Il maggior studioso – o meglio, appassionato – della poesia del nostro poeta di oggi è stato Elias Canetti, attratto dalla figura di Avraham Sonne, noto solo sotto pseudonimo (Abraham Ben Yitzhak): ipnotizzato dalla singolarità di Sonne-Ben Yitzhak, dalla sua volontà ferrea di scivolare per il mondo senza destare attenzione, chiuso in una sorta di silenzio volontario che non era una scelta di chiusura alla vita pubblica per dare largo volume solo alla dimensione privata ma era una precisa intuizione del valore della parola e della poesia.
Cioè, della parola nella poesia. Della parola quando si fa poesia. Della parola poetica.
Inverno lucente
Puro e duro e bianco è il mondo.
Dal nord il vento ieri ha messo in fuga
sogni di nebbia
cieca ed errante
senza fine…
Oggi il vento trattiene il respiro.
Neve abbagliante all’intorno,
e ombra cerulea di monti
cieli azzurro pallido,
vibrano nella propria luce.
E nell’ombra –
preso nel suo splendore di gelo
si distende il fiume,
quasi corazzato di squame –
scuro smeraldo di ghiaccio
dalle nevi splendenti,
sino a che si perde il suo dorso
verdognolo e tortuoso
laggiù lontano…
dove la luce del giorno ha preso fuoco,
con un bagliore dalle bianche fiamme —
come se il sole fosse caduto
sui blocchi informi di ghiaccio
dal duro cristallo
e si fosse infranto…
Chiudo gli occhi.
In me il sangue giubila
e mi risuona nelle orecchie:
puro è il mondo.
Mi sembra: [cioè, pare a me, ndr]
insieme al cuore della terra,
pulsa in me il cuore;
e scorre assieme ai rivoli
che fluiscono sotto la crosta ghiacciata.
Puro… il mondo…
puro…
[Adar 5663 (febbraio 1903]
Tutto ciò che qui riporterò proviene da un volumetto meraviglioso edito da Portatori d’acqua (casa editrice di Urbino) a giugno 2020, Avraham Ben Yitzhak, Poesie, con un saggio di Lea Goldberg, che vi invito a cercare e leggere: un vero scrigno, un pozzo d’oro, una cornucopia di storie memorie e versi.
Subito alcune notazioni.
Nel testo sopra riportato notiamo un uso della punteggiatura in cui troviamo i puntini sospensivi, i trattini lunghi (hyphens) e corti ma in sequenza di tre (come i puntini di sospensione), l’uso del “ ; “ (punto e virgola – raro nella poesia, persino immotivato), riportati fedelmente dall’ebraico in cui i testi sono composti (traduzione e cura del volume di Anna Linda Callow e Cosimo Nicolini Coen).
Questo testo è uno dei pochi scritti da Avraham Sonne alias Abraham Ben Yizhak, una decina in tutto pubblicati in vita, e altri pochi ritrovati tra le sue carte e pubblicati postumi.
Questo testo in special modo, in un recente confronto con un esperto traduttore su The Waste Land di T. S, Eliot, mi “è servito”, diciamo così, per mostrare che nel famoso incipit,
The Burial of the Dead
April is the cruellest month, breeding
Lilacs out of the dead land, mixing
Memory and desire, stirring
Dull roots with spring rain.
Winter kept us warm, covering
Earth in forgetful snow, feeding
A little life with dried tubers.
-la parola earth, non solo per relazione al senso letterale ma per la forza del contesto, sta per crosta terrestre, perché tutto il brano –a dispetto del proclamato nichilismo della voce poetica– indica la rottura di una crosta dura a favore della tenera gemmazione della nuova vita. E nel testo di Sonne-Ben Yitzhak come nel cinico testo di Eliot la stagione è chiaro riferimento alla condizione umana asciutta, rinsecchita. In Sonne-Ben Yitzhak il testo è esemplarmente cristallino e limpido, terso, ma è anche decisamente più “caldo”, sebbene disperante. Ha dentro l’afflato di un sentimento se non di una passione, e un senso dopotutto di accettazione, di remissione allo spettacolo della natura e all’essenza della vita alla cui “lettura” proprio l’ebraico biblico gli dava accesso privilegiato e duro.
Il poeta Avraham Ben Yitzhak era nato Abraham Sonne nel 1883 in Galizia, nei Carpazi. È poeta di lingua e formazione ebraiche, e faceva parte di una vera propria comunità di intellettuali e scrittori galiziani di cultura ebraica. La sua stella poetica fu subito riconosciuta da un suo mentore, uno studioso di Leopoli,, il quale gli preconizzò un grande avvenire, ma non aveva fatto i conti con la riservatezza estrema di Sonne-Ben Yitzhak.
La questione non era tanto di impatto sociale, o di ritrosia personale.
Era piuttosto una questione ben più specifica, e dopotutto alta.
E rientra un po’ nel nostro discorso sul silenzio.
