Elio Tavilla, La gravità terrestre

Si impara, leggendolo, a disfarsi del senso comune e anche dell’ormai liso e consunto buonsenso

ERA QUELLO CHE MI DICEVA IL LAGO

cioè di non piangere, piuttosto

di ascoltare il pigolìo dei merli

appena nati, trovati morti dopo un giorno

di neve fiacca e gelo. Viene così

a nudo la cosa che sapevi

tossisci, non sai che dire.

***

cioè di non urlare e entrare

dentro, di premere la mano

con forza contro il muro e – vedi?

non c’è niente di male a farsi forza

con le canzonette

ce n’è una che faceva

ta ta ta

***

l’aureola mancante della santità

a volo d’aria si raccoglie e vede

coriandoli gettare il panico tra i fiori

un inganno in piena regola

una vera crudeltà


[da La gravità terrestre, Elio Tavilla (Musicaos 2020)]


Giorni fa mi è capitato di ascoltare Andrea Bajani, autore di Il libro delle Case (romanzo Feltrinelli in gara per il Premio Strega di quest’anno, ma autore anche di ben due libri di poesia, pubblicati con Einaudi nella Collana Bianca, scritti nell’intervallo tra il precedente romanzo e questo). Mi ha fatto piacere sentirgli dire qualcosa che anche noi qui condividiamo da tempo: l’idea che a sorreggere la poesia sia proprio lo spazio bianco, a tenerla, anzi a metterla in piedi, sia il silenzio circostante da cui come per miracolo emerge in un pugno di versi, che magari qualche volta possono pure essere versacci (per tralasciare i ragli), ma, andando all’essenziale (ciò che conta nel processo elaborativo che porta ad aggregare dei versi), il gesto del poeta è simile alla tenacia dello scultore. Come questi stana ed enuclea la figura intrappolata nella materia, così il poeta inalbera dal silenzio bianco che la circonda una scrittura evocativa strappata al mutismo attonito che sempre ci accompagna. E proprio Andrea Bajani, in Dimora Naturale, conferma anche un’altra ipotesi che culliamo come assunto che nulla possa sconfessare, e cioè che la poesia è lo spazio del pensiero profondo, un humus spirituale che poi può riversarsi nei romanzi, può accendere situazioni narrative e sfondare spazi di luogo e di tempo, restandosene al di qua: sta di fatto che essa, di tutta la materia narrativa che torrenzialmente da essa poi si dipana, è il termine a quo.

Bene! Direte, allora questa puntata è dedicata alla poesia di Andrea Bajani. Neanche per idea.

Di lui non mancherò di occuparmi come già pregusto da tempo, ma oggi è la volta di Elio Tavilla. Poeta messinese di stanza a Modena dove è docente di Storia del Diritto. Questo dettaglio indica la prossimità della sua opera poetica con l’area modenese/bolognese in cui si muovono come lui Alberto Bertoni e Paolo Valesio (autore, non a caso, di Ascoltare il silenzio), Rosita Copioli ed Emilio Rentocchini – cui direi di associare Giampiero Neri (brianzolo di Erba di stanza a Milano, poeta sotto pseudonimo, nato Pontiggia, fratello del noto romanziere Giuseppe).

Elio Tavilla ha intrapreso la sua strada poetica a cominciare dal Premio Montale per l’Inedito 1983, cui è seguita la pubblicazione della prima raccolta, Il cubo e l’assenza, con Società di Poesia nel 1984. E poi altri libri (e altri premi: Dario Bellezza, 2000; Sandro Penna, 2005), fino a La gravità terrestre, Musicaos 2020, ultima raccolta in ordine di tempo di cui ragioniamo insieme qui.

Partiamo da una osservazione sui versi sopra riportati che spero non sembri peregrina: la sezione cui i versi si riferiscono ha un titolo che è un interruttore: ERA QUELLO CHE MI DICEVA IL LAGO, suonano in risposta a una sollecitazione, a una provocazione, a una richiesta formulata come affermazione imperiosa, diversamente da quando sul social di Zuckerberg rispondiamo alla domanda, A cosa stai pensando?, e il post prodotto appare vagamente campato in aria perché la domanda è omessa.

