RENZO PARIS testimone e flâneur

Testimone e protagonista di diverse stagioni letterarie

#perilversogiusto #vestestiva

RENZO PARIS. Lo abbiamo già incontrato in queste pagine a stretto contatto con Amelia Rosselli, non in veste di poeta allora ma come memorialista e (auto)biografo potente nel dare nuovo smalto al ritratto di Miss Rosselli in cui ha incorporato con sapienza anche il proprio autoritratto di flâneur. Stavolta ci occupiamo di lui come poeta in proprio ma naturalmente non solo.

LE PAROLE STANNO A ZERO

a Rossana Rossanda

Siamo nel vento, profetessa di sventure,

non ancora però alla bufera e perciò

vuoi attrezzarci a più solitari geli.

Intanto mi è venuto il mal di denti

dopo tre giorni di congresso. La

tramontana era di quelle schiette.

Mi sono dovuto infilare la cuffia di lana.

Allo specchio sembravo un vecchio giacobino.

Diceva bene l’operaio che ha parlato,

il solo, tra tanti piccolissimi borghesi

in rivolta: “Cancelliamo le università!

Le parole stanno a zero!” Cancelliamole

pure, mi veniva di approvare, le università

delle parole.

Sono risultate tre linee: quella dura, quella

morbida e quella dell’accurata mediazione.

,ma ditemi, qual è la dura e la morbida è

proprio quella che appare?

La poesia divide, concordo, ma la politica,

compagni, dilania. Dov’è finito il tuo migliore

amico? E il tuo dov’è?

La poesia, viceversa, è sempre qua.

Non si muove d’un passo. E ben vi sta.

[da ALBUM DI FAMIGLIA, Guanda 1990]

Non sono né giovane né vecchio

ed è come se sognassi, in un meriggio

di sbronze, entrambe le età. Eppure

sono vecchio. In una nicchia dorata

l’autunno cede il passo all’inverno,

coperto di tenebre e sonno.

La parola perdono che senso ha

per me, inetto, senza alcun progetto?

Il sesso, il potere, mi fanno difetto.

Eppure sono giovane, mi batte il petto.

Mille voci si rimescolano il sangue.

Al mattino mi alzo sempre più presto.

Non sono né giovane né vecchio, sogno

come un demente, queste due età infinite,

immerso nel secchio del vino delle aurore,

in un tempo bambino. Sono vecchio, sono

vecchio, eccomi pronto per le sterminate

eternità.

[da IL FUMO BIANCO, Elliot 2013]

LA VOCE RITROVATA

Come sarà il mattino di domani,

sarò ancora in piedi e la poesia

sarà pur sempre una cosa da ragazzi?

Lo chiedo a te mia Sibilla,

accucciata sopra un platano frondoso

del Lungotevere, che come un fuso

volteggiavi blu, con il muso serrato,

in quel polveroso ballo del Settantatre.

Sfoglia adesso, mi dici, le crude primavere

invernali, le schizofreniche estati autunnali,

dove termina ciò che non ha mai avuto fine.

Albeggia, il canto dell’allodola fuga

Le ombre della notte. Vita mia, presto

Volerò da te. Ma io perché indugio,

che cosa mi trattiene ancora?

[da IL MATTINO DI DOMANI, Elliot, 2017]

Poco dopo aver lasciato la sua Celano (AQ), cioè la Marsica fucense, all’inizio degli anni Sessanta, Renzo Paris fa il più significativo dei molti suoi fortunati incontri: Alberto Moravia, che apprezza subito la sua poesia e coglie subito, anche, la varietà e la completezza dei suoi interessi tra politica e storia, e in termini di letteratura tra autobiografismo e saggio personale, romanzo e biografia in cui Paris include se stesso, voce narrante e attore. Questo crogiuolo di azioni compositive riunite nella sua persona ha permesso a Renzo Paris nel tempo di farsi testimone di diverse stagioni letterarie, di cui peraltro è stato in prima persona uno dei protagonisti.

Entro e esco con la fretta vorace d’un bambino dalla vita privata a quella pubblica,

sul trenino di una sgangherata terzina, affollata di folletti che non conoscono pace.

