65.
Un taglio nero, una slabbrata
cucitura: dentro le sue mura
nuda la tribù. Si muove muta
la luce in chiostri, cortili, sospirando
nel liturgico buio “Di’ soltanto
una parola”. Quale. Ascolta.
Séguita lungo deliranti
cappelle, ordigni di preghiera, drappi,
velluti, curve absidali. Anima mia,
senza quella, senza alcuna parola.
Prendi sul serio il lento srotolio
di questa serpe, l’errare
che slontana tra sterpeti, anfratti,
anditi, pertugi,
nulla se non polvere spostando.
Insonnolito, a torso nudo, su Holborn Street
assolata, un giovane si affaccia
quasi feroce nel festivo silenzio.
Guata spavaldo il mondo vuoto
e torna nell’aria viziata della notte
truce, imbronciato. Vede
e dimentica. Non fa
domande. Forse in altra carne
si infratta, pigra e innocente. Non si salva.
[L’Ultimo Turno di Guardia, SEQUENZA QUINTA – Alberto Rollo, Manni Poesia 2020]
4.
Ti accanisci a tenermi nella vita.
I tuoi paraphernalia son schierati
nella stanza. Sento il clangore
magro dei trespoli che muovi,
gli schiaffeggiati risucchi del lattice,
lo schiocco delle fiale e quell’odore
a debellare il mio, dominatore.
No, tesoro, io non son di quelli.
Tu sai, non sai, ma credi – o ti convinci –
che la mia presenza cresca
come effetto della tua diligenza.
Più facile sarebbe avermi amico
o tremane della mia vecchiezza.
5.
Siamo, nemico, sodali che giocarono
a poker una notte,
disadorni, nel fumo consultando
quei destini di figure? L’alba
è ancora sul piatto ad aumentare
la posta, sino al prossimo
turno di tenebra. Lo schiocco
della carta non ci stanca. Attendo
il kicker elegante che sbaraglia.
Ma ora, ah la malizia triste
e prevedibile:
non provare
a favorirmi. Non farlo, non osare
sbadigli. Non bluffare
con la fortuna in mano.
A te che credi
di avere tempo – e mai possesso
fu più volatile –
il mondo pare ancora una sequenza
di eventi e lo riempi
di azione – quanto basta – anche di buone
azioni. Gioca, invece. Tutto
portami via, bel traditore,
riducimi alla tela delle braghe.
Svuotami le borse, estingui il conto,
aiutami di rosso in rosso fino
alla chiamata, se c’è, d’un direttore.
[LUDG, AR – SEQUENZA PRIMA, Manni Poesia 2020]
Alberto Rollo, l’autore di questa scelta di versi, è da decenni nell’editoria: è stato direttore editoriale per Feltrinelli, e da pochissimo è consulente editoriale per Mondadori. Ora che è uscito da un ruolo attivo nel cuore dell’editoria milanese rientrandovi per evidenti meriti come advisor, Alberto Rollo ha “licenziato” ben due libri propri: “Un’educazione milanese”, ricognizione affilata e capillare del proprio rapporto con Milano lungo un’intera vita, “ il romanzo di una città e di una generazione”, finito in cinquina al Premio Strega edizione 2017 (vinta da Paolo Cognetti); ora questo, “L’ultimo turno di guardia”, cinque sequenze poetiche elaborate nel corso di 25 anni. Entrambi i libri sono usciti nella collana PRETESTI curata per Manni Editori da Anna Grazia D’Oria, cofondatrice della casa editrice negli anni Ottanta col compianto Piero Manni: due professori appassionati di poesia e letteratura, e fondatori di una rivista, “L’Immaginazione”, tuttora attiva, grintosa e senza fronzoli.