Qui viceversa, benché per simile meccanismo, il poemetto, frazionato in cinque sezioni, elabora proprio la reazione a quel tarlo. E struttura cinque piccole rivelazioni, o un’unica verità, scomoda, da esaminare in cinque sue variazioni. Colpisce la lieve indicazione dell’effetto mistificatorio che deriva dalla nostra cauta accettazione della verità, il nostro approccio ad essa prudente, che TSEliot avrebbe definito “politic and cautious”. Qui però non è un caso da Prufrock o Sweeney, Tavilla non suggerisce una miserabilità – “l’aureola mancante della santità” è solo l’ammissione di un’imperfezione, e di una inermità, di un’innocenza di fatto, per scarsità di forze, il cui “inganno in piena regola” esita in “una vera crudeltà”. E poi si può solo “colare a picco” col proprio “carico di carne”. Che questo disarmo insito nella nostra caduca natura sia all’origine di un atteggiamento così indifeso è segnalato pure da parole-spia disseminate nei versi: una di queste è acquerugiola, così tenera e corrosiva insieme.


e poi colava a picco

col suo carico di carne non

riusciva neanche a dire basta

le era uscita tanto flebile di bocca

che neppure la sapeva

più a memoria

***

poi la serenata suona

non era che acquerugiola a

disperdere il calore,

dei polsi, delle mani


Prevengo la perplessità di chi leggendo questa poesia noti, nei versi sopra, la inaspettata cesura dopo “parole interiettive” come la negazione “non” o la preposizione “a”, e ora si sta arrovellando: ma come è possibile? Lo preciso perché è una domanda che una volta mi è stata rivolta. Non si tratta solo della assoluta libertà, nel verso libero, da parte del poeta, di “manovrare versificando” a proprio piacimen= to, si tratta nel caso di specie, come sempre accade, di forme ardite di enjambement e di audacia sospensiva. E anche di una sorta di esitazione, di tremendo bilico in precario equilibrio che sempre segna la parola poetica – che, conviene qui ripeterlo, esce allo scoperto dal buio del silenzio per ridefinire il senso e il segno della nostra avventura umana, dunque richiede tremante coraggio. In questa chiave mi pare si possano interpretare anche i cosiddetti indentings o rientri, frequenti in questa raccolta come formulazione grafica, ulteriore risorsa espressiva di una cautela che sospende il giudizio, non lo infligge come sentenza, ma lo suggerisce come dubbio, cullando il caso di studio.

L’idea della mistificazione che ci insidia, e che sta in agguato incombendo su tutti noi indifesi, mi sembra il reperto più temerario e impertinente, appunto, di questa raccolta. E posso fornirne due prove almeno, restando sul testo.

Intanto (visto anche che stiamo attorno ai giorni di definizione della cinquina che approda al Premio Strega, e che la cernita si è svolta proprio, tornandoci, nella città di Benevento –Maleventum, in ori= gine– nella conca petrosa del suo teatro romano), partirei dalla sezione di La gravità terrestre che si chiama proprio LE STREGHE DI BENEVENTO:


1

A furia di temere il peggio, avevano l’aspetto

degli ossimori mancati. Del tipo: aurora, ora

lucertola, carogna – una T larga sul petto

che si vedeva da lontano anche

con le luci accese. E dire che temevano

di morire presto.

2

L’angelo custode

nel retro del negozio

aveva un dito rotto ed era afono. Per forza

con quella aura da profeta non smetteva

di avere il torcicollo e urlare. Un’algida

apparenza da dimostrare. Fece

un altro giro gratis e seppe

che eran due e che si davano

le spalle.

3

Non si parlavano. Neppure

per vederci meglio. Un giorno sì

e uno no. Comunque.

Meglio che nulla. Meglio

nulla.

A motore spento

a folle.

4

E per quanto esanime

sembrava avere sette vite. Come

si comportava. Si muoveva. Un polso

sopra l’altro. Ne ricordo uno

che batteva al ritmo della madre chiesa

quando i fedeli entravano

o uscivano, non so.


