A cent’anni dalla nascita e a quaranta dalla morte, Gianni Rodari continua a svolgere un ruolo necessario nella cultura italiana. Io credo che ci serva molto ancora oggi la sua figura di scrittore capace di unire poesia e divertimento, nonché di far scaturire profondità illuminanti dall’apparente semplicità delle sue opere, alla pari di altri maestri del Novecento come – per esempio – Italo Calvino e Bruno Munari. La storica Vanessa Roghi ha appena scritto per Laterza un volume molto bello e completo, Lezioni di fantastica, che contiene un’appassionata ma rigorosa ricostruzione della sua biografia e della sua opera come insegnante, giornalista, scrittore, poeta, che arricchisce per chi non lo conosce in modo approfondito l’immagine tradizionale (anche se vera e decisamente molto amata) di scrittore di filastrocche per bambini. Così ho pensato di farle qualche domanda.
La prima cosa che ho scoperto leggendo il tuo libro è che Rodari aveva un’idea molto chiara dello sfruttamento dell’infanzia in Italia inizio Novecento, decisamente lontana dall’immagine che è arrivata a noi attraverso i tradizionali libri per l’infanzia. Quanto traspare questo nella sua opera?
Gianni Rodari era nato in una famiglia modesta, il padre era un fornaio, la madre era stata a servizio per lunghi anni, una serva, scriveva lui stesso senza alcuna autocommiserazione ma semplicemente per descrivere quello che era stato. Rodari, quindi, sapeva che i bambini in Italia, nei primi decenni del secolo non leggevano, lavoravano, non andavano a scuola, se non in una minima percentuale. Non era una grande scoperta nemmeno allora, quando Rodari ha iniziato a occuparsi di bambini, nei primi anni Cinquanta, ma certo era abbastanza originale il fatto che questi temi finissero in un genere letterario che aveva scansato non tanto la povertà quanto il conflitto e la lotta contro l’ingiustizia nel corso della sua storia recente. Rodari insomma portava l’infanzia all’interno della dialettica democratica delle classi sociali, la lotta di classe nella letteratura per l’infanzia.
Da ragazzo il giovane Rodari scopre i poeti del suo tempo e decide di non scrivere più poesie perché non sarebbe capace di emularli. Però scrive le filastrocche che tutti amiamo. Secondo te, che poeta è stato Rodari?
Come tutti i giovani amanti delle lettere della sua generazione Rodari si avvicina alla poesia attraverso le avanguardie: l’ermetismo e il surrealismo in primis. Poi, per caso, inizia a scrivere filastrocche per bambini e dell’ermetismo prende l’attenzione alla parola più che al verso, dal surrealismo le tecniche che poi racconterà nella Grammatica della fantasia.
Le sue filastrocche sono così l’espressione delle avanguardie tanto quanto lo è la poesia del suo tempo. Non a caso collabora con una rivista raffinata come «Il Caffè» di Giambattista Vicari: un luogo di discussione e sperimentazione inedito per il panorama italiano poiché ignora volutamente i generi e le correnti. Sul «Caffè» Rodari pubblica alcune bellissime poesie per adulti. Mi viene in mente quella che trae spunto da un verso del Canto V della Divina commedia (Noi leggevamo un giorno per diletto/ Di Lancillotto, come amor lo strinse:/ Soli eravamo e senza alcun sospetto).
Noi leggevamo un giorno per diletto,
noi leggevamo un giorno sul diretto,
soli eravamo e senza alcun sospetto,
sordi eravamo e senza alcun cornetto,
stolti eravamo e senza alcun concetto,
saliti a Teramo senza biglietto,
senza burro né strutto,
né pancetta né prosciutto,
morti eravamo senza alcun costrutto.
Sola, la morte, in sala d’aspetto,
era una morte di modesto aspetto,
povera morte senza doppiopetto,
ci fece un cenno dai vetri e fu tutto.
Parli del suo rapporto difficile con l’insegnamento, scrivi che riteneva di essere stato capace di fare il maestro soprattutto perché raccontava storie, c’è qualche insegnamento da trarre per i maestri di oggi?
