Cinque dita minuscole e perfette

Alle due e mezza di pomeriggio tutte le imposte della vecchia casa gialla venivano chiuse e i suoi abitanti andavano a riposare.

Alle due e mezza di pomeriggio tutte le imposte della vecchia casa gialla venivano chiuse e i suoi abitanti andavano a riposare. Da sua nonna le regole non si discutevano. Una volta sola aveva provato ad alzarsi di nascosto, e lei l’aveva rinchiusa in camera al buio da sola. Poi, le aveva fatto promettere di non dirlo a nessuno, se no l’uomo nero l’avrebbe portata via dentro la montagna.

Al mare tutti si crogiolavano al sole, quello cocente e vietato, e si buttavano in acqua: riusciva quasi a sentirla strofinando i piedini sulle mattonelle fredde e pensandoci forte. Ma forse era solo il fresco del corridoio arieggiato al mattino e mantenuto dalle mura spesse della casa e dagli alti pini intorno. Voci e rumori estivi arrivavano dal mare al di là della strada e si confondevano tra le piante sempreverdi del giardino senza attraversare i muri, assorbiti all’esterno insieme al calore. Dentro la casa tutto si fermava in uno spazio sospeso.

Dormivano tutti, doveva fare piano più del silenzio. Conosceva la punizione e il buio la terrorizzava. Ma aveva deciso di andare da lei: non ce la faceva più ad aspettare. Ormai c’era da un mese, Emma, li aveva contati i giorni.

Di pomeriggio la mettevano nella cameretta proprio di fronte alla stanza di nonna. Che si addormentava di sasso ma un nulla la svegliava. Russava come un trombone, aumentava man mano che Sara si avvicinava. Le gambe le tremavano sempre di più, solo un filo di luce da sotto la porta.

L’aveva spinta piano, un’altra occhiata dietro. Di fronte, la luce: dalle imposte socchiuse filtrava prepotente tra le fessure delle persiane di legno verde.

Con cautela, Sara seguiva il raggio che si allargava dritto sul pavimento di mattonelle grigie e fredde, spargendo quel pulviscolo quasi fatato.

Pochi passi alla culla. Emma, addormentata placida nell’ombra estiva. Forse, complice della sua curiosità.

Voleva vederla da vicino questa sorellina nuova. Le era corsa incontro appena arrivata a casa, tutta incartata nella copertina col caldo che faceva, gliel’aveva tirata giù e per poco non la faceva scivolare dal seggiolino. Mamma aveva cacciato un urlo e l’avevano portata di là, nonna, solo un sibilo e dopo le aveva detto una cosa brutta brutta che mamma era stata male per colpa sua e se continuava così alla fine sarebbe morta e quindi anche la sorellina. E che a lei non ci si doveva avvicinare mai più.

I giorni passavano e mamma era sempre debole… – A te ci pensa nonna –, diceva, e Sara ubbidiva terrorizzata dalla minaccia che le succedesse qualcosa di terribile.

Ormai, la sua mamma di prima era tutta per Emma. Forse era venuta male, nella fabbrica di bambini avevano sbagliato qualcosa e ora toccava a lei pensarci. Papà no, era tornato a lavorare in città.

Non si toccano i piccoli, ripeteva la nonna, si guarda da lontano. Giù le mani, ma lei mica le alzava, voleva solo controllare che Emma fosse tutta a posto.

Aveva avvicinato piano la sedia di vimini, ballava ma pesava meno di quella di legno e a terra faceva meno rumore. Si era arrampicata su e si era affacciata nella culla. Eccola. Gli occhi chiusi in un sonno beato, una specie di sorriso e un sottile rivolo di latte o saliva vicino alle labbra rosa, nella culla bianca coi bordi di pizzo. Troppo pizzo, brutto, la nascondeva. E a spostarlo rischiava di caderle addosso. Era bella, i capelli appena arruffati sulla fronte e le manine chiuse.

Stringendo i denti, Sara le aveva aperto delicatamente il piccolo pugno. Cinque minuscole dita, come le sue solo molto più piccole, perfette, c’erano perfino le unghie, trasparenti. Sotto il lenzuolino due gambine paffute con un paio di piedini piccolissimi pure con le dita giuste.

– Dai, vai bene, pensa noi quattro tutti insieme… Strano, quattro. Io ero una, e ora, due.

– E guardami! Niente. Volevo salutarti, non sono gelosa come dicono, che vuol dire poi, giusto una carezza e me ne vado.

Voleva sentire la sua pelle, l’odore le piaceva sapeva di latte e pulito, liscia e morbida come una pesca, l’aveva sfiorata piano, sulla guancia tonda e ancora più delicatamente sulla fronte.

– Ferma! – La voce della nonna, come uno schiaffo.

– Non toccarla!

Ma perché?

– Via quella mano, non farle male.

– Nemmeno l’ho svegliata.

A tre anni Emma parlava bene, ma solo un soffio le era uscito dalle labbra serrate di paura, le parole giù in gola. Aveva allontanato subito la mano dal viso di sua sorella. Che in quel momento aveva aperto gli occhi, e l’aveva guardata.

– Eccomi, anche io volevo conoscerti.

La nonna le aveva già afferrato un braccio, tirandola giù dalla sedia. L’hai svegliata, ora piange per colpa tua.

Ma Emma non piangeva, stavolta non era stata la solita fame a svegliarla ma solo un soffio di amore.

– Torno presto, e tu appena cresci un po’ vieni di là, ti aspetto.

Un attimo e la nonna, seria e rabbiosa, aveva allentato la presa. E Sara se ne era tornata di là in silenzio a passi veloci sul pavimento un po’ meno freddo, e si era infilata nel suo letto, a contare i giorni che mancavano a sabato, che veniva papà.

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Claudia Dalmastri

Con la passione per la scrittura come veicolo di emozioni insieme a uno sguardo scientifico, Claudia Dalmastri, microbiologa in cerca di nuove forme di espressione, ha pubblicato numerosi racconti su riviste e Antologie e tre libri: "Avanzi c’è pasta e... altro ancora. La cucina ai tempi della crisi" (Progetto Cultura, 2015); il romanzo "Le cose che non si devono dire" (Il seme bianco, 2018); "Disreality" (Ensemble, 2021), raccolta di racconti distopici. Alle sue opere sono stati assegnati diversi Premi letterari.

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