Le somiglianze di Paolo Del Colle

Un motivo che ricorre nella sua poesia è questa idea delle somiglianze

Questo vento

reca altrove

le somiglianze di ombre e voci

sollevate sino alle luci stordite

dei lampioni appena accesi

e rincorse dentro il tempo della sera.

Basta svaniscano per farne una ragione

di non voltarsi

al primo brivido delle spalle

al corridoio vuoto percorso

dal fiato gelido da cui vuoi tornare

sullo spiffero delle imposte.

Si resta vicini, qui,

dove so che non stai più bene

ma non conosco altre strade

spazzate con tanta furia

per andare via tra un giorno e l’altro.

Solo i fiori finti dell’ingresso

accolgono somiglianze

con quanto vedi: è tutto così

il più e il meno che ricordi

senza di me, di te,

un prima e un dopo senza tempo

senza la vita che ci sarà stata.

[da NUDA PROPRIETÀ, Melville Edizioni 2018]

Un motivo che ricorre nella poesia di Paolo Del Colle è questa idea delle somiglianze che nel nostro immaginario di lettori e magari autori di poesia può fare il paio con una simile funzione tematica e tecnica nel medesimo istante che sono le correspondances baudelairiane. Anche queste somiglianze invocate da Paolo Del Colle sussistono tra elementi che si chiamano, e si inalberano solo allora, solo quando fili invisibili creano appunto percorsi di corrispondenza, e reciproco conforto (sembrerebbe implicitamente suggerire il poeta con questa sua,chiamiamola ‘trovata’ in senso letterale). È tanto vera questa scoperta che l’autore fa della somiglianza come strumento (anche) di inventario (ecco una parola che poi si conquisterà un suo podio) che questo ‘sistema delle somiglianze’ si era posto già per Paolo Del Colle come risorsa del dettato e della poetica nelle prime raccolte e fin dalle prime sue apparizioni in riviste epocali (anni Ottanta) come Braci e Prato Pagano che coi loro titoli ispirano suggestioni (in Braci, c’è poesia che sfrigola sotto la cenere, e in Prato Pagano c’è un’area di confine come luogo di innovazione rispetto a un main stream o centro poetico).

Una zona di sperimentazione, garantita dalle due riviste, che molto ha calamitato Paolo Del Colle con tutto un nutrito gruppo di spericolati come Gino Scartaghiande e Beppe Salvia e poi Silvia Bre e Gabriella Sica (Prato Pagano) e Claudio Damiani (Braci) e molti altri, i quali avevano al proprio fianco anche alcuni giovani critici che li studiavano in presa diretta – tra questi, Arnaldo Colasanti che molto ha analizzato nel tempo l’intero arco del lavoro di Paolo Del Colle.

Per tanto che cambia

simile rinnova un pensiero d’intento

la via trovata dalle foglie alle radici.

Alcune il vento risolleva

e tanto alto giungono di nuovo

che non sai da quanto manchino alla pianta;

con un rapido fremito poi

all’avvenuta caduta ridanno vita

[Novembre, in GEMME APICALI]

[…] di qual tuo apparire

si resta nel dire,

che per piano ne parli, sussurri,

per come fossero uguali

con parole credo di simili.

Per quanto nel simile arriva,

tra due spiragli, e spira

saranno alcune giornate,

che sovvengono, appena sporto.

[da GEMME APICALI, Rotundo 1988]

In questa prima fase della sua ricerca testuale, linguistica, direi espressiva in termini anche filosofici e speculativi, Paolo Del Colle mostra una sua posizione verso la poesia che è verso la vita e viceversa  – anzi contemporaneamente per entrambe, in coincidenza meditativa. Intanto l’usura della parole, tanto che questo termine, che dice tutto il senso di corruzione e corrosione della parola, è diventata poi il titolo di una raccolta successiva. E poi in questa prima fase prevale una heap of broken images di eliotiana origine, le immagini frante, molecolari (Magrelli dixit per Ungaretti, ndr), la frammentarietà come regola e sistema, e poi un lato umano così arreso che può destare memoria dell’invocazione, sempre eliotiana: Do I dare disturb the universe? (Ho diritto io a disturbare l’universo?: ho fatto un lungo ragionamento…) – col grande poeta americano formulo l’ipotesi che il nostro converga su un amore e modello comune, Dante: […] pochi passi porto al camminar che avanza  (di cui questo verso di Del Colle, sempre tutto impegnato a registrare il blocco, mi pare un chiaro calco). E poi mi viene in mente, per questa fede così arresa eppure indomita nella simbiosi costante di vita e poesia, una sorta di aforisma che ho scritto nella dedica ad un amico, Molte parole / zero parole: mi pare calzi. Come si vede nel prossimo passaggio, Paolo Del Colle è uno che ragiona per litoti e non si nega le negazioni.

[…] non manca, dunque, tutto quel che è assente,

la carenza è nel dispiegare intorno […]

ferma attesa illusa di mancato incontro

[,,,] Ma tutto succede, vado, e sarà un seguito di ore,

quel che non ho avuto non c’è.

