Mi sono capitati tra le mani, in pochissimo tempo, due libri dallo stesso titolo, La guerra di Nina. Già il fatto sarebbe in sé curioso, ma la cosa per me davvero singolare è che sono usciti quasi nello stesso periodo e sono stati scritti da due autrici che conosco e stimo perché hanno lavorato – separatamente – in uno dei laboratori di scrittura che ho tenuto negli anni. Forse non sanno neanche loro di aver scelto lo stesso titolo, o forse sì, non ne abbiamo parlato. Con una delle autrici, Imma Vitelli, abbiamo scambiato qualche domanda e qualche risposta qualche settimana fa, con l’altra, Carla Chiaramoni, lo facciamo questa domenica. Sono due libri molto diversi tra loro, uno è un romanzo su una reporter nella guerra in Siria, l’altro, La guerra di Nina vista da Carla Chiaramoni, è una graphic novel, disegnata con grande efficacia e sensibilità lirica da Michela Quadrini (Zefiro 2021). La storia di una bambina, Nina appunto, che vive in un piccolo paese che potrebbe sembrare uno qualunque dei villaggi o delle cittadine in Europa. La sua tranquillità viene scossa dalla guerra e Nina deve fuggire accompagnata da tre piccole uova di un uccello che ha scelto i suoi lunghi capelli per nidificare. Una favola e un modo per riflettere sulle tragedie che ci circondano e che non sembrano poter placarsi mai. L’autrice, Carla Chiaramoni, è una giornalista che lavora da molti anni sulle tematiche sociali, è stata direttore dell’agenzia Redattore Sociale, è ha pubblicato Il riso nelle Marche, La collina degli elefanti, La contessa Sofia Ciccia dei Culi e La zuppa di Martino, volumi dedicati ai più piccini.
Una storia che comincia tra gli orrori della guerra e finisce con una rinascita, a chi si rivolge, agli adulti o ai ragazzi?
È pensata per i ragazzi, ma spero sia godibile anche per gli adulti. Il tema della guerra purtroppo riguarda tutti, e non è facile trovare la forma giusta per raccontarla. Spero di esserci riuscita…
Secondo te la favola – o comunque il racconto fantastico – è un modo adeguato per narrare qualunque cosa, anche la più terribile?
Nelle favole il protagonista si trova sempre a vivere una situazione complessa, un ostacolo più o meno grande, che supera pagando un prezzo: l’“insegnamento” non sta nel temere l’imprevisto, ma nell’imparare a valutarlo e superarlo. È questo il compito delle favole, che vengono da lontano e sono, prima ancora che scrittura, parole attinte dalla cultura popolare e fotografia di un modello sociale, che materializza paure, rischi, opportunità e indica soluzioni. Ci sono il bello e il brutto, il buono e il cattivo, il furbo, il potente, l’umile. Uomini e animali. Le prove sono a volte durissime, pensiamo ad Hansel e Gretel abbandonati nel bosco…
L’incontro con l’illustratrice Michela Quadrini è stato casuale oppure qualcosa vi ha spinto a lavorare insieme?
Le illustrazioni sono state sicuramente la parte più delicata e di più lunga gestazione del lavoro di progettazione del libro. Trovare il “segno” giusto non è mai facile, ma in questo caso ancor di più. L’incontro è stato casuale. Ci siamo trovate subito in sintonia, stesso sguardo. Il testo poi, in questa storia, non è preminente. Lascia ampio spazio all’immaginazione di chi disegna.
Come avete proceduto concretamente, prima il testo e poi le illustrazioni?
Il testo era già pronto da tempo quando abbiamo incontrato Michela e lei ha lavorato in totale libertà. Abbiamo avuto un confronto per le tavole che rimandavano alla guerra: il vetro rotto, l’artiglio che ghermisce, il fumo, l’uccellino senza vita… È sempre bello vedere nascere dalle proprie parole immagini, ancor più bello quando l’illustrazione racconta altro, si arricchisce di dettagli, aggiunge punti di vista. Come è successo, ad esempio, nella tavola finale, in cui Michela ha trovato un’ottima soluzione per Nina, alle prese con l’insegnamento del volo ai piccoli.
