Sale il gioco della tensione allo scoperto
se i rumori della strada s’appropriano
di brevi improvvise paure.
Ma sia un campanello di bicicletta
a oltrepassare la soglia intemporanea
della distrazione o il folle nel cambio delle marce,
lo schiocco dei fili del tram,
da più lontano vengono
la sirena che avverte il turno nuovo,
il fischio dell’ultimo treno per il lido.
Resiste l’accusa ai giorni
per questo lanciarsi a un’indolenza
che solo adesso rivela il nascondiglio.
[da LE ACQUE FERME in Una stagione continua, PeQuod 2002]
A Roberto Deidier urge si riconoscano alcune cose.
Una progressione compositiva, sorta di sistema di crescita, che in verticale nutre il dettato in ogni singolo componimento, e orizzontalmente poi si distende in uno sviluppo che tende a rincarare la dose delle immagini, dei quadri, delle impressioni, delle sensazioni, ed è capace di sostenere anche certe rarefazioni di testo, e certe sintesi che sembrano (poiché digitate in corsivo) altrettanti eserga ma sono puntualizzazioni, prese d’atto – mi hanno fatto pensare a Orlando (della Woolf) quando punta dritto al lettore (Tilda Swinton che guarda dritto in macchina nella versione cinematografica di Sally Potter) e ti rimescola dentro.
Ore le stesse, falciate lente sulle spighe,
pane che tarda quando già senti l’odore.
[da CONVERSARI in Una stagione continua, PeQuod 2002]
Quando a una certa ora il pomeriggio
Filtra dalle serrande e con la luce
Grida allegre, scalpiccio di rincorse,
allora puoi pensare: questa è una città.
[da DIECI POESIE VISSUTE A PALERMO in Solstizio, Mondadori 2014]
Folla del primo mattino, folla senza rumore,
Cedi il passo agli ospiti festosi
Voi che portate il peso di ogni giorno
E fate i miei sogni più leggeri,
Non gravare di fatica le mie spalle
Di dolore le mie braccia,
Lasciati venire come il primo buio
Lotta con l’ultimo buio
E le stelle si spengono,
Sollevati dal folto dei miei grumi,
Svapora nell’inganno di quest’aria
Prima che il cristallo immobile dell’alba
Sta trafitto dalla piena della luce.
[da UN POSTO CHE NON È NOSTRO in Solstizio, Mondadori 2014]
Qui la rotazione è chiarissima, è una torsione amorevole e spaventosa, fatta di attenzione e cura ma anche di indagine e ferita, è aggressione o morso alla vita che progredisce da sola e ripensamento che non esclude amarezza se non addirittura dolore. Così perveniamo al secondo punto (di tre) da dire:
una mobilità esistenziale e fisica, che si fa tematica.
I
Viaggio in un’unica stagione continua, non mi fermo,
ma il mio viaggio è tutto nella guida,
nella controra che mi scorre negli occhi
con la luce densa di una cupola a riflessi
di verde e d’oro, e più affretta la campagna
più la trattiene sullo sfondo.
Come cambia il tempo all’improvviso
si sottrae anche il cielo al parabrezza
e lo stupore è questa dissonanza.
Per dove vado s’apre un orizzonte solo,
mai raggiunto: anche se il battito accelera,
e insieme salgono i giri del motore,
la mappa si riavvolge,
fugge il cammino quando esita.
La mia sola direttrice è quest’asfalto
che passa più confini di regione,
a strapiombo su uno scoglio in piena notte
o all’acetilene d’una sagra.
[da VIAGGIO IN UNA STAGIONE CONTINUA in Una stagione continua, PeQuod 2002]
Il poeta è uomo mai fermo. La professione di docente lo espone al viaggio e al trasloco, disciplina necessaria alla poesia, all’apprezzamento dell’esistenza, alla verifica nei fatti di un destino umano: muoversi sempre, non restare mai fermo.
La casa
Il sole scende dietro i piatti sporchi.
Il lavandino è un porto di liquami.
E nella penombra nuova
L’occhio inventa le sagome
Di chi è passato in queste stanze.
Sono stata spesso ostile ai miei inquilini.
Mi sono aperta di crepe
Come fossi la faccia della morte.