Entro e esco da una storia all’altra. Come lo scaltro coniglio di Alice, saltellando qui

e là non trovo pace. Se in un lago mi specchio non mi vedo e a passi lenti mi allontano

sognando rapace la realtà, che mi inghiotte come una fornace i suoi tizzoni ardenti.

–così leggiamo in Il mattino di domani, Elliot, 2017, una raccolta che Paris ha organizzato quasi con passo dublinese, à la manière de James Joyce in Gente di Dublino: scandendo le età della vita e segnando il confine tra l’io privato e l’io pubblico, ma senza abbandoni lirici –con l’approccio smagato invece, e un divertimento appena velato di malinconia, cioè con ironia consapevole, di chi esplora l’esistenza, di chi passeggia curioso nei paesaggi della vita, godendosi quadri e panorami, e apprezzando i vari compagni di viaggio: A volte mi trovo a passeggiare per Roma come un pastore abruzzese, così Paris (che ha nel nome Parigi, ma anche Paride che restò stregato dalla bellezza di Elena – Pasolini invece gli disse che in friulano, Paris vuol dire figlio) ha detto in una intervista sulla lunga militanza nella letteratura in tutte le sue forme (incluso saldamente anche il romanzo) anche come lunga militanza civile. In questa chiave Paris ha accontentato l’amico grande, Alberto Moravia, fotografato sia nella biografia  Una vita controvoglia (Castelvecchi) sia in Ritratto dell’artista da vecchio. Conversazioni con Alberto Moravia (minimumfax). Moravia gli ripeteva spesso con proverbiale fastidio che “lo scrittore deve essere completo”, cioè deve scrivere tutto – mettendolo in guardia però dall’invadenza della politica nella scrittura: “Gli artisti militano con le loro opere, non con le tessere”. E aggiungeva: “Hai sempre tenuto un po’ lontano da te il flusso della Storia. […] Caro mio, per un artista la Storia è un puro e semplice contenuto. È la forma, invece, a cui devi essere interessato”. Aveva buon gioco a dirlo., Moravia, già marito di Elsa Morante, di cui ripeteva: “Quando ha scritto La storia, io avevo già scritto La Ciociara da un pezzo”. Moravia e Paris discutevano parecchio.

Tutto questo lungo giro per tornare su due questioni a mio parere rilevanti riguardo al Paris poeta, e scrittore intero: la vocazione di testimone e reporter di una lunga stagione culturale che molto si è trasformata fino ad oggi; ancor più, la sua attitudine di flâneur, sulla scia di alcuni amati, e a lungo insegnati, poeti francesi: soprattutto Apollinaire e Baudelaire. Come loro, Paris vive e compone la sua ‘poesia a piedi’ oscillando tra due ‘forni’ (termine anche questo moraviano), cioè tra due sorgenti: l’Abruzzo e Roma – ma sempre propendendo per una poesia, e in generale una scrittura, chiara, non smemorata nei confronti della realtà né dispersa in forme chiuse e languorose di ‘buio’ e ‘inconscio’. Renzo Paris anzi si è rivolto alla poesia proprio quando il mondo intorno prescriveva il suicidio poetico. Per lui, e chi come lui, ha attraversato i decenni Sessanta e Settanta, ostili alla poesia in forme violente, l’unico soccorso è stato: “–soprattutto la rilettura dei classici latini: Catullo per primo, che mi ha invitato a rinominare l’amore. […] sia nei romanzi che nelle poesie io ho affrontato, a volte anche in maniera nevrotica, l’amicizia e l’amore (due sentimenti che negli anni Settanta proprio tutti volevano soffocare dietro etichette politiche). E poi i francesi. La poesia latina l’ho filtrata attraverso l’Apollinaire più sornione, che ho tradotto e ritradotto, dapprima consigliato da Pasolini. Sono il primo traduttore italiano di Gli amori gialli integrali di Tristan Corbière: una cosa di cui mi vanto da solo”. Ecco, è questo lo spirito che anima Renzo Paris, legato anche alla stagione di Castelporziano, una micro tradizione subito dispersa, subito precaria e improbabile, celebrativa e subito marginale.

Uno spirito serio e ironico ad un tempo, ripeto smagato. Vi lascio con una messe di versi tratti perlopiù da Il fumo bianco, perno centrale della trilogia in versi subito annunciata in apertura di questo intervento.

