Piccola Serie – Lande Elise #2 – Elisa Ruotolo – CORPO DI PANE

Questa raccolta nomina in modo aperto, per giunta a tutte maiuscole, due questioni umane fondanti: DOLORE e AMORE

(Poeti Nottetempo – Ottobre 2019)


Comincio subito con un poemetto che è segnaletico di molte indicazioni sulla poesia di Elisa Ruotolo, poeta e non solo – e anche questo vedrete che in corso di disamina e a fine corsa un suo senso lo avrà. Seguitemi, e non ve ne pentirete.


Non lo nego

ho avuto anch’io una vita

ho avuto la vostra vita

– ma è stata anche diversa.

Ho avuto febbri e pesti e colera

senza che nessuno ne prendesse nota.

Senza che mi venisse dato

presidio dei luoghi su cui poggiavo i miei pesi.

Senza che mi si scansasse.

Così sono stata tra voi

– con voi.

Ho mangiato alla vostra tavola

e bevuto dai vostri bicchieri.

Vi ho contagiato

e mandato a morte ogni giorno.

Ma questo nessuno lo ha capito

e mi avete amato – amato

come innocente creatura.

In compenso, avevo le ossa rotte dai capitomboli

ogni scalino mi ha incrinato un arto

spezzato una costola

un femore.

Ogni dislivello di terra ha mancato le mie suole

con misericordiosa cattiveria.

Non ho gessi pesanti da portare.

Le fratture a farmi gracile

come un coccio riparato

non le ha viste nessuno

– e mi hanno creduto

solida – salda.

Hanno pensato che niente m’avrebbe

atterrata o tagliato le carni

che nessun amore mi avrebbe trovata

o fatto patire – o partire.

Che non avessi sesso

né lo desiderassi a notte fonda.

Ho avuto i nervi lenti dei vecchi

e le voglie senza riparo dei bambini

i contrattempi dei faccendieri

e gli infortuni irreversibili degli atleti.

Ogni sosta forzata

ogni coma

ogni arresto di vita

ha fermato la mia.

Ma voi non lo avete saputo.

Mi avete vista in movimento

sempre tesa verso un centro

a cui non avevo mai giurato mira.

Mi avete accarezzata

quando meritavo percosse

e amata

invece di – comodamente – capire.

Avete scelto il difficile

di non vedere le mie incrinature

per potermi amare come fossi sana

mai malata appestata mai spezzata

come invece sono

in febbre in peste in pezzi.

Perdonate la mia verità capace di simulazione.

Perdonate i miei denti offesi dal tempo.

Perdonate le mie protesi ben nascoste sotto infiniti

mantelli.

E i pace-maker che mi tengono in vita

senza che io ne abbia diritto

e anche voglia.

Sono terremotata, io

lesionata alle fondamenta.

Non venite ad abitarmi

– no

non datemi il peso delle vostre voci

e dei vostri gemiti fino a tardi.

Non appendete quadri alle mie pareti

non seminate bulbi nella mia terra.

Io non so proteggere

né allestire primavere

anche se ogni giorno proteggo

e improvviso belle stagioni.

Vi ho amato

l’ho fatto tutte le volte che ho mentito.

Mentivo per questo

perché pesa essere compresi.

Mi assolveva ogni gatto sdraiato lungo il ciglio

ogni laccio stretto a cavare la vena

o la vita

ogni referto di malattia

perché sotto il sole tutto era mio.

È vero

ho avuto una vita che somiglia alla vostra

ma più misera più amante delle virgole

attenta ai perché delle gocce stillanti da un rubinetto

più che al pentolino che bolle

e deborda il mio pasto.

Non mi crede nessuno:

che più pago il mio debito

e più s’aggrava.


Il libro da cui proviene questo poemetto, che non è l’unico, è Corpo di pane (Nottetempo 2019). Partiamo da questo titolo. Un titolo che intanto denuncia o meglio enuncia il volume e il peso di un corpo, il corpo dell’autrice – potremmo indovinare, la cui sostanza però, la cui materia, è porosa e friabile e affondabile. Un corpo dotato di presenza ed esposto agli elementi più insidiosi, agli agenti esterni più aggressivi, alle influenze più pressanti. Dunque un corpo, leggiamo in più punti del testo, assalito dall’esterno, eppure incline a farsi tetragono, o perlomeno a reggere gli urti. Una resistenza che permette la sua trasformazione, anzi meglio la sua funzione di tramite, di mediazione, di accorta trasmissione in un processo di continuo attraversamento e di sicura sintonizzazione.

