Beato chi non è costretto a scegliere tra talento e duro lavoro perché ha talento e gli piace anche lavorare. Le due cose devono andare insieme. È qualcosa che riguarda tutti gli artisti, in tutte le arti, ma naturalmente anche gli sportivi e perfino gli artigiani o chiunque faccia particolarmente bene il proprio lavoro, qualunque esso sia.
Quindi riguarda anche chi scrive e chi vuole diventare uno scrittore, non importa se vuole avere successo oppure no – diciamo che vuole diventare uno scrittore amato almeno da qualcuno nel pubblico dei lettori perché se non lo ama proprio nessuno nessuno, allora comincia subito male (vuol dire che il talento proprio non c’è). Ma nella mia esperienza, che è ormai molto lunga, chi si avvicina a un laboratorio di scrittura, lo fa perché almeno una volta nella vita qualcuno ha letto quello che ha scritto e gli ha detto: «Sei bravo, lo sai, continua a scrivere!».
Molti però non sanno come far fruttare questa predisposizione (naturale o appresa che sia), forse perché non lavorano abbastanza duramente o non conoscono abbastanza bene le tecniche della scrittura e della narrazione.
Insomma chiunque voglia diventare uno scrittore deve per prima cosa fare i conti con queste due realtà: il talento (che poi nessuno sa veramente bene cosa sia) e il duro lavoro, e questo invece lo conoscono tutti.
Hemingway, per esempio, diceva che la prima stesura di qualunque cosa – compreso quello che scriveva lui – era merda, il che significa che bisogna fare per lo meno una seconda stesura e certe volte una terza, una quarta e cioè lavorare tanto, lavorare costantemente, quindi aggiustare ciò che si è già scritto per renderlo più bello.
Un altro grande scrittore come Philip Roth rispondendo a una domanda di una giornalista in un’intervista rilasciata al supplemento “La lettura” del “Corriere della Sera” ha detto: «Quello che mi ha salvato la vita non è stato il talento, ma la caparbia ostinazione».
Ecco, il duro lavoro va con l’ostinazione perché se è vero che lavorare stanca come scrisse Cesare Pavese, per non abbattersi anche di fronte ai rifiuti e alla necessità di lavorare ancora e ancora, c’è bisogno di essere davvero molto ostinati.
Perché la questione del talento è posta in modo sbagliato?
Io credo che la questione del talento sia posta in modo sbagliato, è diventata un’arma retorica (esercitata da parte di chi ha già avuto successo e paradossalmente anche da chi non è riuscito e si sente un fallito) soprattutto per impedire a chi sta provando a esercitare un’arte di mettere tutto l’impegno che può, magari dopo gli iniziali fallimenti. “Che provi a fare?” gli dicono “tanto non hai talento!”. Perché cercare di impedirglielo, però? Beh, a questa domanda non ho una risposta, bisognerebbe rivolgerla a uno psicologo.
Ma cerchiamo di capire meglio cos’è questa idea del talento. Innanzi tutto è un concetto religioso, che viene esteso all’arte per una certa aura di sacralità che l’idea di artista, specie nell’accezione romantica, ottocentesca, porta con sé.
La parabola dei talenti
La parabola dei talenti in effetti è all’interno del Vangelo di Matteo, cioè di un testo sacro (e anche qualcosa di più di un semplice testo sacro perché sarebbe stata raccontata, anzi per chi crede è stata raccontata, proprio da Gesù, che è nello stesso tempo anche Dio, perciò è proprio Dio con la sua viva voce, senza interpretazioni umane, che ha raccontato questa parabola trascritta da Matteo).
Si tratta in ogni caso di un racconto pure difficile da intendere, come spesso accade con le parabole. Racconta di un uomo che prima di andare via per un viaggio dà dei talenti ai suoi tre servi. Ai primi due ne lascia diversi e al terzo, chissà perché, ne concede uno solo. Questo servo con un solo talento, poverino, per paura di perderlo lo sotterra, lo nasconde.
Quando l’uomo torna, i primi due, che hanno investito i loro talenti, sono riusciti a farli fruttificare, mentre quello che l’ha nascosto, ovviamente no. Ha solo quello e deve scavare nella terra per tirarlo fuori. A quel punto l’uomo premia i primi due e al terzo dice parole terribili: «Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse».
Non solo, ma anche il suo talento gli viene sottratto e dato a chi l’ha fatto fruttare. Ma non basta, il servo viene definito “fannullone” e gettato fuori nelle tenebre, dove «sarà pianto e stridore di denti».
E la definizione di “fannullone” si adatta perfettamente all’idea iniziale degli scrittori citati prima che il talento debba essere abbinato al duro lavoro, no?
Quindi il più grave dei peccati non è cercare di fare le cose quando si ha poco talento, ma invece rinunciare a farle. Il talento serve sostanzialmente a far fruttare qualcosa. Chi lo nasconde e non lo fa fruttare perché è convinto che non sia sufficiente, viene condannato. Almeno da Dio.
Naturalmente non credo che il talento sia ancora un concetto divino o soprannaturale, però nella mentalità comune è come se ci fosse una persona più in alto di noi che decide di dare a qualcuno il talento – chissà perché? – mentre a qualcun altro no, povero sfortunato che non ce l’ha proprio (ma nella parabola tutti hanno almeno un talento).
In realtà quello che il discorso sul talento ci insegna non è chiederci se ce l’abbiamo a sufficienza o non ce l’abbiamo, ma a farlo rendere. Quindi a non nasconderlo, a non averne paura. Non avere paura dei rischi del provarci, cioè, come dice quello che è probabilmente il più talentoso dei docenti di sceneggiatura, Robert McKee: «rischiare il rifiuto, il ridicolo e il fallimento» (soprattutto il fallimento è lo stesso timore del servo fannullone nella parabola, no?).
E se qualcuno rischia di perderlo nel tentativo di farlo fruttare? Chi se ne importa, l’avrà perso ma almeno non sarà andato sprecato, l’avrà usato. Avrà fatto sempre meglio di chi l’ha sotterrato per timore di perderlo.