Ho lasciato solo che le luci si spegnessero
Senza riaccendersi. I letti erano freddi
E al mattino nascondevo tutta l’acqua.
L’agente illustra i pregi,
Ampiezza metratura posizione.
Prezzo accomodante, eppure avverto
Arrendevolezze inospitali,
La fatica che costa appartenere.
Questa casa, sono stato questa casa.
Un tempo, una volta, una vita.
*****
Ora vivo in una città dai fiumi interrati
[…]
Ho visto mille topi galleggiare
Sui liquami del porto
E ho compreso perché
Non ho avuto paura.
[da UN POSTO CHE NON È NOSTRO in Solstizio, Mondadori 2014]
A conferma del crescendo che sempre informa il dettato della scrittura di Roberto Deidier (punto #3) ma non è accumulo, è viceversa essudato di materiali rinvenuti e accortamente classificati catalogati ordinati, suggerisco che si prendano in considerazione due aspetti della stessa questione: i sommari e le raccolte – sempre queste ultime hanno messo insieme materiali poetici apparsi sparsi nel tempo in attesa che appunto veri e propri libri li legassero in nuclei organici: Tra il corpo e il giorno (in Poesia contemporanea. Secondo quaderno italiano, Guerrini e Associti, 1992), Il passo del giorno (Sestante 1995), Libro naturale (Edizioni dell’Ombra, 1999), e poi Una stagione continua (PeQuod 2002), infine Solstizio (Mondadori 2014). Di queste ultime due vale la pena studiare anche il sommario, come la materia poetica è stata organizzata e raggruppata secondo nuclei liste e enumerazioni: è l’evidente istogramma della visione del poeta, il disegno preciso della sua percezione poietica della vita. Del mondo delle persone di sé nel mondo e con le persone. Del regno animale che si spartisce con noi questo pianeta e i suoi impressionanti spettacoli non necessariamente avendone la peggio, ma conducendo esistenze separate come sono separati da noi eppure su di noi influenti le stagioni e i fenomeni atmosferici.
Sulle stagioni stiamo per tornare.
Ma prima vorrei aprire un quarto capitoletto in questa breve analisi dei testi di Roberto Deidier.
Riprendo un verso che abbiamo già incrociato, Per dove vado s’apre un orizzonte solo, sorta di infernale porta dantesca che, con un salto inatteso, ci sospinge (è del resto questo il moto sotterraneo che si coglie nell’intera produzione del ‘nostro’) verso una sezione di Solstizio che è LA FOSSA DEI LEONI – qualche assaggio:
L’Antefatto
Come il nulla dal nulla crea visioni
M’immaginavo un punto farsi incontro
A un altro punto, e un altro ancora,
Stimolavo figure sulla mia lavagna scura.
Sapevo ciò che stavo facendo?
Molto dopo mi fecero intendere
Che ero stato solo troppo a lungo
E volevo condividere la mia felicità.
Non li ho mai capiti. Che cos’era
Mai la solitudine? Quanto alla felicità
Nel tempo non ho avuto sentimenti
Che dominio, vendetta, giustizia.
In una sola parola: gelosia.
Adamo
Avevo appena appreso a dire il mondo,
A chiamare fiore il fiore, sole il sole,
E luna e notte e tutta quella vita
Che s’agitava nel fondo dei miei occhi
E non sapevo quanta poca fosse,
quanto vero il deserto oltre il guardino.
[…]
Dicevo “albero”, invece era un varco
Tra rami, foglie e frutti rossi,
Un buco oscuro, vortice o ferita
Per cui la terra cessava la sua recita
E il cielo dismetteva la sua luce.
Sarebbe iniziata lì, la nostra storia.
Rut
Ogni zolla è un sentiero per l’altrove
Lì dove la terra s’incrina
E il mondo è uno scrigno,
Ogni mia fibra respira la vertigine,
Il mio corpo è un confine
Che nessun occhio disegna e trattiene.
Al nulla appartenevo, ora appartengo a me
Come la scelta appartiene alla fortuna
Come un servo sincero non ha padrone.