Rodari non voleva fare il maestro, l’ha fatto per un periodo perché aveva bisogno di lavorare, di uno stipendio. Voleva fare lo scrittore, il giornalista e quella strada ha perseguito. Poi però è tornato a scuola da autore di libri per l’infanzia e lì ha scoperto la potenza del mestiere dell’insegnante. L’ha imparato guardando i maestri del Movimento di cooperazione educativa e quello che ha imparato lui è alla portata di tutti: bisogna conoscere i bambini, e sforzarsi di capirli, e studiare, non smettere mai di studiare.
Poi però, quando racconti l’episodio della “Torta in cielo”, ci dici che Rodari torna alla scuola da scrittore, dicendo che uno scrittore dovrebbe stabilire un legame fisso con una classe.
Appunto: lui torna a scuola invitato dalle maestre e dai maestri e si rende conto di quanto lui stesso sia stato carente perché sprovvisto di ogni consapevolezza pedagogica, didattica. La fantasia non basta né la buona volontà: i bambini vanno conosciuti bene in tutti i loro aspetti e questo è possibile soltanto studiando molto e passando molto tempo con loro.
Rodari teorizza anche la necessità di una scuola “nuova”, secondo te lo abbiamo ascoltato almeno in parte?
Troppo poco: fin dagli anni Sessanta parla di eliminare il voto, di rivedere la didattica della grammatica, di abolire ogni forma di punizione. Alcune di queste sollecitazioni sono entrate a far parte della riforma delle scuole medie del 1979: la didattica dell’italiano in quella legge risente molto dell’elaborazione della cosiddetta linguistica democratica. Il punto, però, come spesso è stato notato, è che spesso si è ricorsi alle tecniche come se fossero formulette e non la punta di un iceberg che aveva come base il rinnovamento integrale della didattica. E’ inutile relegare il gioco o la lettura a un’ora specifica e poi occuparsi delle “cose serie”: il gioco, la lettura ad alta voce, sono le cose serie.
Uno dei suoi esercizi che mi ha sempre interessato è il “binomio fantastico”, che proviene dal surrealismo e produce effetti comici esilaranti sui suoi piccoli allievi. Tu ci racconti quanto sia stata importante per Rodari la forza della risata, era una risata rivoluzionaria?
Sicuramente. Rodari trae dal surrealismo la lezione di un gioco linguistico che serve a sovvertire l’ordine delle cose esistenti. Ora anche il fascismo è sovversione, allora dove sta la rivoluzione buona di Rodari? Nel fatto che la sua pedagogia sovversiva è profondamente democratica, pensata per tutti e non per pochi, per i più deboli e non per i più forti. Per gli ultimi e non per i primi.
La sua esperienza politica così rigorosa come si coniugava con la libertà creativa della sua fantasia?
Credo che la storia del Partito Comunista Italiano, di cui Rodari ha fatto parte tutta la vita, sia stata, negli ultimi venti anni, ridotta a uno stereotipo duro a morire: l’immagine di un monolite entro il quale ogni elemento fantastico era marginalizzato. I comunisti musoni. Fedeli alla linea. Ma non è stato così: Rodari era parte del partito comunista, e tanti maestri e amministratori comunali che abbracciavano le idee rodariane, la creatività, istituendo, che ne so, la funzione pubblica di burattinaio come accadde a Reggio Emilia.
Certo, c’erano anche uomini e donne grigi dentro quel partito comunista, e questo Rodari lo sapeva e tutta la vita ha fatto il possibile per colorarli almeno un po’: ricordo la delusione, il dolore anzi, del suo ultimo viaggio in URSS, quando incontra bambini e bambine in grado di lavorare in gruppo, aiutarsi, essere perfettamente solidali ma che non hanno idea di come far finire una storia con una premessa assurda. Per Rodari, formatosi sull’ipotesi fantastica (cosa succederebbe se una mattina ti svegliassi trasformato in enorme scarafaggio?) una mancanza inconcepibile soprattutto nel paese di Gogol e dei nasi che camminano da soli.