PASSEGGIATA

Forse perché del Novecento

non amo più niente,

a passi lenti e gravi misuro

le mura di questa città e i fori,

i marmi della latinità, evitando

di dar peso ai mezzi meccanici

che intasano  il grande garage della

modernità. Dopo lunghi silenzi interiori,

dico che la classicità va guardata di taglio.

Forse è proprio questa quiete a indicarmi

le vie piastrellate, le erbe calpestate

dalle bighe romane, che scivolano

veloci verso le ville sul mare.

Piccola notazione: l’attacco foscoliano trova conforto nella pervasiva influenza di Foscolo sull’intero componimento (“questa quiete”), poi è evidente che la strofa-chiave per Paris è la classica terzina ma con fare contemporaneo Paris adotta il taglio libero e non cerca di “chiudere” un sonetto, fermandosi al verso prima, peraltro solitario e allitterativo (e ‘bypassando’ sia la quartina inglese che il distico).

IL GATTO E IL MOSCONE

Dico al gatto di smetterla di rincorrere

il moscone. È inutile, è più veloce, vola.

Meglio attenderlo accanto al vetro,

quello scemo. Non vedi come ronza

felice, stupito di aver imboccato

finalmente la via di uscita?

LUCE DI MARZO

Passeggio tra palazzi umbertini dove

come guardiane fanno capolino

le mura aureliane. D’improvviso

mi coglie la pioggia argentina e sosto

sotto i cornicioni come un piccione

infreddolito. Ditemi in quali dorati cimiteri

riposano i baci perduti, le spente

passioni, in quale landa della mente

si accovacciano bruni, gli amori

finiti. Mi pare di vederli trasmigrare

oltre le mura, nella luce di marzo,

verso l’eterna primavera. Addio

amori che non ritornerete, fatemi sapere

come si vive laggiù, non tenetemi,

vi prego all’oscuro.

Moltissime qui le suggestioni. Ascoltando questi versi ad occhi chiusi, in certi passaggi sembra di sentire la voce dolce e tenera di Pier Paolo Pasolini, il “ragazzo a vita” della sua stupenda biografia, lo stesso che ci suggestiona per sempre con i suoi romanzi in cui il romanesco non è affatto falso come sostiene Emanuele Trevi ma è la trascrizione fedele di una corrotta parlata centrale che già negli anni Cinquanta/Sessanta era la lingua dei romani mischiati ai molti emigrati dal resto d’Italia nelle borgate; sentiamo qui il Pasolini struggente che pronunciava: “Io sono una forza del passato / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli. / Giro per la Tuscolana come un pazzo, / per l’Appia come un cane senza padrone. / O guardo i crepuscoli, le mattine / su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, / come i primi atti della Dopostoria, / cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, / dall’orlo estremo di qualche età / sepolta. Mostruoso è chi è nato / dalle viscere di una donna morta. / E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più” (da Poesia in forma di rosa); e poi l’Auden di Stop all the clocks…, nell’implorazione finale.

BARBARE TERZINE

Endecasillabi in terza rima,

nelle mie mani siete diventati

lo stampino dove il dolce lievita.

Barbare terzine, vi uso come  linea

di chi ha perduto i versi incatenati.

Non è un’imboscata. Tu resta

con l’orecchio appoggiato al muro

d’Atlantide e ascolta la malia

del tamburo riannodare il filo

rosso del tempo, poesia.


RADICI

Un accorto impiegato comunale

sui documenti di mio padre

scrisse: Parisse, italianizzando

il cognome. Gli evitò così la

deportazione in Germania,

gli orrori delle leggi razziali.

I fascisti invece salvarono mio

nonno dalla camera a gas con una

bastonata, appendendogli la testa

al petto, su una strada ferrata.

I nazisti, non contenti, freddarono

Mio zio, bellissimo, accucciato

nel suo orto pieno di ortiche.


BAMBINI CECENI

Una madre cecena paga a rate

ai soldati russi il ritorno

dilazionato del corpo della

sua bambina. Le manca il capo

per poterla ricomporre nella bara.

I soldati sanno della decomposizione

della carne. Le mettono fretta.

In Cecenia i bambini a volte li raggruppano

in dieci, insieme agli adulti e li legano

con una cima molto lunga. Sembra

che i soldati invasori vogliano giocare

con loro, omaggiando un quadro di

Balthus, quando invece li avvicinano

per farli esplodere.