Dico questo, a libro chiuso, a lettura completata, anche in considerazione del fatto che l’autrice, Elisa Ruotolo, è scrittrice soprattutto di opere in prosa: l’esordio è stato con Ho rubato la pioggia, raccolta di storie brevi (Nottetempo 2010), cui sono seguiti Ovunque, proteggici – romanzo Notte= tempo del 2014, e quest’anno Quel luogo a me proibito (Narratori Feltrinelli). Ciò che colpisce non è solo il fatto che ben due ulteriori libri siano stati dedicati ad Antonia Pozzi, poeta evidentemente sentita molto vicina: nel 2018, Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi: il dono della vita alle parole (edizioni rueBallu), e nel 2019, Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio di Antonia Pozzi (Interno Poesia). Colpisce anche il fatto che il mondo evocato in questa raccolta poetica è una sorta di retropalco. Sembra proprio animare, cioè, il mondo che pascola nella mente creatrice della Ruotolo in cui galleggiano i personaggi e le loro vicende, torbide e leggere, efferate e ordinarie.

È come se questo libro illuminasse tutto ciò che si muove dietro il sorriso rassicurante dell’autrice svelando le contraddizioni e i drammi di figure per niente o non in assoluto rassicuranti.

È come se questa raccolta addensasse i moventi e i rimasugli della scrittura totale della Ruotolo. Ed è come se il modo in cui, in questa raccolta, si sedimentano si denotano e si sommano i diversi piani che tra poco vado a illustrare, tallonando da presso il testo sopra riportato, scelto come campione, si proponesse come dialogo tra quei diversi piani.


Non lo nego

ho avuto anch’io una vita

ho avuto la vostra vita

– ma è stata anche diversa.


Questo incipit pone subito il discorso su almeno due piani: l’io poetico dichiara di avere una vita come il voi, cioè i tutti noi, cui si rivolge, ma quel voi non è escluso che siano i suoi personaggi.


Ho avuto febbri e pesti e colera

senza che nessuno ne prendesse nota.


La vita in comune poi in cosa consiste se non in esperienze condivise?, per esempio di malattie, in fondo esperienze significative nella loro drammaticità, che segnano le vite di tutti noi, però il vero destino è segnato dal fatto che qualcuno ne prenda nota: ci vuole a volte un testimone, un reporter, che si faccia carico di annotare la nostra storia, solo così, se essa è raccontata, sarà ricordata e poi acquisterà significato.


Senza che mi venisse dato

presidio dei luoghi su cui poggiavo i miei pesi.

Senza che mi si scansasse.


Nessuno ad annotare, ergo nessuno a notare, cioè a far caso a-, una presenza. Qui compare per la prima volta una risorsa ricorrente tra gli strumenti compositivi utilizzati da Elisa Ruotolo in questo libro: l’anafora.


Così sono stata tra voi

– con voi.

Ho mangiato alla vostra tavola

e bevuto dai vostri bicchieri.

Vi ho contagiato

e mandato a morte ogni giorno.


Inevitabile qui il rimando a Un angelo alla mia tavola, film autobiografico di Janet Frame (1990): la protagonista è appunto una ragazza solitaria, che scrive poesie, la cui tenuta personale o saldezza interiore è particolarmente precaria, segnata. E poi ecco che si manifesta qui lo spettro del contagio.

La parola, questo mediatore imprescindibile, indicatore di rapporto tra le parti, già asciutta, qui si fa se possibile più essenziale, e assume anche una plasticità di gesto dimostrativo, esemplare: qualcosa di sacro nella formulazione e di decisamente umano e virale nell’essenza.


Ma questo nessuno lo ha capito

e mi avete amato – amato

come innocente creatura.


Dunque, all’insaputa di chi l’ama, l’io poetico non solo può esser fonte di contagio e veicolo di morte ma può presentarsi come creatura innocente alla lettera, cioè incolpevole, apparentemente priva di colpa.


In compenso, avevo le ossa rotte dai capitomboli

ogni scalino mi ha incrinato un arto

spezzato una costola

un femore.


Tutti noi, vivi, facciamo capriole e salti mortali. Non necessariamente per volteggiare come acrobati che danno spettacolo davanti agli altri ma proprio, nascosti agli occhi altrui, per tirare avanti, per vivere, banalmente. E addosso ci restano tutti i segni. Visibili e invisibili. Spesso in massima parte imperscrutabili. Chi narra la nostra storia ha proprio questo compito: portare a dimensione visibile le nostre invisibili, e inconfessabili, vicissitudini.


Ogni dislivello di terra ha mancato le mie suole

con misericordiosa cattiveria. 

Non ho gessi pesanti da portare.