Lea Goldberg, poeta a sua volta di grande calibro non solo nel panorama delle voci ebraiche, autrice di una biografia di Sonne-Ben Yitzhak, ha involontariamente contribuito a creare “il caso” Sonne-Ben Yitzhak arrivando a scrivere che, “–davvero la letteratura non lo interessava , lo interessava la poesia, come fondamento della realtà, come fondamento del mondo”, ragion per cui Ben Yitzhak non solo ha scritto poco ma scriveva anche controvoglia. E come scrive Hannan Hever nel saggio “In un’aura di tripudio” (tradotto dall’inglese da Francesca Frulla), “–con l’andare del tempo, Sonne-Ben Yitzhak trasformò il silenzio e la solitudine nei principi cardine della vita”.
Quando impallidiscono le notti
In queste bianche notti di sogno
sognate da un mondo stanco
il tempo silente ascolta il suo battito,
mentre le fonti giubilano
celebrando la propria essenza.
Passato e futuro si pacificano
una quiete eterna nel presente –
nel silenzio della tua vita
tacciono le stelle,
e un vento sgorga dall’eternità –
–e i tuoi occhi si spalancano.
Beati coloro che seminano e non mietono
Beati coloro che seminano e non mietono
poiché vagheranno più lontano.
Beati i generosi la cui splendida giovinezza
aumentò la luce dei giorni e la loro prodigalità
e si spogliarono dei propri ornamenti – sui crocevia.
Beati i fieri la cui fierezza oltrepassò i confini
[della loro anima
e diventò come l’umiltà del biancore
dopo il levarsi dell’arcobaleno in mezzo alle nuvole.
Beati quelli che sanno che il loro cuore griderà
[dal deserto
e sulle loro labbra fiorirà il silenzio.
Beati loro perché saranno raccolti ne cuore del mondo
coperti dal manto dell’oblio
e la parte loro riservata sarà il tamid* senza parole.
[*sacrificio quotidiano offerto
nel Tempio di Gerusalemme]
Non so più chi sono…
[questo titolo proviene dal Cantico dei Cantici]
[è una citazione dalle scritture]
Sono i giorni della vendemmia e di quei cieli
[in gran movimento.
È il tempo in cui la terra irradia una luce dall’interno,
e nubi scarse e dalle grandi ali
sono trascinate lontano in un turbine –
e si raddoppia allora il pallore della tua casa solitaria
in mezzo al verde scuro del bosco,
e mi chiama allora con le sue finestre:
nel mio cuore c’è un rifugio,
dalla tempesta.
E quando siedi così di fronte al caminetto,
e il suo oro volteggia
su questo tuo capo castano e obliquo;
la luce ti scorre tra le dita
e nello specchio nero del tuo vestito di seta
danza lo splendore della fiamma.
Ardono in silenzio le mele sulla tavola,
una corona di grappoli d’oro trabocca oltre
[il bordo del cesto,
e la benedizione effonde il suo profumo ricolmo.
Tuona e strepita il bosco
e dolce è il suo canto
nel silenzio
dell’angolo che ti è caro.
Io e te –
sopra di noi,
il fragore dei mari.
Siamo nascosti
come due perle
nel loro ricamo
sul fondo del mare.
Non so più chi sono –
l’anima satura di silenzio,
guarda: vibrano le ali del mio spirito…
Torna e strepita il bosco
colpisce le sue onde il vento
e perché il tuo sguardo tremante su di me
[si posa.
Tu sei la benedizione,
il riposo –
e incontro alla mia anima urla la tempesta…
Ascolta il fragore di flutti imponenti nel bosco,
è accorsa la terra e ciò che contiene,
il mondo ha denudato tutta l’anima sua
davanti al Signore nella tempesta.
[Vienna 5669 (1909)]
Sono estremamente significative certe immagini che ricorrono, non solo perché indicano dei luoghi e certi dettagli (il bosco, la tempesta, il vento negli alberi, le scene rurali di vita tranquilla e ordinata, e poi i flutti, gli urli del vento che sono urli dell’anima, le onde come fossero maree d’aria) ma perché alludono a un desiderio che è quasi una disperata richiesta: la pace, il riposo, il silenzio. Per converso evocano il fragore del mondo, le sue folate malandrine che catturano e frullano via le creature, il mondo rumoroso, sferragliante come una macchina spaventosa che aggancia e macina le vite innocenti. È un pensiero questo molto primonovecentesco e molto ebraico, formulato da chi si muove sullo scenario di un’Europa che si prepara alle sue tragedie immani. Allora il silenzio e quel vivere nascosto che Sonne-Ben Yitzhak ha perseguito con ostinazione assume il senso di una forma di riparo e di raccoglimento che prepotentemente mi è tornato in mente leggendo alcuni passi dall’ ultimo romanzo di Flannery O’Connor, The Violent Bear It Away – Il cielo è dei violenti, di recente ben ritradotto da Gaja Cenciarelli per minimum fax:
Pensava solo a salvarsi dalla trappola più grande e più pericolosa che gli era stata tesa.