CONFERENZA

Che dite di quei turisti

che a Castel Sant’Angelo ci vanno

per la Tosca e non sanno

della tomba di Adriano o quelli

che non hanno visto le porte della

casa di Augusta, il pavimento dove

zoccolavano Orazio, Virgilio, Mecenate.

Il ponte rotto affiora dal Tevere

con certi topi lunghi così,

e secondo me, la tomba di Giulio

Cesare è sotto corso Vittorio.

dove scorreva un fiume, dal Pantheon

a Sant’Angelo. Guai a sgomberare

il Corso, ora che la metropolitana

fa affluire proprio lì le torme del consumo.

Conservo le lettere dell’autrice di Memorie

di Adriano per me solo, visto che non posso

pubblicarle prima di quaranta anni,

quando non ci sarò più e forse pochi

si ricorderanno di questa scrittrice

che si faceva servire dall’amante

inglese. Adriano comunque non era bello

come Augusto, anche se la sua testina

di giovanotto è pur sempre meravigliosa.


ULTIMO VIAGGIO

Un poeta brizzolato arranca

dietro la bella fanciulla. Cerca

un corpo albergo dove

sistemarsi per il suo ultimo viaggio.

La fanciulla invece pensa al suo corpo

come una bara merlettata. Trotta

sull’asfalto bagnato. Sembra che gli

dica: “Si accomodi pure, signore,

il prezzo è modico, non subirà scosse,

nella sepoltura”.


IL GIOVIN SIGNORE

Ma che? Tu inorridisci, e mostri in capo,

qual istrice pungente, irti i capegli

al suon di mie parole?


GIUSEPPE PARINI

Esce dopo mezzanotte, si reca al pub

o in discoteca, quando i genitori sono

al primo sonno. Ama le strade vuote,

i silenzi della notte fonda. Con gli occhi

rossi rientra all’alba mentre i famigliari

vanno al lavoro mogi. Gli spazi

della casa gli appartengono tutti,

costringendo a volte anche il gatto

all’ascolto dei suoi rumorosi orgasmi.

Di giorno dorme fino al crepuscolo,

poi decide di andare in palestra.

Al solito usa il telecomando fino a tardi,

quando vengono a prenderlo i rumorosi

amici. Resta in casa fino a quaranta anni

suonati. Chi gli ha donato la vita

nel frattempo si augura di morire al più presto

o scompare in paesini di montagna. Anche lì

però sarà placcato nei giorni delle

ricorrenze. I vecchi più nervosi già

si armano, esasperati dal notturno

andare. Alla prima occasione li gambizzano

per farli diventare adulti. Sono da biasimare?


POSTUMO

A Marziale

Mi dici sempre: “Domani vivrò,vedrai.

Oggi non me la sento, sono depresso!”

ma questo domani quando arriva e

perché domani e dove s’è ficcato

il tuo domani, dove lo situi? Non

dirmi anche tu che si trova negli

States o in Cina. E perché non ti sei

trasferito da ragazzo in quei territori

dove il successo abbonda? Tu sai

quanto costa abbandonare tutto e tutti

e vivere tra gli indiani. D’accordo, mi hai

convinto, vivrai domani ma oggi

non ti pare già tardi, Postumo? Ancora non

capisci che il più saggio è colui che ha vissuto

ieri?

Dalla sezione QUADERNO FINLANDESE   (in IL FUMO BIANCO)

IL SOLE BIANCO

Una bolla di luce appare dal finestrino

dell’autobus che da Helsinki ci

riporta nella città di Alvar Aalto.

Circondata di betulle nere, è un

occhio vivo illuminato dalla grande

luce del nord. O luce che

diventi boreale, o sole bianco

che non tramonti, la mia vita è

ricominciata o è affondata

nella neve debole del tramonto?

Chi laverà tutti i miei peccati?


IL BUCO

Una betulla carica di neve

Alla fine di ottobre e il buio fitto

Già nel primo dopo pranzo.

Il lago è ghiacciato. Le ragazze pattinano

Indifferenti, guardando l’omino che al centro

Crea un buco per pescare.

La foto di Renzo Paris in questa pagina è di Dino Ignani http://www.dinoignani.net/

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