“L’ultimo turno di guardia” in particolare è il libro in versi di cui ci occupiamo qui, in questo spazio che da qualche tempo ci dà occasione di incontrarci sulla poesia, ed è sostanzialmente un poema in cinque atti in cui troviamo un IO trainante, e poi un luogo, un tempo, una situazione, delle figure. Proprio questi elementi sono i nostri punti d’appoggio (per noi lettori – intendo) per orientarci in un racconto che si fa subito misterioso e profondo, e ci guida unicamente per mezzo dello sguardo. Chi guarda e da dove? È il vegliardo protagonista a guardare e a riportare, descrivendo e rammemorando. E lo fa da un certo luogo nello spazio. Un punto sopraelevato che non sta solo per un punto posto in alto ma soprattutto (gl’indizi sono sparsi ovunque a convincercene) da un punto elevato nel tempo. Davvero qui tempo e spazio non solo si curvano uno nell’altro ma sono uguali e corrono paralleli, sovrapponibili, e si sostanziano l’un l’altro. Qui comincia, o meglio si innesta e si innerva (con cerchi concentrici ad un tempo quieti come il racconto di un saggio aedo, e gotici come un mistero che ci chiama da un anfratto disperso, come se, soprattutto all’inizio, si dovesse rincorrere la fonte della voce e risalire alla sua sorgente) l’avventura di un ascolto per il lettore, ma anche un gioco di specchi e di controfigure, di relazioni e dialoghi, di rimandi e diffrazioni, che quasi dà peso magico alla parola per il personaggio messo in moto dall’autore. Il quale, poiché sa di chi e di cosa sta parlando, ci avverte, nella nota finale e nelle poche note informative che corredano le frazioni di questo poema, che si tratta di una torre che può essere un carcere come un sanatorio, e la situazione può essere quella di un degente accudito da un infermiere come di un detenuto accudito dal suo guardiano – la sostanza non cambia, il sorvegliante è un angelo custode (che in francese, per esempio, si dice “ange guardien”, uguale a “guardian angel” in inglese, convivenza fosca di angelo e guardia appunto): bene, il sorvegliato lo arringa mentre gli si sottomette cortesemente finendo per dominarlo. O meglio tutte queste fette di verità si sommano in una densità multistrato che, a dispetto della voce dominante, rendono il racconto plurivoco. Ma il lettore (che scopre il tesoretto delle indicazioni autoriali solo in fondo al libro, ma nulla, nella sua anarchia di lettore, può avergli vietato di andarselo a capare prima) non ci casca e si forma una suggestione sua propria mentre si inoltra nel racconto godendo di una serie di piccole gioie annidate nel testo.
10.
Bardato d’azzurro, volo alto.
Anime di nebbia, chi di voi
non ha voluto alzarsi, andare via,
piangere vivo sulle belle imprese
dei vivi, morir di nostalgia
per l0ncompiuta meraviglia, per un bacio,
per una sera di voci, per la seta
su un fianco o una solenne
promessa adolescente?
Sprofondami vecchiaia,
sia notte senza tuono, senza pioggia.
Nulla mi sia lasciato, che fu tolto.
Per vecchio passo nel catalogo, ma ascolta:
nessuno sarà mai di me più vecchio.
Il bicchiere si allontana, via anche il piatto,
portami alla tazza, dolce matto,
alle pendici del letto. Oh mio ministro,
non ti alletta il governo che dividi
in questo tempio, su questo soglio,
su questa età non benedetta?
12.
Dicevano – così dicevano – che il vecchio
avrebbe patito nostalgie.
Balle. Immobile egli sta fra vetro e letto.
Non ha tempo, né fame, né vergogna.
Esili i polsi
sfuggono al legno della gogna; nuda
scivola la nuca, vedi il manto
trasparente di peluria e il cranio.
Secondino,
invero ingiudicato, e senza accuse,
accusa il vuoto.
Cencio, la pelle sente, e non sente.
Vecchio è sì tanto costui che non si pente (calco dantesco)
di essere stato e di non essere stato. (i soliti bilanci consuntivi)
13.
Fra sogno e sogno, sonno e sonno,
trascorsa è la giornata. Senza enigmi.