Un momento decisivo nel percorso di Paolo Del Colle è stato il poemetto Mare o monti  (L’Obliquo, 1997): ottocento versi composti a quattro mani con Edoardo Albinati, coetaneo compagno di studi e di poesia:

Ecco il mare. Nella sua cavità si dibattono

e si alimentano, nella roccia e nel vento,

molti suoni che non sentiamo ancora.

Siamo e saremo lontani. Troppo lenti, forse.

Splende sulla curva la creazione frettolosa.

Eppure da qui la descrizione sarebbe più agevole

che stando immersi tra le onde, tutto ritmo e monotonia,

prevedendo di poter dire anche ciò che non può

essere detto senza bagnarsi, o un secondo più tardi

a bocca in giù dentro l’asciugamano.

Ma il sapore è già qui, e splende.

La fusione Albinati+Del Colle fu perfetta, decisamente non si può distinguere la mano dell’uno dalla mano dell’altro – in una presentazione tenuta da Bibli, luogo meraviglioso naturalmente poi chiuso (ormai sono anni), Edoardo Albinati disse: “non distinguiamo più nemmeno noi chi dei due ha scritto quali versi, non ce ne ricordiamo”. Ma il passo aforistico di Albinati deve aver influito su Del Colle, o forse deve aver indicato una propensione verso cui Del Colle aveva già cominciato a tendere – quindi sono venuti fuori due romanzi, LE RAGAZZE DELL’EUR (2001 – Quiritta, casa editrice di breve durata legata proprio a Bibli, libreria/bistrot, e a uno dei soci, Roberto Parpaglioni: tutto finito..,!), e SPREGAMORE (Gaffi, 2014). Come qualcuno ha osservato in queste due frazioni in prosa di una ideale trilogia (la cui ultima sezione evocherò tra poco) c’è una sorta di movimento che dalle chiusure della prima fase (poetica) ha aperto una cauta strada verso l’esterno (il romanzo Quiritta) per registrare poi un ritorno all’interno (il romanzo Gaffi) in cui un peso sostanziale riveste la casa: cuna e inferno insieme – la malattia e l’accudimento sono doppie (la madre e il gatto), la tana infernale è anche  rifugio da un mondo esterno ostile, e sorgente di sdoppiamento.

Conosco questo fragile senso di serenità e mi preoccupo, perché queste

sono le avvisaglie dell’emicrania, l’iniziale benessere in cui dentro di me

inizia a separarsi un’altra persona che soffrirà al posto mio, un puro corpo

dapprima indefinibile, che aumentando l’intensità del dolore diverrà sempre

più grande e distinguibile e allora vedrò mio fratello, innaturalmente alto, il

volto luminoso e rassicurante nella sua indistinzione somatica, nel suo non

aver potuto sviluppare somiglianze con mio padre o mia madre.

Rieccole, le somiglianze! Un chiaro indizio di tormento, di ossessione: chiodo fisso e combustibile di una ruminazione interiore che perdura in un flusso impetuoso, al cui fondo persiste una domanda (non retorica) che ho annotato nella mia copia di SPREGAMORE : chi è il vero agonizzante, la madre o il figlio?

Mia nonna, mia madre, mio padre. Proprio in questo momento

[…]  io voglio solo una cosa: che scendano dal cielo. È quel che

aspetto ogni giorno. Che scendano dal cielo e appaiano qui.

(Yaakov Shabtai)

Questo esergo apre NUDA PROPRIETÀ,

prosimetro (cioè alternanza di versi e prose) in cui il metodo è all’opposto del suo modello (La vita nuova di Dante): qui sono i versi a legare e “spiegare“ le prose. Ogni sezione è aperta da eserga tratti da quattro autori che per Paolo Del Colle sono altrettanti lari: oltre a Shabtai (l’autore di Inventario – ricordate?, vi avevo detto di tenere il termine a  mente), Werner Herzog (al suo Aguirre è dedicata una sezione tutta in prosa, chiusa però da Il cavallo di Aguirre, in versi), Gilles Deleuze (L’uomo che soffre è una bestia / La bestia che soffre è un uomo), e Fjodor Dostoevskij (con la faccenda del ragno cattivo grande come un uomo): maestri con cui Paolo Del Colle non smette di intrattenere un vivo, inesauribile colloquio e che letteralmente permeano ogni sua pagina.

Svuotandola lentamente sono già alla fine, all’origine di questa casa, osservo

come finiranno la storia di questa famiglia e di queste mura dentro cui sono

nato e a cui non lascio eredi: vedo facilmente i difetti d’origine sotto gli infissi,

nella stoffa alle pareti che dove è un po’ sollevata mostra i colori provati e

rifiutati, nelle mattonelle scheggiate e ricoperte di stucco dipinto e ora sbiadito

che ricoprono smussature malamente riempite; mi rendo conto che all’inizio

non sei mai previsto veramente, sei una camera d’emergenza, un tinello adattato,

diventato una stanza grazie a un muro di cartongesso rimovibile se non fossi nato,

e poi ora cosa farne di una casa che nessuna successione rende mia, dove non devo

lasciare nulla per chi mi assomiglierà, sangue del mio sangue che invece invecchia

inutilmente, trasporta sempre meno ossigeno, aggira i coaguli?

