pareva comprendere.
Prima aveva chiamato Luigi, poi Giacomo e Salvo ma avevano tutti fallito e ora, allineati lungo la lavagna, frignavano flebilmente con le braccia incrociate e le mani infilate sotto le ascelle. Il Maestro li scrutava, indugiando sui loro lamenti, sperando in qualche lacrimone per poter infierire ancora.
Niente. I tre resistevano. Allora abbassò lo sguardo, sbirciò la classe al di sopra degli occhiali, si accarezzò la barba e sogghignò.
– Allora? Nessun altro lo sa?
Marco incassò le spalle fissando intensamente la nuca di quello del primo banco che, come tutti gli altri, si era paralizzato nella speranza di diventare invisibile.
– Vediamo, vediamo se c’è qualcuno che sa come risolvere questi problemini…
Prese a camminare tra i banchi battendo la bacchetta con la mano destra sulla sinistra, cercando di intercettare con lo sguardo qualche pecorella che, temeraria, volesse diventare lupo e sfidarlo.
Come Marco aveva temuto fin dal primo momento, il Maestro si fermò proprio all’altezza del suo banco. Poggiò una grande mano pelosa accanto alla sua e la chiuse a pugno, raschiando con le unghie gialle la fòrmica del banco.
– Lei. Venga lei, signorino. È un po’ che non la interrogo.
Marco senti lo stomaco svuotarsi di colpo, ma non osava guardarlo. Ce l’aveva con lui o no? Forse no, forse se non…
– Allora? Le serve un incoraggiamento?
Il Maestro sbatté violentemente la bacchetta sul banco di Marco. Il rumore fece sobbalzare tutti.
Marco si alzò e strascinando appena i piedi si accostò alla lavagna. Il Maestro si risedette pesantemente alla cattedra, poggiando la bacchetta alla sua destra.
– Allora, signorino?
Marco prese il gesso e guardò la lavagna. L’insieme dei numeri lo sovrastava e lui li fissò come si guarda un nemico minaccioso e sconosciuto. Cercò aiuto con gli occhi in uno dei tre già castigati ma figuriamoci. Poi cominciò a farsi i conti, dunque: Luigi due, Giacomo quattro e Salvo sei… oh porca zozza, me ne toccano otto, e otto so’ tante.
– Dunque… se noi…
Provò a cincischiare, cercando di rinviare l’ineluttabile. Che ora era? Tra quanto suonava la campanella? Guardò le foto appese sopra la lavagna e si sorprese a pregare, in uno, sia Papa Paolo VI che il Presidente Saragat, hai visto mai.
– Dunque? Se non lo sa non mi faccia perdere tempo, tuonò il Maestro impugnando di nuovo la bacchetta
Marco sentì risucchiare tutta l’aria intorno a lui mentre uno sciame di api sembrò ronzargli nelle orecchie.
– Bene, mi pare che lei non lo sappia affatto, disse il Maestro alzandosi e risucchiando la saliva tra i denti con un sibilo ferino, mi porga le mani.
Marco allungò le braccine davanti a sé, a palma in alto. La prima bacchettata arrivò improvvisa, mordendogli la mano sinistra. Il Maestro lo scrutò, ma Marco cacciò solo un lamento quasi inudibile senza cedere all’impulso di piangere.
Allora il Maestro socchiuse gli occhi e sferrò il secondo colpo sull’altra mano, molto più veloce, molto più violento, molto più feroce. Marco strizzò gli occhi e si morse a sangue il labbro inferiore, ma non bastò. Una lacrima scese lenta lenta, incitando il ghigno del Maestro.
Un bussare violento interruppe improvvisamente tutto.
– Avanti, ringhiò il Maestro
Si affacciò il bidello e rivolgendosi alla cattedra fece
– Maestro, la desidera il Preside.
Lui uscì sbuffando, senza una parola, fendendo l’aria con la bacchetta, lasciando al bidello la sorveglianza della classe.
Passarono pochi minuti e il Maestro tornò. Era come se una nuvola carica di pioggia gli avesse oscurato il volto, mentre la bacchetta pendeva come morta nella sua mano.
Porca miseria, è stato fuori troppo poco tempo, che cazzo di sfortuna che ho, pensò Marco, misurando a mente quanto tempo restava prima della fine e quante ne avrebbe prese ancora prima di uscirne.
La madre gli aveva proibito di dire parolacce, ma vista la situazione e il fatto che stesse parlando tra sé e sé paralizzato dalla paura, si sentì autorizzato a trasgredire.
– Torna a posto Marco.
– Maestro, cioè, se mi dava ancora due minuti io sapevo come risolvere… tentò di bluffare, sperando di minimizzare i danni.
– Non ti preoccupare. Tornate a posto, tutti quanti.
Il Maestro mise la bacchetta nel cassetto, si sedette, prese la testa tra le mani e rimase così, immobile, per tutta la mezzora scarsa che rimaneva fino all’uscita.
Nessuno fece più domande e la classe si dissolse fuori dalla scuola elementare disperdendosi in mille chiacchiericci.
Il giorno dopo il Maestro non era a scuola. Sin dal mattino erano iniziate a girare le voci più disparate sul perché il Maestro era mancato. Chi diceva che era malato, chi che fosse stato messo in prigione per la sua crudeltà, chi addirittura che fosse morto, causando, in questo caso, un discreto entusiasmo tra i ragazzini.
Appena prima dell’uscita, però, il Preside entrò in classe, imponendo con le mani un silenzio assoluto.
– Ieri, purtroppo, per un incidente di macchina, sono venuti a mancare la moglie e la figlia del signor Maestro, disse, scuro in volto. Fece una pausa. Domani andremo tutti al loro funerale. Mi raccomando a voi. Pretendo il massimo rispetto.
E uscì, senza una parola, lasciandoli soli per pochi minuti prima del suono della campanella. Marco guardò i suoi compagni: l’occasione era troppo ghiotta per farsela sfuggire. Corse alla cattedra, aprì il cassetto e tiro fuori con estrema delicatezza la bacchetta. Sorrise e alzò la bacchetta sopra la testa, prima di nasconderla nella cartella.
Il giorno dopo si incontrarono tutti davanti scuola, e con un certo ordine, con in testa il Preside, seguito dal Maestro e da tutti gli altri maestri, raggiunsero il corteo funebre in piazza diretti verso la chiesa scelta per la funzione.
Furono tutti accolti dalla fresca penombra della chiesa in un silenzio che spense il vociare dei ragazzi. Le due bare erano al centro della navata, coperte di fiori.
Il Maestro, sembrava la metà dell’orco che li terrorizzava. Nero il vestito, neri gli occhiali, nere le scarpe, pareva un omino qualsiasi, così com’era ripiegato su sé stesso, vinto, schiacciato dal dolore.
Percorsero lentamente la navata fino a giungere all’altezza dei feretri. Il Maestro guardò le bare chiuse, e si bloccò, all’improvviso, immobile, sbarrando gli occhi. Sulla bara più piccola la bacchetta nera, spezzata, un pezzo più piccolo a incrociarne uno più lungo, ad imitare la croce cristiana.
Il Maestro si voltò lentamente verso i suoi ragazzi, una domanda muta negli occhi: chi è stato? Marco lo guardò, silenzioso con occhi di lupo e insieme a lui Luigi e Giacomo e Salvo e tutti gli altri. Si ravviarono tutti insieme i capelli e finsero di asciugarsi il sudore con gesti imitati alla perfezione.
Il Maestro chinò il capo e i ragazzi, senza una parola, si voltarono e uscirono nel sole.