In un sentore di stagioni enorme.
Da uno spillo infilzata sente l’aria,
accenna svagata una risposta.
Assordante mi scruta
come un inferno, e solo perché è andata
e ritornata, passata nei saloni
di una qualche posta centrale.
L’altro che non fummo
mai ma in cui avremmo
mille volte voluto
assolverci ritorna
col sempiterno strazio dello spreco.
Senza lusinga giace semivivo,
semireperto in una luce fredda
e lacera mutissima una bocca.
Come il mare invisibile del delta
grava straniero il suo rumore alto
sull’inverno di steppa, di palude
che l’argine incolpevole difende.
[LUDG, AR – SEQUENZA PRIMA, Manni Poesia 2020]
Leggendo appena qui sopra riceviamo una preziosa indicazione: sul tempo e le sue due velocità (cioè, contro l’illusoria impressione che come sempre il tempo corra, la magra acquisizione, il dato di fatto, che in vecchiaia il tempo è lento o più statico, cioè meno veloce e più immobile – o forse l’illusione è questa: che il tempo, rallentando si fermi, smetta di trascorrere, cioè non finisca, invece poi finisce).
Ma volevo ritornare sulla suggestione quasi gotica che il lettore ricava pascolando libero nel mare di scorci evocativi offerti dal testo, e segnalare che ci formiamo un profilo via via sempre più corposo pur se sfuggente del vegliardo che guarda e narra dalla sua “montagna incantata” (…“mostruosa libertà di dire, dire, / dire, fino allo sputo. Voce-jena, / scavernata dal petto, / che torna uggiolando a rintanarsi,”, 60. LUDG, AR – SEQUENZA QUARTA, Manni Poesia 2020), ma soprattutto ci formiamo un ritratto sempre più completo del TU all’altro capo immediato del dialogo, il quale via via è custode, guardiano, secondino, lettighiere, attendente, vedetta, guardia giurata, bidello… questa è la figura che più insistentemente è termine di confronto del vegliardo, e non sono pochi i passaggi in cui la sensazione è che non esista in realtà nessuno di là, ma quel TU alberghi in questo IO e sia la sua voce di dentro, la voce proprio di quell’anima che infine è apertamente evocata – e ciò rafforza la nostra idea di un ente controfigurale, o perlomeno ce ne lascia cullare il sentore. Questa formula della controfigura, di un IO infestato, plurale, plurivoco, acquista forza nel seguente passaggio:
16.
Ti prego, padre, tu che mi hai voluto,
scaccia nebbie, memorie, caccia te
da me. O abbracciami definitivamente.
Son dove il seme asciuga, ed anche il sangue
lascia letti deserti. Son più vecchio
di te che pur sei stato vecchio (the child is father to the man, WW)
Sono il tuo specchio e lo specchio che ti nega.
Cancellami o annegami, risolvi
l’equazione con un colpo di gesso,
con un frego, con un nervoso ripassar
del polso sullo stesso sgorbio. Cacciami
sotto, confondimi di alghe,
con il verde ballerino di carezze,
nostre e non più nostre, con la fine
liquida di ogni diventare.
E poi sopravviene la rivalsa dell’editor – come a dire, “Scrittore, ma che ti istruisco a fare se tu hai questa tua tronfia sicurezza di possedere già tutto ciò che ti occorre? Ma in filigrana, come dicono gli oratori accorti, questa “relazione” è anche la pratica applicazione tra le infinite possibili, del rapporto maestro-allievo e/o servo-padrone, soprattutto, o tra vegliardo saggio e apprendista custode; in più è l’espressione chiara che l’ammaestramento, più che sprecato (espletato a vuoto, muro contro muro) non è esattamente il vero contenuto della reciproca educazione – per cui quell’intrattenere carezze o buffettoni, a seconda, e quel liquido divenire con cui si chiude il passaggio appena precedente produce il reciproco plasmarsi che trova poi spazio nel passaggio seguente quasi come il seguitare di un pensiero.
