#perilversogiusto
A TWISTING GAME: CUORE ALLEGRO
– L’esordio in poesia di Viola Lo Moro.
Straripare
Nel luogo immobile
della parola che non ti ho detto
si è compiuta la strage
delle altre.
Tipo
amore
mio
per te
con te
strariperei il mondo
di noi.
“Il sonno delle amanti”
Il sonno delle amanti
allaga l’intercapedine tra I corpi.
Il tempo di rottura della diga del sonno acqua
non si può prevedere
annaspa la bocca e rilascia i polpacci.
Un cedimento delle acque profonde:
entrano insieme le amanti
nell’utero caldo.
Può compiersi così l’abbandono,
con resa. Ricordi
la fatica a rincorrermi
mentre scalpitavo lontano?
Un conto aperto dal macellaio
saldato all’idraulico.
Questa premorte architettata
di furia
dopo la voglia di crescere
il sudore nell’incavo
la bava sulla clavicola.
Il sonno delle amanti
è la lumaca bagnata assopita
accumulata con le altre al confine del vaso
di una pianta seccata da poco
è il sonno che arriva noncurante
i muscoli tesi nell’atto feroce
del tenersi insieme.
Da tempo ci chiediamo quale movente cruciale spinga, per usare le parole di TSEliot, il momento alla sua crisi, facendo emergere dal silenzio la parola che infrange la parete tenace e trasparente da cui essa irrompe – e ancor di più scioglie il dilemma, poetare o non poetare: qui sta tutta la faccenda al centro dei nostri rimuginii in presenza di un esordio nel luogo letterario più spinoso in assoluto: la poesia, appunto. Poco più facile (forse) rompere il ghiaccio in prosa.
Con Cuore Allegro (Giulio Perrone Editore, Roma Ottobre 2020), Viola Lo Moro varca la soglia della parola poetica. Nella sua articolata introduzione, Elvira Seminara annota: “Le parole sono arnesi, strumenti sul corpo, perché tutto – anima e verbo – è materia, sostanza viva che fermenta, si apre e si decompone”. Non si può che concordare con questa notazione che individua bene uno degli elementi forti del dettato nelle poesie di questa prima raccolta di versi della Lo Moro: l’aver assegnato ad alcuni elementi materiali, come l’acqua o le lacrime che di acqua sono fatte, alla saliva, ai denti, al rigurgito che risale l’esofago e si affaccia, a capelli come fili e come spilli, il compito di farsi traghettatori non solo di una vita nel mondo ma anche di una percezione del mondo e della vita. Ma ciò che davvero colpisce in questa raccolta in quattro parti è da un lato la natura cangiante degli elementi della scrittura, dall’altro una nominazione che cambia le carte in tavola mentre le cala in figure di scale come in un gioco d’azzardo che corre consapevolmente e avventatamente il rischio di definire il mondo mentre esso si muta in altro e si rivela senza preavviso.
Vale la pena vederne qualche saggio:
“Presenze”
“Tènere crescite mentre l’alba s’appresta”
[ndr.: questo verso è di Amelia Rosselli, e qui Viola Lo Moro ha cambiato “s’appressa” in “s’appresta”– siamo nella zona della raccolta di Lo Moro in cui significativamente si contraddice una “verità” fitzgeraldiana che è ormai un modo di dire corrente, “Tenera è la notte”, ebbene, a sostegno del deragliamento della nostra Viola, non poteva mancare la citazione da questo componimento della “Serie Ospedaliera”. E come qui troviamo lo stridore e la feroce altalena tra vita e morte, così nei versi della Rosselli troviamo la “disturbanza”, le risate che scherniscono l’angoscia e la perenne ansia, e poi l’altalena, ancor più drammatica, tra tensione e noia]
sono serpenti neri.
Entrano dallo spiraglio della porta
risalgono strisciando l’orlo del lenzuolo
lì fermo al confine del piede
mi rannicchio – feto nella resa –
[ndr.: un’immagine molto forte, efficace]
non hanno zampe.