Le fratture a farmi gracile

come un coccio riparato

non le ha viste nessuno

– e mi hanno creduto

solida – salda.

Hanno pensato che niente m’avrebbe

atterrata o tagliato le carni

che nessun amore mi avrebbe trovata

o fatto patire – o partire.

Che non avessi sesso

né lo desiderassi a notte fonda.

Ho avuto i nervi lenti dei vecchi

e le voglie senza riparo dei bambini

i contrattempi dei faccendieri

e gli infortuni irreversibili degli atleti.


La misericordiosa cattiveria è ossimoro denso di significato, è perfetto concerto di inganno. Com’è ingannevole l’immagine che si dà di sé all’esterno. Siamo, quasi tutti, degli involontari impostori. Un altro inganno inevitabile è sembrare invincibili. In realtà chi sa guardare sa vedere tutti i segni di frattura ben riappiccicati e sa valutare quanto è precaria la tenuta personale.


Ogni sosta forzata

ogni coma

ogni arresto di vita

ha fermato la mia.


Ecco che si riaffaccia l’amata anafora, che qui evoca anche una corrispondenza inattesa con una nota prosa di John Donne, il poeta metafisico inglese, nel suo sermone più famoso, No Man Is An Island, [(…) any man’s death diminishes me, because I am involved in mankind. (…)]: John Donne è stato anche prelato, autore di omelie mirabili – qui sembra evidentemente condivisa l’idea, per Ruotolo come già per Donne, di sentirsi riguardati da tutto ciò che accade all’Uomo. Anche se qui sembra proprio che la sfumatura sia appena spostata di lato, slantly: obiquamente.


Ma voi non lo avete saputo.

Mi avete vista in movimento

sempre tesa verso un centro

a cui non avevo mai giurato mira.

Mi avete accarezzata

quando meritavo percosse

e amata

invece di – comodamente – capire.

Avete scelto il difficile

di non vedere le mie incrinature

per potermi amare come fossi sana

mai malata appestata mai spezzata

come invece sono

in febbre in peste in pezzi.

Perdonate la mia verità capace di simulazione.

Perdonate i miei denti offesi dal tempo.

Perdonate le mie protesi ben nascoste sotto infiniti

                                                                     mantelli.


Torna l’anafora, sempre pronta a scattare, e a conferire ritmo a questa versificazione che per il resto preferisce affidarsi alla frase compiuta e registra cesure tra verso e verso dettate dalla sintassi, dalla logica del discorso. Ciò si evince dal dettato prevalente, anzi sostanzialmente univoco, tutto tessuto in versi che cadono come altrettante frasi secche, e pochissimi, direi rari, enjambements. Dopotutto, proprio l’allusione a un centro cui pure l’io poetico mai ha brigato di mirare dà più forza al senso di centratura logica di questo discorso poetico. Proprio perciò, versi come –mai malata appestata mai spezzata– o come –in febbre in peste in pezzi– vantano un equilibrio compositivo tra catalogo e fluidità che risulta pregevole.


E i pace-maker che mi tengono in vita

senza che io ne abbia diritto

e anche voglia.


Anche questo tirare in ballo il pace-maker, un dispositivo che scandisce (e, direi, assicura) il ritmo, suona, in filigrana, come un chiaro rimando a un’idea di poesia come ritmo e non solo come parola.


Sono terremotata, io

lesionata alle fondamenta.

Non venite ad abitarmi

– no

non datemi il peso delle vostre voci

e dei vostri gemiti fino a tardi.


Qui pare di sentire due cose: l’autrice / io poetico sa (come del resto non ha fatto che dire, fin qui) d’essere gracile, fragile, assediata. Da chi? Perché? In che modo? È parassitata dalle esistenze degli altri, ecco il secondo dato: da quanti si affacciano alla sua mente, al suo cuore. Da chi la abita.

Questo mistero riguarda anche il luogo linguistico dove questo intero mondo si formula. Lo spiega la stessa Elisa Ruotolo in uno scritto che correda la recente uscita di Quel luogo a me proibito in cui l’autrice ragiona sulla mediazione della lingua, cui già più su accennavo, che è campo d’azione di uno scrittore. L’intervento si intitola, In che lingua viviamo?, è apparso su IlLibraio.it, e tra le altre notazioni interessanti riporta:


Nascere non è solo la messa al mondo in un ambiente, ma è

soprattutto l’ingresso in una dimensione di parole. Diciamo

spesso, È nato in una famiglia, mentre si dovrebbe precisare,

È nato in una lingua – se molto di quello che saremo chiamati

a fare dipende da ciò che sapremo dire e dai modi in cui lo diremo.