Dalla prima notte in città, […] la sua mente aveva ingaggiato una continua lotta col silenzio
che lo sfidava e pretendeva che lui […] iniziasse a vivere secondo i principi […] che [gli erano
stati, ndr] insegnati.
Era uno strano silenzio interlocutorio. Sembrava stendersi attorno a lui come una terra invisibile
di cui […] abitava i confini , rischiando continuamente di varcarli. […] quella campagna silenziosa
sembrava riflettersi di nuovo al centro dei suoi occhi. Vi si stendeva, sconfinata e limpida.
[…] Ogni volta che provava [una certa] tentazione, sentiva che il silenzio stava per circondarlo, e
Che lui vi si sarebbe perso per l’eternità.
Il problema del personaggio della O’Connor è la volontà di onnindipendenza (una strana alternativa all’onnipotenza divina in accezione umana) e poiché il ragazzo, anche un po’ comicamente, vede un possibile fonte battesimale in ogni fontana rivolo o pozzanghera (ecco che torna l’acqua) gli è inflitta una terribile sete: soddisferà l’arsura lasciandosi offrire una bevanda drogata che lo tramortirà permettendo a chi gliel’ha offerta di spassarsela con lui a sua insaputa.
La compresenza di tutto e niente nella persona di Sonne-Ben Yitzhak è raccontata soprattutto da Elias Canetti che gli fu amico e lo ammirava, “Sonne sapeva tutto ma non teneva niente come proprietà personale. Aveva letto tutto ma non l’ho mai visto con un libro in mano. […] Da Sonne, che sapeva parlare nel modo più esauriente e articolato, ho appreso che cos’è il silenzio. Lui solo mi ha dato il desiderio del silenzio, e se per me il silenzio è irraggiungibile e rimarrà irraggiungibile – non potrò tacere neanche nella morte –, so tuttavia, grazie a lui,che cos’è: la migliore delle cose.”[Il gioco degli occhi (Das Augenspiel), Adelphi Milano 1985 – traduzione di Gilberto Forti].
“Non voleva che si parlasse di lui in pubblico”, ci rivela Lea Goldberg nella sua biografia di Sonne-Ben Yitzhak che si chiama Incontro con un poeta [(Pegishà ‘im meshorer, 1952) il poeta era morto a Gerusalemme due anni prima], “Davanti al suo nome stampato assumeva un’espressione di sofferenza e disprezzo.” [Chi invece non si farebbe ammazzare pur di vedere il proprio nome stampato in calce a un articolo o sulla copertina di un libro?] […] “Egli non scrisse né raccolse in un’opera la maggior parte di ciò che aveva da dire: lo disperdeva e donava a chi aveva occasione di trovarsi con lui. E noi abbiamo peccato a non annotare…”. […] “…quando si trovava ad analizzare un libro, una poesia, un saggio, ne disvelava i tratti fondamentali con amore, arguzia, comprensione – e con quel rapporto tra gli enti che è possibile solo a un poeta. […] Nella grande disperazione in cui visse per numerosi anni della sua vita, non credeva che molte orecchie* umane fossero ancora in grado di prestare ascolto a quel fondamento della realtà [che era per lui la poesia, ndr]. Era questa, probabilmente, una tra le ragioni del suo silenzio”. [*è irresistibile (per me) ripensare qui al detto ebraico, “I muri hanno orecchie”, che in realtà fa riferimento al Muro Occidentale, il Kotel – ne riparleremo…, ndr]
Riporto qui una manciata di versi tratti dalla sezione di Appunti, frammenti, dal volumetto in esame in questa puntata che raccoglie tutto il poco che esiste di questo grande poeta in lingua ebraica, Sonne-Ben Yitzhak, il quale dicono somigliasse come una goccia d’acqua a Karl Kraus,
Il giorno ha vagato su terre e mari
finché non è giunto a me
e anche se mi hai riempito d’amarezza
non mi hai mai fiaccato
***
Che cos’è stato
che cosa sgorga da sotto la sofferenza dei giorni
cos’è lo sbocciare della primavera
che ho dimenticato
bimbi nei giardini
giubilano*
benvenuti
i giorni e la giovinezza
la benedizione di chi cammina
sotto i suoi cieli
che si spengono.
[*il verbo ‘giubilare’, come si vede, ricorre, e credo possa ricondursi all’uso dell’ebraico biblico che in binomio con la centralità della natura, c’informano i curatori, costituisce il fulcro della poetica di Ben Yitzhak, ndr]
***
Così fu l’inizio della nostra nostalgia
come un ramo che fiorisce di fronte all’aurora
come fiori
come la vergogna di una terra intrisa di sale.
***
Tutti gli uccelli sono volati
nella gialla lontananza
tutte le mani hanno mollato la presa
si sono ammutoliti [ndr] tutti i partecipanti al banchetto