1
Ma non temere, scriba,
tu non mi sei, io non ti son maestro.
Nulla ci insegniamo che rimanga
all’uno o all’altro, o ad altri ancora
per aprire una via. Tu non vuoi
sapere. E mi assicuri che non vuoi.
Né altro ho io che già non sia ai tuoi occhi
noto. Non mi segui dentro
la voliera del vuoto e del silenzio.
Tu sei abbastanza scaltro
per contentarti. Esegui.
[LUDG, AR – SEQUENZA PRIMA, Manni Poesia 2020]
Proviamo a tirare un po’ di somme.
Il TU è percepito come avversario anche se via via si rivela essere uno sparring partner, ma il vero punto è se esso si trovi fuori dal sé che dice IO o se invece non stia dentro, IN SÉ: talvolta si ha la sensazione che il degente sia il prigioniero sano in ostaggio ad un malato, e in questa sorta di trasposizione fictional si coglie un crogiolarsi dolente e appetitoso, forse l’umore più autentico che qui si “trova” e si prova per il SÉ narrato. Fioccano parole che definiscono il tono di questo racconto come schiocco e tenebra. Tutto concorre a farci pensare che nel libro circoli una malattia oltremodo gustosa, una sorta di identità contemplativa dell’IO che sia uscito dalla vita attiva per contemplare gli altri, e la stessa vita. Sono evocate le torri gemelle: nulla a che vedere con l’11 settembre – si tratta di una figura architettonica che suggerisce anzi rafforza l’idea di tandem, ciascuna torre si rispecchia nell’altra e ciò instaura il colloquio. Si affaccia un’idea di vecchiaia che come già in TSEliot (nei Four Quartets) non era di per sé garanzia di saggezza, semmai di apprezzabile decrepitezza. Nel primo frammento che abbiamo riportato mi sembra sintomatico il passaggio, “[…] nuda scivola la nuca […]”, ecco lì la decrepitezza si vede tutta, è mostrata con fare smagato. Eliot affiora anche altrove, come Dante che addirittura detta l’andamento fraseologico, prosodico, in alcuni passaggi, se non in certe immagini. Ma ciò non esclude momenti montaliani: “[…] Vi cercherete ciechi sopra il muro, / come timidi gechi pattugliando / il giorno e i suoi improvvisi / nidi d’ombre” (14. SEQUENZA PRIMA). Questa sensazione dell’IO, più che custodito e sorvegliato o vigilato, addirittura abitato da un TU dedito al controllo, in certi momenti, diventa una suggestione fortissima. Ciò non esclude la dicotomia ma dà un’idea di compresenza interna in cui il doppio include ad esempio il confronto e raffronto col padre. Esistono passaggi di poesia negativa in cui la figura del vegliardo insiste su un’idea di vecchiaia come prossimità alla morte: dunque il discorso, al fondo di tutto, è con la morte. Un sospetto rafforzato dai versi finali della SEQUENZA SECONDA in cui arriva al culmine la descrizione di una umanità museale, folla di morti in vita ben vestiti, “ombre del mondo”(39.): poco dopo anche l’occidente è decodificato come sinonimo “tecnico” di decadenza.
Cos’è dunque “l’ultimo turno di guardia”? Non è in realtà il turno più sfiancante nel tempo assegnato al sorvegliante ma è l’estremo lembo di vita viva assegnato al vegliardo, che implica lo scrutare.
40. Non contraddirmi, scemo. Ma di latte / in polvere stordiscimi e sciroppi. / Di analgesiche pappe sei maestro. / Disfamigliamo i troppi. Di chi sei, / tu che mi imbocchi? Chi può dirti “suo” / e disegnarti col destino di Isacco? / Clandestino t’accompagni a clandestini / di bivacco in bivacco. [LUDG, AR – SEQUENZA TERZA, Manni Poesia 2020]