Stavolta ci troviamo di fronte a un debutto in versi passato prima attraverso la scoperta di un pugno di componimenti inediti che hanno valso all’autrice, Fosca Mariani Zini, il Premio Antica Pyrgos, consistito nella pubblicazione in volume, e poi il conferimento, l’anno dopo, a fine giugno scorso, al Castello di Prata Sannita, al volume ormai edito, del Premio L’Iguana – Anna Maria Ortese, come già gli altri anni organizzato dall’Istituto Filosofico di Napoli e presieduto da Ester Basile, filosofa.
Il volumetto è TRISTIA / STATI DI USUALE SCONFORTO, ed è un piccolo scrigno con tesoretto.
È un’opera scarna e densa insieme. per capirlo basta fare qualche osservazione su dettagli di fatto. Per esempio, consideriamo l’indice – sorta di cardiogramma, di grafico dell’andamento poetico: troviamo un proemio – ALL’ORIGINE – di soli due componimenti, cui segue l’articolazione del libro: cinque sezioni, PRENDERE CONGEDO / LACRIMOSA / COMPASSIONE / NÉ ORA NÉ QUI / SCORAMENTO, che si articolano all’interno in un certo numero di componimenti, da un minimo di quattro a un massimo di otto.
Intanto un assaggio di versi da TRISTIA:
La brocca rotta dei filosofi
Opalescente
Trattiene
Avida
Cristallina
Scorre
Generosa
Ansa che non s’impugna
Inespugnabile filosofia
In vero,
Pezzi di vetro
Che lacerano le dita
Una a una
Sangue
Secco
Estraneo
Alle vene
Finché morte non mi divida.
Qui intanto viene subito da osservare l’ossificazione della parola, la reductio ad parvum prevalente nel dettato – il distico centrale invece articola un gioco tra la non impugnabilità della brocca (sono i filosofi che perdono o hanno perso la brocca?) e la corrispondente inespugnabilità della filosofia, e in questo modo fa il paio con il clamoroso paradosso finale, in cui la morte sola può dividere chi è filosofo dalla filosofia: gioco di parole, anche questo, in cui echeggia una frase talmente ricorrente e ripetuta da essere idiomatica.
Questo andamento, spesso strutturato in modo così essenziale nel corso del libro, apre ad alcune altre osservazioni, apparentemente di superficie, ma segnaletiche, come altrettanti indizi di una percezione che manda lampi, luci di segnalazione appunto in una sorta di navigazione al buio.
Dicevamo dei segni, apparentemente solo di superficie, in realtà porte d’ingresso verso il senso:
– versi in genere brevi/brevissimi
– scanditi dalla lettera iniziale maiuscola
– punteggiatura ridotta all’ osso
– sintassi decostruita salvo rari casi.
Da un lato, una scansione enfatica delle singole parole à la manière de Emily Dickinson però con rinuncia agli hyphens o trattini lunghi (americani).
Dall’altra, lo smontaggio logico tutto orientato a un reportage puntiglioso del sentire. Come se la speculazione razionale si lasciasse modellare dalla educazione dell’irrazionale e si prestasse per programma a farsene facilitatrice. E allora assume un senso più profondo quel verso finale,
<<Finché morte non mi divida>>
che proviene da una separazione del sangue dalle vene nel ragionamento interno al componimento da cui quei versi provengono, ma dopotutto indica per contrasto che l’unità dell’individuo è tutta nel perfetto intreccio di pensiero e sentire, nella loro convivenza, nella cittadinanza che va riconosciuta al sentire come al pensiero.
Rughe
Mille di me
Erano tanti anni di te.
Sfogliare i tuoi capelli
Bianchi e neri
Come le pagine del libro
Di tutte le mie setose sere.
Le nocche delle tue dita
Sagge come i nodi degli alberi.
Nei solchi delle rughe
Raccolgo le ombre del sole
Nella coppa delle mani
La giovinezza del mio perenne amore.
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Menopausa
Ventre, mio
Disertato dalla vita,
Seme, tuo,
Fra le mie gambe
Linfa traslucida e lenta
Per toccarci l’anima
Senza farci male.
Non ho dimenticato
Quando ero albero,
Non pietra.
Questo è anche un libro molto femminile, e significativamente angelico: sia nel senso della donna angelicata di medievale retaggio nella nostra poesia (Fosca Mariani Zini si occupa di MedioEvo, ma lo fa da filosofa appunto e storica del pensiero, non da letterata o da critica letteraria o studiosa di letteratura), sia nel senso della presenza degli angeli. Anzi nel senso che proveniamo dagli angeli: gli angeli sono i nostri antecedenti, i nostri predecessori, i precursori del nostro usuale sconforto del vivere, gli annunciatori della novella che nasce già orientata verso la passione e ci chiede di riuscire a passare per una cruna stretta infilando a fatica la testa, facendo passare una per volta ogni spalla, stirando il busto poi il bacino largo, e sgusciando via col battito agile delle gambe.
A ciascuno il suo congedo
Rien ne va plus
Rien ne va
Morte facile
Per eroico odio della vita
Meglio scivolare nel buio
Esaurite le fatiche inutili
Liberarsi del cavaliere
E del cavallo.