È evidente che c’è un trucco (direbbero i francesi), cioè un meccanismo perverso, insidioso – torno a dire, nella trasmissione, o interviene qualche capricciosa interferenza, che disturba, traducendo in altro, ciò che è emesso in origine, per cui il messaggio che arriva, o si osserva nel suo viaggio sonoro o in video, finisce per trasformarsi, capovolgersi, rovesciarsi, finisce per mentire: ci arriva questo. Non sappiamo più qual era il contenuto genuino di questo macchinoso lavorìo di propagazione. Come se tutto ciò che diciamo e facciamo, nel corso del tragitto verso terzi, si alterasse naturalmente e sconfessasse sé stesso. Per danno soverchio si aggiunge la comicità involontaria: ridicolo contrario.


5

era meglio di quello che si dice

un’evidenza fattuale

ma aveva il viso segnato

e una carota per naso.


Poi c’è una prova testuale ulteriore, difatti finale nella geografia del testo, nella sezione eponima La gravità terrestre:


preme sulle costole nell’aria limpida

di ottobre, prima di immergersi con muta

apprensione, divaricando gambe e

braccia al carico bilanciato del corpo

opponendo fiato, la schiuma che è un vapore

di quelli trasformati in vera acqua

e nel sale trascende il suo furore

un unico intrico di alghe e carni

molli di paguri impauriti, quasi feroce

l’esibizione inutile degli arti prima

di finire decorticato attorno

al suo centro.

Era impossibile resistere

alla sua forza, agitare le mani era

la rivolta dei poveri che nient’altro fanno

se non desiderare tanti piccoli mali

per nessuno in particolare ma al primo

che passa e disarticola le sillabe

che sapeva dalla nascita di dove non

sapeva, ricordava. Era impossibile comunque

riconoscere dal taglio della bocca e quello

sanguinante altrove dietro gli occhi, nei sessi

il grigio-fuoco delle schiene illuminate quando

vengono vergate a sangue. Esce

come un ospite in un giorno di un qualunque

mese e in un’orbita spaziale e temporale

estrema dice cose quali gratitudine e promessa

inutilità del vecchio mondo che sparisce come

era apparso, senza gloria e senza infamia.

No.

L’infamia, quella sì.

Quella torna

ripetutamente torna

a confondere e mischiare l’acqua

con il vino, una falsa eucaristia

che toglie vita e nulla in cambio dà.

E certo, l’ingenuità era perduta

e con essa il fiore

dei migliori anni.

Ora l’ora del crepuscolo affanna

appena, nulla si scorge oltre la fiancata

del relitto, una scialba mattina di luce

retta, inequivoca, fissa sui resti

sulle rovine. Schiacciate dai vandali

le retrovie sono piccoli popoli erranti

divisi, prossimi allo sterminio e questo solo

per testimoniare l’abitudine al dolore

l’oro dei meticci che affondano nel fango

e lì restano per sempre e nel silenzio

di ogni storia. Il tubero

di un futuro fiore

affiora dalla terra smossa come

da un gioiello d’inarrivabile valore

e non stupisce che si addentri

con radici più voraci da animale

inerme, cosa che si spiega come

un’aporia iridescente nel sereno

ragionare di un Socrate, di un quasi

irriconoscibile Spinoza.

Ciclo circolare

dei pianeti inquieti, spinti da chissà

quale nera forza che nessuno sa

e dispera di sapere, un attrezzo inutile

l’acciaio delle macchine volanti attorno

al globo, la piccola sparuta inerte e comica

pallina colorata in fiamme e fumo – un padre

nostro che si informa delle sue creature

consumandole, pestandole, ascoltandone

i flebili lamenti a fiotti nelle notti

senza luna.

Solo un rapido passaggio

di stormi volatili impauriti assaliti

dalla fretta di migrare, un lampo oltre la fitta

dedalica vegetazione

e poi uno sparo

e poi ancora un altro. E poi più nulla.