Ecco i due nodi di fondo per Del Colle in NUDA PROPRIETÀ. Proprio in questo passo, con agile chiasmo, una chiusura (alla fine) si inanella con un’apertura (all’origine), il tramonto della casa coincide con il riavvolgimento del nastro della sua vita fino all’inizio in cui la casa si animò davvero per l’ultima volta – è un tema anche checkoviano, tornano in mente la casa e il giardino (dei ciliegi). Ed emerge la inereditabilità della casa. Se ne perde la proprietà per quel meccanismo della nuda proprietà che dà luogo alla borghese appropriazione – così la casa diventa inereditabile e si aggiunge un senso ineffabile e inafferrabile di estraneità: si è ospiti sgraditi in casa propria, si diventa accidenti inappartenenti, casi e meteore. C’è qui il ritorno del tema e del termine (in per chi mi assomiglierà) della somiglianza, nostro filo d’Arianna.

Vi lascio con una messe di versi non prima d’aver sottolineato che la Nota d’Autore finale è congedo tecnico ma poiché frutta un estremo pugno di versi (LA NOTTOLA) rientriamo nella scrittura: da qui l’autore ci lancia un’ultima cima cui aggrapparci. La nostra unica proprietà è di essere umani e di essere vivi, e in quanto tali di essere nudi: ergo la locuzione NUDA PROPRIETÀ rivela ben altro valore. E poi ‘essere simili’ (– Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!) non necessariamente vuol dire essere insieme, somigliare ai propri simili non fa cadere il diaframma, non riduce la distanza, fa condurre vite separate, ci fa procedere affiancati all’infinito.

Continuano a non esistere

i miei morti, sono muti

ma i loro passi tracciano

la meridiana dei giorni

sin quando decidono

di sparire nel buio di una stanza

nelle ore rimaste come prima.

Allora il futuro più vicino

che riesca a pensare

è di non essere nato.

Giro su me stesso, ovunque

sono al centro di queste mura

che aspettano pazientemente

mi decida a venire al mondo,

per incidere questi segni

sulle cornici in legno dell’ingresso

che solo io posso già riconoscere,

avrò già riconosciuto,

come qualcosa che gli somigliava.

Come se tutta la vita coincidesse

con questi piedi freddi

la pelle d’oca delle braccia

che stringo al petto rabbrividendo

da me stesso fatto

immagine e vana somiglianza.

La morte di non so chi

mi è passata accanto

o attraversato con un soffio gelido

sul marmo dei pavimenti

forse cambiando idea

forse prendendo solo i sembianti

per le carezze di chissà quale amore..

Che farne ora

dei metri ridotti a vani

della misura dei sensi

che prende le distanze

da ogni immaginare;

le dita fredde

che porto alla bocca

non sono il gelo che mi tiene

e il silenzio

di quanto già conosco

non è detto abbia torto

nel tacere

alla vista di me stesso

fioca intermittenza

scialba luce che non ragiona.

Lo scirocco non cambia

l’aria, è fuori stagione.

Trascina una luce tumefatta

la terra dei vasi del balcone

le piume dei nidi abbandonati

infiamma le aderenze

porta l’anima a fior di pelle

in cerca di un’altra età

che non capisca

come si può vivere così

come le grucce spoglie rimaste nell’armadio.

[…] allora sarà giudicato

il tempo impiegato

le strade scelte per necessità

o distrazione, intanto

è probabile sia rimasto

qualcosa nelle tasche

delle giacche e dei pantaloni

che vi sia qualcosa che dimentico

così chiudo la porta

per tornare indietro

per non uscire.

IL CAVALLO DI AGUIRRE

Guardami ora

voltati indietro per la prima volta

non mi state cacciando

sono io che sto lasciando

la vostra zattera

e da qui, dall’asciutto vi guardo

e dove guardo non c’è niente

oltre quello che vorrete vedere.

Non c’è innocenza

dove sono penetrati gli uomini

nemmeno una nave capovolta

sugli alberi vi farà capire

che siete già stati qui

e che altri verranno.

La missione è finita

consumerà se stessa

facendovi girare la testa

e la mente, nemmeno capirete

di essere giunti

dove già vi cacciarono.

LA NOTTOLA

Dal letto posso guardarmi

in età già vissute

non sono mai cresciuto

più di così, della rete su misura

protetto dal buio

dall’essere il solo non morto

dentro una casa senza eredi

che mi trasmetto di notte in notte

vedendola com’era o già in rovina

quando le nottole sfiorano i vetri

e osservano cosa sono diventato

invitandomi ad uscire o lasciarle entrare

prima che sia giorno.

E mi sento in colpa

per non aver dormito,

per l’insonnia che non vinco,

per i sonniferi che non fanno effetto,

per esserci, qui, parodia patetica

di un mostro notturno,

che vorrebbe morire per un volto amato,

per una parola che mi chiami per nome

accanto a sé, nel letto, affinché ciò che è, non sia,

che ciò che sarà stato non sia.

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