L’opera di Rodari è fatta anche di tanti elementi della vita quotidiana, per esempio di mestieri comuni, vigili urbani, gruisti, ragionieri, portinai, dentisti, ecc. Come riesce a inserirli nella sua visione fantastica?
Rodari inserisce i mestieri più umili nelle sue filastrocche. Impara a farlo da Cesare Zavattini, che, non lo dimentichiamo, fa volare i poveri a cavallo di una scopa. E pure Rodari fa la stessa cosa: fate e vigili urbani, voli nello spazio e garzoni di fornaio. Un’utopia concreta, la fantasia leopardianamente intesa come espressione del concreto.
Ho trovato molto interessante l’influenza che gli studi etnologici e il folklore hanno avuto su Rodari, tramite Ernesto De Martino, quindi la sua capacità di esplorare elementi linguistici e culturali del mondo contadino e farne linfa per le sue filastrocche.
Sì, anche in questo Rodari è un pioniere: apre la strada agli studi di folklore. Come ha scritto Cesare Bermani: Rodari ha gettato le basi della ricerca sulla canzone popolare in Italia. Non perché fosse un genio, ma perché teneva gli occhi aperti e le orecchie disponibili, acerbe potremmo dire citandolo: così quando dall’Unione Sovietica arrivano gli studi sul folklore popolare urbano, e, come scrive Italo Calvino, si iniziano ad ascoltare le nonne e le loro canzoni, Rodari prende carta e penna e interroga il soggetto politico che più lo interessa, la classe operaia.
Cosa avvicina e cosa rende distanti Italo Calvino e Gianni Rodari, secondo te?
Potrei scrivere un saggio a sé stante su questo che è uno dei punti che mi hanno più inchiodato durante la stesura del mio libro: inchiodato nel senso materiale. Tornavo sempre a quel nesso, a quel rapporto, fatto di detti e non detti. Omaggi reciproci e reciproche clamorose omissioni. Alla fine, comunque, credo che Rodari sia stato più generoso di Calvino, perché, come ha scritto Tullio De Mauro non solo ha ragionato sul suo mestiere di letterato ma ha voluto condividere con gli altri le sue scoperte. Più di Calvino ha influenzato la democrazia italiana. Ma, ripeto, ci vorrebbe ben altro spazio per risponderti. In parte l’ho fatto nel libro.
Nel suo mestiere di giornalista, Gianni Rodari è riuscito ad andare oltre la cronaca nello stile o nel modo di raccontare storie e notizie?
Beh sì: basta leggere uno dei suoi editoriali firmati con lo pseudonimo Benelux. Ovviamente in questo non è stato solo: il giornalismo italiano ha esempi meravigliosi che possiamo citare. Lui di suo ci ha messo sempre la leggerezza, l’ironia e la speranza. E non è poco per un paese di apocalittici quale è stato il nostro.
Alla fine della sua parabola e dello studio che hai fatto della sua opera, diresti che Gianni Rodari resta un autore per bambini oppure ha qualcosa da dire oggi anche ai lettori adulti (a parte gli studiosi che analizzano le sue opere…)?
Credo che a questa domanda ho già risposto. Rodari è per tutti.
Un signore maturo con un orecchio acerbo
Un giorno sul diretto Capranica-Viterbo
vidi salire un uomo con un orecchio acerbo.
Non era tanto giovane, anzi era maturato, tutto,
tranne l’orecchio, che acerbo era restato.
Cambiai subito posto per essergli vicino
e poter osservare il fenomeno per benino.
“Signore, gli dissi dunque, lei ha una certa età,
di quell’orecchio verde che cosa se ne fa?”
Rispose gentilmente: “Dica pure che son vecchio.
Di giovane mi è rimasto soltanto quest’orecchio.
È un orecchio bambino, mi serve per capire
le cose che i grandi non stanno mai a sentire:
ascolto quel che dicono gli alberi, gli uccelli,
le nuvole che passano, i sassi, i ruscelli,
capisco anche i bambini quando dicono cose
che a un orecchio maturo sembrano misteriose…”
Così disse il signore con un orecchio acerbo
quel giorno sul diretto Capranica-Viterbo.