È letteralmente fenomenale come questo poemetto finale sia anche conclusivo di una sorta di arco del ragionamento, se così si può definirlo, e come dopotutto qui il poeta “spinga”, per citare il solito TSEliot (ma tant’è, gli dobbiamo molto, in termini squisitamente poetici, e in termini critici), “il momento alla sua crisi”. Qui tutto decanta in peso, in pesantezza. C’è una forza che grava e pressa, a cui non è dato avere forze sufficienti per opporre apprezzabile resistenza. Ed è significativo come il poeta ragioni sulle parole, sul senso comune che in esse è distillato e diventa verbo ipocrita. Fino a stanare l’infamia.


L’infamia, quella sì.

Quella torna

ripetutamente torna

a confondere e mischiare l’acqua

con il vino, una falsa eucaristia

che toglie vita e nulla in cambio dà.

E certo, l’ingenuità era perduta

e con essa il fiore

dei migliori anni.


È chiaro che stare sotto il torchio della confusione e della mistificazione (che, attenzione, non è più difetto fisiologico ma crimine con una matrice) non solo trasforma, corrompe forse, smalizia di certo, ma scarnifica anche, porta via polpa, letteralmente spolpa l’anima. In uno scenario che ha dell’infer= no dantesco e dello sciamare disperato, e in una specie di eterno purgatorio che è la vita umana, che ha della desolazione terrestre eliotiana, come per un maleficio spunta


Il tubero

di un futuro fiore

affiora dalla terra smossa come

da un gioiello d’inarrivabile valore

e non stupisce che si addentri

con radici più voraci da animale

inerme, cosa che si spiega come

un’aporia iridescente nel sereno

ragionare di un Socrate, di un quasi

irriconoscibile Spinoza.

Ciclo circolare…


-è incredibile, questo passaggio, pazzesco. È di una lucidità spietata: cogliere in modo disilluso – e finale, verrebbe da dire – come la tragedia annidata nel piccolo nascosto e misero sia la stessa che su un piano più elevato, che sia il pensiero, o il moto armonico delle sfere celesti, non solo addita la nostra “animale inerm”ità, ma dimostra la natura aporetica del ragionare, persino delle speculazioni storicizzate e solidamente radicate nella nostra cultura. Questo nostro spregevole rimestare–


stirring

Dull roots with spring rain.

Winter kept us warm, covering

Earth in forgetful snow, feeding

A little life with dried tubers.


–già ci era stato rivelato in The Burial of the Dead (La sepoltura dei morti) in The Waste Land (La terra desolata, tradotta da Roberto Sanesi – che in una nuova traduzione, di Carmen Gallo, per Il Saggiatore, uscita il 13 maggio scorso, diventa La terra devastata). E a nulla serve che siano lanciate in orbita attorno al globo macchine d’acciaio volanti – il mistero non si risolve. È inintelleggibile, non è interpretabile o rivelabile nella materia e nei fatti minuti o negli oggetti, che sono solo pesi singoli, solitarie zavorre che ci aggravano. Elio Tavilla sembra suggerirci qui (giusto lui che è uomo di legge, immerso nei codici e in una normazione curiale di ogni umana materia, attenendosi stavolta invece ai suggerimenti di un poeta della Fisica, Albert Einstein) che quel mistero può essere scorto nel valzer dei legami che intercorrono tra le parti in gioco, e come per incanto sorreggono e alimentano proprio il movimento, appunto in una celeste armonia, in un sistema composito di cerchi e orbite – o, per dirla con le parole della Legge, finalmente restituite al ruolo di portatrici di decisivi significati, e di civile sistemazione, “nelle more” tra gli atti tangibili.

La gravità terrestre è un libro da leggere a cuore aperto. Si impara, anzi, leggendolo, a disfarsi del senso comune e anche dell’ormai liso e consunto buonsenso, e a conquistare un senso diverso, più franco in una specie di apprendistato che è naturale e radicale come la meditazione o una seduta di yoga. A proposito, leggiamo anche Yoga, di Emmanuel Carrère – uscito lo scorso anno in Francia per P.O.L. (suo nuovo editore), e ora disponibile in italiano nella traduzione per Adelphi di Lorenza Di Lella e Francesca Scala.

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