Sono solo sogni.
Sparisce l’orizzonte
appare il gabbiano contorto nello spasmo
della caccia
contro l’urto del vento contrario.
Per identità (il principio intendo)
vedo corvi.
***
“Inconscio”
L’inconscio è un cesto colmo di feti prematuri.
Posso prenderne a piene mani decine
morenti o già morti.
Posso provare a distinguere chi
salvare
e chi
Buttare.
***
“Sogno”
Esterrefatta contemplo l’emergere
di orche – guizzo d’amore per l’assassina –
balene
gigantesche tartarughe
un tirannosauro.
Nella stanza vuota dalla grande finestra
osservo il mare in tempesta.
Dal mare maestose emergono
[ndr.: fantastica questa allitterazione in M, mammifera, femminile, benché…]
presenze
primitive.
[…]
[ndr.: questo mare, che, nei versi che qui ho omesso, poi ribolle, è un motivo anche woolfiano: il mare come grande arca d’acqua, come cuna amniotica, come sorgente di vita e come grande grembo dove inabissarsi e dirigersi verso la non vita]
***
“Lista”
Acqua distillata
caffè aceto
al mercato
sale grosso
detersivo lavastoviglie
la macchina è lì
quella del caffè invece sul fuoco
ennesima lista
di ennesimo giorno di mia
non morte.
È evidente, anche qui, non solo la natura cangiante (forse traditrice, anche) di tutte le cose, che cambiano,si mutano in altro sotto in nostri occhi (noi in affanno nel tentativo di definirle, come accade nei sogni, in cui un gatto nero può trasformarsi in un lembo di stoffa inanimato), ma anche la percezione e il rapporto con tutto ciò che è instabile e mutevole, e pauroso in ultima analisi, tanto che, come l’acqua ha attratto e infine catturato Virginia Woolf (sorella maggiore invocata qui da Viola Lo Moro) per indirizzarla alla non-vita, così Viola Lo Moro chiama la vita non-morte. Con una idea di sopravvivenza drammatica, nominata infine apertamente in alcuni versi del libro:
da “Terremoto”:
il terremoto è l’espressione ultima
dell’eccesso di compressione.
– Io lo sento. Io ti sento –
Chi resiste alla gravità può forse tentare
di sopravvivere.
Desumiamo attraverso queste poche note che sia continua, come è d’uopo, la traduzione dell’intensa esperienza della vita in una rete di sintomi e indizi, cioè immagini-chiave, che non solo alludono al senso e alla ricerca di significato perseguita nella scrittura come nella vita, ma che rendano conto della sua instabilità. Nella provocazione o provocatorietà indomita, dimostrata nella composizione, come segno netto di rivolta militante e rivalsa sul senso comune, Viola Lo Moro dimostra di affidare anche alla scrittura, e non solo alle numerose battaglie, culturali, civili personali, una fiducia di poter cambiare le cose, pur constatando, proprio nella poesia, che le cose cambiano da sole, sotto i nostri occhi stupiti, e che le carte in tavola mutano in continuazione, aggiungendo, al disorientamento ma alla volontà di venirne a capo, una chiara natura di imprendibilità. Che non è della scrittura soltanto ma è dell’esistenza.
“Segni”
Prima di dormire
facevo dei segni sulla parete.
Mi giravo di fianco
scalfivo l’intonaco
con un puntello.
Viola v V v vio la A
(in colpa con il muro
responsabile del danno
eccitata dal segreto)
Davanti a una pittata rupestre
ho pianto:
sono stata io?
Sessantaquattromila e trenta anni fa
ripetevo il rito scaccia morte martoriando un muro.
Facevo una cosa antichissima
e non lo sapevo
posticipavo solo
in via temporanea
l’angoscia di non sapere
chi dove cosa perché.
E poi dormire.