È vero poi che la nascita non include la durata, poiché a un certo

punto credo si abbia la facoltà (o il dovere) di scegliere il proprio

idioma col gesto irrevocabile dei pionieri. Appena entriamo nel

mondo delle parole (pronunciandole prima e poi scrivendole),

non esistono solo le terre date, ma anche spazi da colonizzare o,

per usare un termine meno feroce, da abitare.


Abitare una lingua, abitare un mondo parlato, abitare un mondo di figure che parlano e raccontano: esserne abitati, farsene abitare. Non è così che poi si verifica quel mistero che consiste in un mondo popolato di figure che hanno la loro voce e chiedono udienza, e premono per essere raccontate? Viene voglia di difendersene, di opporsi e di sottrarsi: uno sforzo inutile, una guerra già persa.


Non appendete quadri alle mie pareti

non seminate bulbi nella mia terra.

Io non so proteggere

né allestire primavere

anche se ogni giorno proteggo

e improvviso belle stagioni.


Sembra l’antifrasi al noto slogan, Mettete dei fiori nei vostri cannoni, ma ciò che più salta all’occhio qui è l’introduzione, attraverso ben due termini, proteggere e proteggo, di un’idea di protezione, di custodia, in realtà, di qualche verità scomoda o di qualche realtà torbida, da tenere lontana da occhi indiscreti. Sembra affiorare qui, cioè, il nucleo poetico del romanzo Ovunque, proteggici, e del suo geloso protagonista.


Vi ho amato

l’ho fatto tutte le volte che ho mentito.

Mentivo per questo

perché pesa essere compresi.


Amare i propri personaggi vuol dire animarli come fa Viktor Frankenstein con la sua Creatura, e inscenare quella menzogna che è la letteratura (parafrasando Manganelli). D’altra parte l’ambiguo destino dei personaggi è questo: presentarsi per il desiderio di essere accolti, ascoltati, e raccontati, quindi essere considerati, ma esserlo è, nello stesso tempo, un peso, perché vuol dire confessarsi e affidare a qualcuno la propria storia con tutte le inammissibili ombre. Dopotutto rendere giustizia ai personaggi vuol dire dar loro voce senza giudizio, senza censure. A cuore aperto. A mente aperta. Un onere oltre che un gesto meritorio e senza veli. Spudorato e insopprimibile.


Mi assolveva ogni gatto sdraiato lungo il ciglio

ogni laccio stretto a cavare la vena

o la vita

ogni referto di malattia

perché sotto il sole tutto era mio.


Questa immagine del gatto sdraiato sul ciglio rimanda vagamente all’immagine trovata, ricordate?, in Lascia la rosa sul bordo del giardino di Emilia Santoro. Lì, la rosa era una specie di segnale di intesa, o meglio di messaggio criptato, e anche un omaggio, e un testimone, forse un amo gettato a pescare o ripescare l’amore o il colloquio, abbandonato lì quasi per caso su un margine. Qui il gatto subito introduce un’immagine di placida pigrizia e anche di sfida della sorte in quella sua posizione sdraiata proprio sul ciglio a rischio di caduta. Ma ancor più interessante è il tornare dell’anafora (ogni…) qui appena meno limpida, distribuita e collocata in forma un po’ più mimetizzata.


È vero

ho avuto una vita che somiglia alla vostra

ma più misera più amante delle virgole

attenta ai perché delle gocce stillanti da un rubinetto

più che al pentolino che bolle

e deborda il mio pasto.


Questa fine chiude l’arco del poemetto riprendendo l’incipit, ma aggiungendo che la vita di chi li scrive pur essendo simile alla vita dei personaggi è però anche fondamentalmente diversa: la vita di chi scrive è più ancorata alla gravità e alle grevità della vita vera, esemplificate nella maniacale cura delle virgole e nel fissarsi sullo stillicidio di un rubinetto che perde e distrae dall’acqua che bolle, dalla minestra che si sversa sui fornelli.


Non mi crede nessuno:

che più pago il mio debito

e più s’aggrava.


E questo è il finale: incredibile a dirsi ma più si paga il debito (il legame forte con i personaggi che si affidano e nutrono le storie consegnandosi coi propri segreti) più cresce il debito (di gratitudine).

Questo poemetto compare nella prima sezione della raccolta, Corpo di pane, divisa in due parti: POSOLOGIA DEL DOLORE e POSOLOGIA DELL’AMORE. E dicevo all’inizio che non è l’unico. Anzi si procede in questa raccolta per lo più per poemetti mentre rare sono le poesie brevi.