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Non ci rivedremo
I vapori del treno
Avvolgono le caviglie
Di brina gelida
Gli abbracci
Racconti in bianco e nero
Tornerò dal fronte
Bugie di Pulcinella
Ora
Tocca a noi
Bere con le mani a conchiglia
L’acqua che scivola in mezzo alle dita
Qui
Sul finestrino dell’aereo
Si sono appannate le parole
In spirale di spuma
Volute di nebbia
Dove le cose si diradano
In tutta semplicità
Dirle, sinceramente
Prima delle cose ultime.
Vorrei poi sottolineare alcuni altri dettagli che mi paiono significativi nella versificazione come nel dettato vero e proprio dei versi. Si diceva che spesso i versi coincidono con singole parole e contano su una misura breve anzi brevissima. Questa asciuttezza non si smentisce neppure quando i versi si allungano e in qualche caso sconfessano la tendenza prevalente indicata più sopra: lo smontaggio logico-sintattico. Si tratta cioè di una sostanziale densità che nel dettato si evidenzia come tendenza all’essenzialità di lemmi e struttura. È come se, nel vuoto in cui tutte queste suggestioni capitano come scie di comete, e nel buio in cui tutto è immerso salvo quando appare la luce di queste fugaci corse astrali che sono la materia di questo poetare, e non sono solo allusi ma evocati e indicati, a noi spettatori oltre che ascoltatori di questa poesia fosse dato modo di assistere al compiersi del reale manifestarsi di quella fenomenologia varia e trasformazionale che è l’esistere. Per questa ragione è di capitale importanza fare il censimento qui di tutte le entità marginali, come gli spazi intermedi, e delle preposizioni “tra” e “fra” che fanno emergere le rivelazioni interstiziali come fossero entità secondarie mentre la loro rilevanza è strutturale e nodale, come il connettivo nel corpo umano.
È come se tutto ciò che si mostra in questa poesia fosse la sintomatologia esistenziale, la cui causa e genesi si palesano casualmente e solo a volte, e questa poesia tentasse di afferrare quei segnali e di mostrarceli per farci cogliere una non irrisoria rivelazione: conta ciò che non si vede ma avvertiamo più di ciò che vediamo e spesso invade i nostri sensi e la nostra conoscenza confondendoci e distanziandoci dalla lettura corretta se non dalla lettura affatto, per sottrazione alla nostra attenzione degli oggetti che conterebbe leggere.
Tutto questo conferisce ai quadri che questa poesia ci mette sotto il naso un carattere dinamico, lampante, anche nel senso che si tratta proprio (come si diceva) di lampi, oggetti luminosi di rara bellezza e dalla corporeità trasparente, opalescente, fragile e delicata come certi esili oggetti in vetro di Murano.
È materia angelica poiché molto umana.
Chi sono gli angeli? Siamo tutti noi.
Soprattutto i più fragili, i più “demuniti”, cioè sguarniti, privi di punti di forza, i meno riparati.
E Fosca Mariani Zini mette coraggiosamente sé stessa nel numero, senza reticenze.
Annunciazione
Dunque
Sei qui
Stavo leggendo
Come vedi
Mi fido delle rose
Sanno cosa sono i roveri
Si sono sfiorite
Petalo dopo petalo
Al tuo fruscio
Si è prosciugato
Il mio ventre
Ghiacciato il mio giardino
Nello specchio della finestra
Al frollìo delle tue ali
Hai scambiato la mia collana di mirto
Con una corona di spine
Ho abbassato lo sguardo,
Soffiato una voluta d’aria
Hai sorriso beato
Alla mia, per te, atavica docilità
Ho sollevato il mio palmo di mano
Contro la tua promessa
Infinita speranza per tutti
Non per me
Che avrei dannato tutti
Senza salvare me stessa
Per mio figlio
Angele, ii in malam crucem
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Pietà
Non lo nego.
Ho ritratto la mano
Schifato,
Proprio come quell’altro angelo
Dietro di te.
Perdonami.
Puzzavi di morte
E d’urina
Incollata al tuo corpo.
Sudici i capelli.
Era vero, allora.
Hai avuto paura
Non ti abbiamo difeso
Sei rimasto accasciato
Non ti abbiamo abbracciato.
Ora,
Non riesco a sostenerti
La testa sotto la tua ascella, puntello i piedi
Ti accarezzo la carne violentata
Mi dispero di non averti creduto.
Lui,
Ci ha rinunciato.
Sussurra, strofinando
Con la guancia la tua mano.
Sei stato coraggioso. Lascia che sia.
Ti proteggerò come un angelo morto.
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In attesa
Scivolare dalla vista
Sciogliersi da un porto
Nemmeno una sagoma
Si dilegua nel vapore
Polvere filtrata
Dalla sabbia del mare.
Sull’acqua
Isola in rocciosa attesa
Le vele sussurrano al vento:
Quando partiremo per la felicità?
Vorrei tornare a casa, se ne avessi una.
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Bataclan
Vedrò la morte e avrà i tuoi occhi
Non sapevo fossero così curvati dall’odio
Grumoso il sangue nelle mie mani
Fluido nelle pozze per terra
Mi accascio piano, piano
Trattenendo i secondi
Ultimi
Prima di andarmene
Senza averti detto
Quando ti amo
Ti amai
In un soffio
Dentro gli spari.
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Lettura di giornale
Come il caffè
Dopo le tre,
Il giornale non più.
Nodi nei capelli
Difficili da districare.
Impossibile strapparseli.
Quotidiane catastrofi
Avide di dolore
Annebbiano lo sguardo.
Affiora il buio
Il desiderio di ore
Di egoista riposo.
La notte
Lascia demuniti
Nel male.