L’ESTATE DI JOY WILLIAMS

Un'autrice apprezzata da Raymond Carver, Don De Lillo, James Salter, Bret Easton Ellis, Ann Beattie

Per anni ho accumulato copie del “New Yorker”, si sono ammucchiate in due pile, una a lato del comodino, l’altra in bagno. Sono stato abbonato per cinque anni, poi mi dev’essere sfuggito un avviso di rinnovo o forse la mia carta di credito non aveva fondi a sufficienza, fatto sta che la rivista ha smesso di arrivarmi. Stavo per provvedere e poi lo sguardo è stato intercettato dalle pile traballanti.

Beh, forse è il caso di finire di leggere prima queste mi sono detto tanto la maggior parte degli articoli o dei racconti vanno bene anche a distanza.

Così qualche mese fa ho pescato un numero di giugno del 2016, dove si parlava del nuovo libro di Joy Williams, Ninety-nine Stories of God e ne pubblicavano degli assaggi. Una in particolare, completa, Essential Enough (la traduzione è mia e di Google Translator):


Il Signore stava provando delle battute. IO SONO QUEL CHE SONO, Egli disse.

Ma non suonava bene.

QUESTO È QUEL CH’IO SONO. IO SONO

Sembrava ridicolo.

Egli non era propenso alle definizioni.

Egli aveva sempre avuto le difficoltà più spaventose con loro.


In questa che sembra una barzelletta, emergono, come iceberg azzurri e rosa galleggianti nel Lago Argentino, alcune delle questioni più profonde della teologia contemporanea: la crisi del rapporto con Dio, la sua ineffabilità che diventa ostacolo al dialogo, la parola giusta del Signore, la parola incomprensibile del Signore, Dio che scompare nella sua afonia, nella sua incapacità, lasciandoci orfani e soli.

Cazzo, ma questa è completamente fuori!

Folgorato, sono andato avanti a leggere, a cercare in rete, a cercare libri di Joy Williams tradotti in italiano. Ne ho trovati solo tre, I vivi e i morti edito da Nutrimenti più di dieci anni fa, L’altro bambino (suo romanzo degli esordi) e la raccolta “monstre” di racconti scelti L’ospite inatteso, entrambi meritoriamente pubblicati da Black Coffee.

Non che la scrittrice del Massachusetts abbia prodotto tantissimo in vita sua, ma è stata finalista al Pulitzer, al National Book Award e ha vinto il premio PEN/Malamud alla carriera. Ed è una che ha un fan club di tutto rispetto, una loggia massonica, dice il “New Yorker”, che annovera affiliati come Raymond Carver, Don De Lillo, James Salter, Bret Easton Ellis, Ann Beattie.

Eppure, dopo quarant’anni di carriera, a quasi ottant’anni, Joy Williams rimane sempre laterale, quasi misconosciuta, a girare per l’America, come la McDormand di Nomadland, sulla sua vecchia Ford scassata, con i suoi due cani, dall’Arizona, alla Florida, al New England, fermandosi a scrivere dove le capita, siano motel o college dove la invitano a insegnare. Con la sua bella faccia scavatissima, smagliante sotto occhiali da sole onnipresenti.

Compro la raccolta di racconti L’ospite inatteso, viaggio tra gli incipit, saltabecco tra blocchi di frasi brevi, scolpite, quasi fossero cavate dal ghiaccio con il punteruolo di Basic Instinct.

Da Il matrimonio:

“Sam ed Elizabeth si erano conosciuti come si conoscono tutti: all’improvviso, una luce ingannevole appare nell’oscurità. Una luce che crudelmente rende l’uomo consapevole del buio. Si erano conosciuti al matrimonio della figlia di un amico in comune. Cibo delizioso era stato servito e molti brindisi eccentrici erano stati proposti. A Sam piaceva l’aura di Elizabeth e a lei la sua. Avevano ballato. Sam aveva bevuto parecchio. A un certo punto aveva creduto di vedere un coniglio rosso in mezzo al centrotavola floreale. Certo, era la settimana di Pasqua, ma comunque si era preoccupato. Avevano ballato ancora. Ballando, Sam aveva portato Elizabeth lontano dalla festa, nel parcheggio. L’auto di Sam era anonima e pulita, solo una busta del supermercato piena di cibo ormai andato a male aveva rovinato l’effetto.”