L’indizio di questa natura cangiante latente, certamente transeunte e in bilico, di “tutte le cose visibili e invisibili”, come Lo Moro ci ricorda citando versi liturgici, sta proprio in certe figure: lo spillo della notte che capovolge la notte tenera in una notte appuntita e uncinata, lo spillo che si confonde col filo ed è poi assimilato alla saliva, e riaffiora qua e là anche come capello, e spesso, affiorando è materia acida da stridore o ghiaccio nei denti. Ovunque emerge l’acqua come flusso, goccia a goccia, nella flebo-metronomo, che richiama l’altro liquido che fluisce nelle vene, il sangue: in una corrispondenza volante di chiaro andamento pindarico, alla rosselliana “disturbanza”, s’associa la lomoriana “complicanza”. Il sangue, le battaglie truculente, che sono generazionali ma anche amorose, sono tirati in ballo anche in uno degli esergo:
Always / in the middle / of our bloodiest battles / you lay down your arms / like flowering mines // to conquer me home – una poesia bellissima di Audre Lorde, che fin dal nome ha voluto indicare il proprio femminismo e la propria omosessualità, oltre che il fatto di essere nera (lo spelling corrente del nome in genere è AudreY, la pronuncia resta uguale però lo spelling adottato è volutamente neutro). La poesia si chiama Love, maybe – Viola Lo Moro l’ha senza dubbio scelta per una palese sorellanza con la poetessa americana,
Un altro elemento che vorrei sottolineare per chiudere e lasciare a tutti voi il piacere di scoprire questo piccolo libro effervescente è un gusto che ho notato, di Viola Lo Moro, per i finali. Curioso, no? In genere i finali sono piuttosto individuati nelle prose narrative. Ebbene in questi testi è efficace e risolutivo il modo in cui l’autrice chiude il discorso spesso con una graffiata di gran carattere.
Per esempio in “Tenera è la notte” (un finale personificato):
Ora tenera non pensavo la notte:
se al risveglio sapessi
il lavorio dello spillo
al suo fermo immagine incastrato
prenderei su di me
il tuo incubo ricorrente.
Oppure in “Tramestio”:
Ti vedo già vecchia [ndr.: chi non pensa qui a “Un giorno credi”?]
già vecchia così viva
mentre io già morta
potrei rabbrividire – è la tua disperazione
o è il nuovo freddo a rianimarci? –
nell’ultima ora
dell’ultimo istante dell’ultimo giorno
dell’ultima sera dell’ultimo fiato
dell’ultima parola scritta.
Oppure in “Il Giorno”:
[…]
e il giorno può cominciare con me
come un ferro da calza spinto a forza nella lana.
O ancora in “Cuore Allegro”,
il componimento che dà il titolo alla raccolta:
Un filo da pesca in trazione
stirato più di un capello bagnato
sarebbe più facile dirti di sì
che sì, lo tengo
sarebbe semplice mentire a un morente
ma non prima di udire il contraccolpo
del filo spezzato.
Tengo il cuore allegro.
Ecco, leggete Cuore Allegro, e provate anche voi la vertigine, l’ebbrezza brillante, la provocazione vivida di un twisting game* che appunto muove altera modifica la materia del poetare modulandosi sulla cangevolezza (!) dell’esperienza e dell’esistenza, senza che a noi più di tanto sia dato modo di governare. La vita come la letteratura è sempre una appassionata navigazione d’altura. E Viola Lo Moro, benché si schermisca, sembra saperlo bene, o perlomeno saperlo “trovare” in poesia, in versi.
“Giochi di lingua”
L’orgasmo mi è rimasto
sulle labbra.
***
“Compost”
Siamo diventate visioni.
Noi due rattrappite nel fondo della terra
il compost dell’anima.
***
Madre
Non sarà
mai
come te
per questo pagherò
ogni giorno
la mia offesa.
La fotografia è di Chiara Pasqualini