[…]
Dovevo muovermi, avanti, solo avanti
Per ascoltare infine le mie parole
Nelle sue. […]
Bersabea
Danzando sul precipizio del mondo
Come una stella senza più traiettoria
Nella mappa d’un breve cielo estivo,
Impazzita di luce come un’anima
Quando raggiunge la sua carne
Potevo mai avvertire quali occhi
Si spezzavano su me […]
[…]
Accadeva e intanto lo pensavo
Come un dio insensato della sorte.
[…]
La verità è che tutti, tutti insieme
Agitano i miei sensi una sola memoria
Un solo nome.
E un’ombra m’è entrata dalla bocca.
Daniele
Quando alle prime luci ho aperto gli occhi
Era vuota la fossa dei leoni.
Nessuna traccia del loro passaggio,
Come fossero esistiti mai.
Nulla, proprio nulla,
Neppure quel fetore che ogni notte
M’attanagliava più della paura.
Perché ho avuto paura.
Sul muro di fronte casa mia
Restano scritte
Che mai sono riuscito a interpretare.
E non so se a tracciarle sia la mano
Che mi indica la fossa dei leoni.
Ecco forse adesso possiamo provare a tirare un po’ le somme.
Intanto rilevando che Solstizio, la raccolta più recente, determina in fondo un primo compendio di tutto un percorso compositivo lungo il quale Roberto Deidier ha addensato e sparso un’avventura di ‘viaggio’ e di ‘discernimento’.
Poi sottolineando e rilevando che ‘il nostro’ ha trovato un andamento poematico e tematico in cui le velocità del comporre e del crescere, del filmare/proiettare e dell’intensificare si compiono in quelle pieghe in cui c’è margine di spostamento e variazione, come è dei solstizi, come è delle stagioni di mezzo in cui l’impetuosità si espleta con naturalezza – il tratto mi pare proprio del Deidier–poeta.
È tanto vero questo che va accolto il suggerimento fornito nella prefazione al libro, quando si indica la sua “figura centrale” e kafkiana: il trapezista, l’acrobata – una definizione dell’umano con cui sono in perfetta sintonia. Ed è preziosa e condivisibile anche l’altra indicazione, cui anch’io ho dato peso in questa breve analisi: la ricerca delle radici bibliche della cultura occidentale – mi sembra chiaro che Deidier, non solo per questi due ‘dettagli’ non da poco, ma proprio per la struttura che sempre tiene presente nel dettato di ogni singolo componimento e nel disegno che traccia in ogni suo libro-pozzo (tanto che, come dicevo, vale la pena anche dare un’occhiata ai sommari, agli indici delle sue opere), rintracci segni universali e chiavi simboliche di qualche attendibilità sul senso del vivere in tutti quei minuti accidenti che costellano le nostre vite e il progredire inarrestabile del mondo. Una lezione che tutti noi apprendiamo con iniziale stupore, ma in cui ci ritroviamo, e ci sentiamo confortati perché questa chiave di interpretazione supera ogni miseria e conferisce una dignità inossidabile ai nostri destini. E il valore ulteriore di questo non piccolo guadagno sta nella serena naturalezza che il poeta ci tributa per condivisione.
Concludo così:
Lezioni di respiro a riva
L’allievo incerto addestra il diaframma
apre la bocca alza le braccia dritte
Poi le rilascia lungo i fianchi
con estranea pazienza
Allargando il petto adolescente
fino a quando cade il tempo
La madre torna sotto l’ombrellone
il figlio esercita lontano
[Di passaggio, vi segnalo il rimando irresistibile tra “estranea” (pazienza), riportato ora qui, e (soglia) “intemporanea” (ottimo calco) presente nei primissimi versi trascritti all’inizio di questa trattazione].
Eventi e misericordia
L’agave sovrasta il tornante,
Tocca i davanzali bassi.
Oscurità improvvisa
Di nuvole, autocarri
In marcia lenta lungo la statale.
Resta a terra quel rostro puntato
In direzione del mare. Fermi
I bambini ne studiano la posa,
Ciascuno la sua remigante in mano.
[entrambe tratte da SUITE D’ANGLONA (1993–1994)
in Una stagione continua, PeQuod 2002]
.
Dunque, tutto quanto sopra, lungi dall’essere un risultato che chiude, si pone come primo corposo capitolo di una ricerca che può dirsi finalmente al suo inizio: molto ancora aspettiamo dal giovane poeta Roberto Deidier.