Ça va sans dire, Williams non ci dirà mai cos’era il coniglio rosso o perché Sam avesse spesa andata a male in macchina. E già la tragedia è in nuce nell’esordio, che parafrasa ironicamente Anna Karenina. Si conoscono come tutti, come si somigliano tutte le famiglie felici, ma la luce che ci fa pensare di aver trovato l’anima gemella è ingannevole e sa di marcio.

E ancora, l’incipit del L’ospite d’onore:

“Era un periodo che non stava bene e talvolta l’aveva sfiorata il pensiero del suicidio, ma il suicidio alle superiori era una cosa scontata, bisognava andarci cauti perché già alcune sue compagne di classe l’avevano fatto l’anno precedente lasciandosi dietro una cosa come ventiquattro biglietti in due, e a quel punto era diventata una barzelletta. Erano disseminati ovunque, pieni di errori e recriminazioni. Una messinscena.”

Dramma, depressione, ironia e ridicolo, tutto in poche righe. Esplosive.

La figlia del pastore Williams affonda una lama rovente nel burro da spalmare sui pancakes, amore, pietà e disprezzo. È lei il Dio ineffabile e dubbioso, che odia le definizioni e che appare, nella sua crudeltà giudicante, nei particolari. Altro che il diavolo.

E per finire (per modo di dire, che il libro non l’ho ancora finito, lo sto centellinando), il meraviglioso Estate. La trama, come tutte le trame dei racconti della Williams, si riassume in poche, insignificanti righe: Constance e Ben, coppia in crisi con due figlie da matrimoni precedenti, affittano una casa vacanze con lo scrittore Steven, che invita cinque donne diverse per ciascuno dei week-end di quell’agosto.

“Agosto era un mese per lo più caldo e splendente, ma chi si fermava per tutta la stagione sosteneva che non fosse bello quanto luglio. I giardini erano sferzati dal vento I pedoni aggredivano i ciclisti che invadevano il marciapiede. C’erano più lacrime nei bar e meduse nel mare”.

Apocalisse prossima? Aggiungiamo che Steven non apparirà mai per tutto il racconto, che conosceremo qualcosa delle cinque donne solo dai loro rapporti con le bambine e da dialoghi laterali e compressi come:

“Trovi che Yvette sia bella?” chiese Constance a Ben.

(…)

“No, non è bella” disse Ben.

“Mi ha detto che Steven le ha detto che il significato delle sue parole è telepatico e cumulativo”.

“Andiamo in città a comprare le gomme” disse Ben.

Quanto darei per saper scrivere un dialogo così.

Quanto darei per sapere scrivere una storia dove apparentemente non succede nulla, ma che cela una tensione magmatica, eruttiva che non viene mai alla luce.

È tutto sotto. Nascosto.

Uno specchio bellissimo e lucido, che si ricopre di vapore da doccia: un refolo d’aria gelida fa apparire qualche particolare sparso, ma il resto del bagno, del nostro viso umido, restano nascosti. E i lacerti di immagini che si manifestano sono oscuri, enigmatici, ci soffocano la gola.

Dio è ancora lì che si interroga su come manifestarsi, e io apro una nuova copia del “New Yorker” seduto sulla tazza.

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Arturo Belluardo

Nato e cresciuto a Siracusa, vive a Roma. Ha pubblicato tre romanzi: "Minchia di mare" (Elliot, 2017), con cui è stato finalista ai premi "POP" e "John Fante", "Calafiore" (Nutrimenti, 2019) e "Ballata per la sirena" (Perrone, 2022). Suoi racconti sono apparsi su "Lo straniero", "L'Inquieto", "Buduàr" e su "Trema". Collabora con la rivista "Succedeoggi" da un sacco di tempo e non ha intenzione di smettere. Con Roberto Cavallini, ha curato due edizioni di "Parole e ombre", incontro tra immagine e parola presso la TAG di Roma e, sempre con Cavallini, porta in giro per Roma i ciclisti nelle Pedalate Letterarie della FIAB. Della scrittura dice che: "è l’atto creativo per eccellenza, quello che fa somigliare l’uomo a Dio, con la scrittura si arriva in ipogei di cui non conoscevamo l’esistenza, nella natura stessa dell’essere umano".

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