La guerra che viene raccontata nella storia è una guerra immaginaria, esclusivamente simbolica, oppure tu hai pensato a uno specifico conflitto dei giorni nostri o del passato?
Volutamente senza contesto, storico e geografico. Tendiamo a pensare che sia tutto lontano da noi, ma non è così. La guerra che in un lampo stravolge la vita di Nina rappresenta uno dei tanti conflitti in corso. Come giornalista incontro spesso storie e numeri, che sono volti e diritti negati. Chi può dirsi immune? Poi c’è la battaglia personale, quella in difesa della vita. E dunque il conflitto resta sullo sfondo per raccontare invece la “guerra” di Nina. Che è fatta di attenzione e cura.
Nella storia si vede la mano della mamma di Nina, poi qualche sagoma lontana, ma gli adulti non vengono mai visti da vicino, perché?
Nelle guerre i bambini sono spesso soli. Orfani, in molti casi, ma ancor prima isolati emotivamente. Privati di tutti i loro diritti: salute, scuola, gioco, buon cibo… Nel caso di Nina la presenza degli adulti è salvifica, la madre la orienta nel fumo, la protegge e la salva, ma poi la sua è una sfida da affrontare mettendo in campo tutte le proprie risorse.
Per Nina proteggere le uova con i tre uccellini tra i suoi capelli è un atto istintivo d’amore per la vita?
Volevo che emergessero due sentimenti. Il primo è che i bambini hanno grande forza interiore e una capacità di reagire istintiva verso la vita, anche se i traumi vissuti lasciano cicatrici perenni e ne determinano lo sviluppo. E in questo senso sì, è un atto d’amore. Il secondo però è il valore del “prendersi cura”. Dell’altro, della terra, degli oggetti… Quello che più mi preoccupa di questo nostro tempo è la perdita del senso di comunità, la perdita di un orizzonte comune, che si costruisce accogliendo, rispettando, sostenendo. Non dividendo.
Mi sembra che un gran ruolo in questa storia ce l’abbiano i capelli, legati, sciolti, in trecce… è solo perché vengono bene disegnati oppure hanno un valore particolare nella tua fantasia?
Credo che Michela si sia molto divertita nel trasformare i riccioli ribelli di Nina in un nido accogliente! I loro valore simbolico è evidente, non solo nella nostra cultura: i capelli tagliati un tempo alle novizie, quelli del mito di Sansone, fonte di forza vitale… Ma per me sono soprattutto memoria. Mia nonna ha sempre legato i capelli in un piccolo chignon sulla nuca, la sera prima di dormire li scioglieva e mi chiamava. Si sedeva sul letto e io li spazzolavo bene bene. Poi mi baciava, mi augurava la buona notte. Restavano sparpagliati sul cuscino, sottili.
Da quando ti conosco lavori nel sociale e nell’informazione sul sociale, secondo te scrivere una favola significa portare avanti questo impegno o è una pura fuga nella fantasia?
Credo di non poter scindere questa sensibilità dalla forma narrativa, qualsiasi sia quella che sto utilizzando. Nella mia idea di scrittura la favola o la scrittura fantastica sono, però, uno spazio protetto, in cui tutto può accadere e risolversi, in cui cadiamo e ci rialziamo. Un mondo in cui è possibile creare con l’immaginazione, sia leggendo che scrivendo. Oltre il “reale”.
Adesso avresti voglia di pubblicare un romanzo o una raccolta di racconti di narrativa oppure pensi che la tua ”cifra” di autrice sia proprio quella di queste fiabe illustrate?
Ora sto lavorando a una raccolta di racconti, ma chissà!