Vi do qui di seguito un esempio di struttura formale come della poetica che innerva la raccolta:


Ho un cuore da fornaio – tutto infarinato d’un bianco

che sporca ma non dà purezza

solo pane.

Eppure a volte sento che il costato come il battere

secco d’un calzolaio

– che lavora la suola giorno e notte

pur d’avere intorno piedi meno scalzi.

Certo s’adatterebbe a me anche un muscolo da

contadino

– resistente al sole, alle piogge, alle tregue del bene

e alle pendenze ingrate della terra

io – che ho così poca pratica di smottamenti.

Confesso però che mi attirerebbe anche un cuore

da fattore

che sappia chinarsi e sporcarsi nello sgravo

dell’animale femmina.

O all’occorrenza il battito di quello stesso animale

che geme

per la vita che gli nasce dove meno dovrebbe

– nei luoghi della lordura quotidiana.

Ma devo accontentarmi di questo acino d’uva

di questo chicco di niente sfuggito alla semina

di questa moneta fuori corso che non basta

a comprare nulla

tantomeno un cuore nuovo

– oggi che il mio s’è fermato

nel primo pomeriggio.

So che niente si decide in cielo

e in terra – eppure massaggio il mio petto fermo

come il fattore il ventre della giovenca.

Partorirò un cuore nuovo anch’io

mi scenderà tra le gambe con un dolore inutile

e io non saprò che farmene.

***

Sto in questo corpo di pane

e il coltello che mi attraversa

a diminuirmi in un tozzo

che nessuno ingoia

Sono crosta e bolle di lievito

– ogni giorno

ogni giorno provo ad accomodarmi un senso.


Nel poemetto (Ho un cuore da fornaio…) è interessante l’andamento della versificazione in cui, sia per arrangiamento dei versi sia per ragioni di poetica, sembra quasi di ravvisare una tendenza al verso lungo o frase poetica che poi è la fondazione del free verse o verso libero secondo Whitman: lo attestano anche i numerosi rientri o indentings che ricorrono in tutta la raccolta. Proprio per questo, da POSOLOGIA DELL’AMORE trascrivo volentieri questo passaggio di media misura:


Le parole si sono ammalate.

Oggi le ho trovate pallide, se ne stavano contro il

muro di casa

a contarsi le sillabe. Di sicuro erano in febbre per

l’incuria che ho

a serrare gli spifferi e dirigere le correnti.

Per averle dimenticate al freddo mentre rigovernavo

la mia vita

altrove, mi hanno fatto lo sgarbo d’infettarsi

e ora stanno lì in un angolo a dire insensatezze

nominando i miei fantasmi e a tossire senza pace.

Le ho sgridate, le mie parole: siete grandi, grandi

abbastanza.

da accudirvi se mi distraggo o m’incaglio in un

impegno

o in un amore. Ma loro non mi hanno dato da

dormire

stanotte scottavano, deliravano ancora

e io ho perdonato loro la verità che cantilenavano

mentre il mercurio passava i quaranta.

Ho chiuso le finestre e dato fuoco al camino

per tamponare ogni vento ho stracciato le mie vesti

– ché non serve stare composta se sommo mancanze.

Domani staranno meglio, le mie parole

e non diranno più che le trascuro per abitare altre

stanze vive

ma mentre le assisto so che il malanno s’annida

altrove

e già il mio amore – nella stanza di fondo –

comincia a starnutire.


Questa raccolta nomina in modo aperto, per giunta a tutte maiuscole, due questioni umane fondanti: DOLORE e AMORE. E al pari di questa dichiarazione aperta, la poesia profusa nell’intera raccolta affronta i due temi a viso aperto, senza girarci attorno, semmai esplorandoli senza scorciatoie e per diretto attraversamento. Eppure non manca qui quella slant of light che Emily Dickinson consiglia, quella prospettiva obliqua che nel caso di specie consiste nell’illuminare la coincidenza concentrica tra la voce dell’io poetico e il coro di personaggi che come fantasmi abitano lo spazio di questi versi – un luogo linguistico, dicevo, prima di tutto, e proprio per questo uno spazio interiore e mentale, il disegno poetico del pensiero, e del colloquio dell’autrice con la propria poetica, col proprio mondo. Ultima notazione: il linguaggio. Netto, franco, senza abbellimenti e senza fronzoli, non cerimonioso e ai limiti della crudeltà. Non violento ma calato sui propri oggetti con adesione precisa, puntuale. Ne deriva una densità che esclude ogni spreco, una compattezza del dettato senza sfilacciature nella tessitura. Dunque anche nessuna indulgenza.


La foto nella pagina è di Lavinia Azzone

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