TANDEM #3
Le lingue che abbiamo dovuto imparare – Amelia Rosselli.
Esiste in rete un filmato in cui AMELIA ROSSELLI, quasi di passaggio, con un atteggiamento quasi da bambina e un po’ ritroso, pronuncia proprio queste parole,
<<… le lingue che abbiamo dovuto imparare>>.
La lingua è uno dei punti focali della produzione poetica di Amelia Rosselli ma anche della sua poetica tout court – ha ragione da vendere Emmanuela Tandello (studiosa italiana della Rosselli a Oxford), quando scrive, “Non appare possibile prescindere dalla lingua – o meglio dal linguaggio – nel discutere di questa poesia” [Meridiano Mondadori 2012, Rosselli L’Opera Poetica, Intr.: XXXVI].
I Primi Scritti esplorano le sue tre lingue (inglese, francese, italiano). È inclusa Cantilena, epigrammi per Rocco Scotellaro, il caro amico poeta contadino lucano, che la tradì unicamente morendo presto.
Nel ’58, la Rosselli scrive un libello attorno al tema di fondo del suo esistere e scrivere, la libertà, in cui si libra e trasvola tuffandosi nel mare disperante dei laccioli che la imbrigliano e subito spiccando voli per raggiungere un’aria rarefatta in cui tutto ciò che le grava sulle ali si possa dissipare
LA LIBELLULA (Panegirico della libertà)
[…]
Io non so se la tua faccia sa ripetere una
tua crepa interna o se i miei sensi meglio sanno
di questa mia virile testa che è vero, o se è
falso colui che è bello, bello perché simile.
O bello perché buono? Io cerco e cerco, tu corri
e corri. E io corro! e tu ridi alle folle spaventate!
[…]
Io non so se tra il sorriso della verde estate
e la tua verde differenza vi sia una differenza
io non so se io rimo per incanto o per travagliata
pena. Io non so se rimo per incanto o per ragione
e non so se tu lo sai ch’io rimo interamente
per te. […]Disperare, disperare, disperare, è
tutto un fabbricare. Tu non sai… […]
[…]
Io non so se tra le pallide rocce il tuo
sorriso m’apparve, o deo dalle fulvide chiome
o cipresso al sole io non so se tra le pallide
rocce del tuo sguardo riposavano l’incanto e
la giovinezza […]
[…]
E il delirio mi prese di nuovo, mi trasformò
stancata e ebete in un largo pozzo di paura,
mi chiamò coi suoi stendardi bianchi e violenti,
mi spinse alla porta della follia. Mi rovinò
per quell’intera durata e quel giorno intero.
Mi stese dispettosa a terra: incapace di muovere […]
[…]
[…] dolce, rotta, stanca. Sento gli strilli
degli angioli chiedermi la pietà, dove nessuno
gli bada o la riconosce. […]
[…]
O misantropia che ti siedi accaldata dopo
il tuo pasto di me; con te ballerei stanca. Con
te, ringhierei molto lontano dalle pinete e dai
laghi, al colpo al sole dei dardi soppesati.
[…]
E tu sedevi sicuro sul tuo ponte da falegname,
sicuro di ritrovarti nell’infinito. Io ne ho
perso le vie. Tu ancora ti dibatti: io non posso
ricordare più d’esistere. […]
[…] mercato di topi. Lunga notte di topi. Mercato
di topi e di ferramenta. Io sono grande e piccola
insieme: le vostre furie mi toccano e non mi
toccano. La mia malattia è diversa dalla vostra,
il mio santuario non è quello di Cristo […]
[…]
E seguendomi egli sarà mite e puro come gli
arcangioli.
[…]
Per i suoi occhi bianchissimi, – per le sue
membra limpidissime, io vado cercando la gloria! […]
[…] Trovate i gesti mostruosi di Ortensia:
la sua solitudine è popolata di spettri, e gli
spettri la popolano di solitudine. […]
[…]
Fluisce tra me e te nel subacqueo un chiarore
che deforma, un chiarore che deforma ogni passata
esperienza e la distorce in un fraseggiare mobile,
distorto, inesperto, espertissimo linguaggio
dell’adolescenza! […]
[…] Dissipa tu se tu vuoi questa debole
Vita che non si lagna. Che ci resta. Dissipa
Tu il pudore della mia verginità: dissipa tu la resa
del corpo al nemico. Dissipa la mia effige,
dissipa il remo che batte sul ramo in disparte. […]
Capite bene che nella scelta della figura eponima la Rosselli attiva una cornice concentrica di senso.
Il suo è un caso di poeta trilingue: padre italiano [Carlo Rosselli, ebreo antifascista esule a Parigi (trucidato col fratello, Nello, nel ’37 a Bagnoles sur l’Orne dov’era in convalescenza, dai sicari della Cagoule, polizia segreta francese: automi sterminatori assoldati da Roma, giovanissimi, implacabili, spietati)]; madre inglese, Marion Cave, appassionata dell’Italia (nell’esilio a Parigi fu insegnante di inglese tra gli altri di Emilio Lussu); a scuola a Parigi naturalmente Melina fu educata in francese.
A casa la chiamavano Melina per distinguerla dalla nonna, Amelia Pincherle Moravia, veneziana, pittrice e scrittrice. Gli anni della guerra furono sempre anni di fuga e di miscuglio di lingue tra Parigi l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Solo nel ’49 Amelia/Melina arriva a Roma: riconquista l’identità italiana, mancata per anni e fin dall’inizio, poiché è la nonna a volerla presso di sé – tuttavia conserva in italiano una dizione straniera, la R francese e una pronuncia perfetta delle parole in inglese o in francese come chi sia madrelingua; e poi di continuo nel discorso e nei versi ripete, al dunque – in cui echeggia donc che i francesi infilano nelle frasi di continuo, ma è anche il segnale di una sua certa tendenza a concludere spazientita, o (inaspettatamente) pratica; e poi c’è car, parolina francese che vuol dire poiché, lasciata amabilmente rotolare nei versi, specie in Variazioni belliche).
Farei brevemente il punto.
Dalla ubriacatura di versi da fonte unica rosselliana potrebbe esservi venuta voglia di tuffarvi nel miracolo di una produzione in cui in modo chiaro emergono un IO e un TU, e un LUI, e alcune LEI, sue controfigure femminili, qui sopra Ortensia, e spesso anche Antigone o Ifigenia (la sorella che lotta per la giustizia contro lo Stato, la figlia sacrificata alla politica dal padre che appare freddo sullo sfondo – così Melina percepiva suo padre, Carlo Rosselli; in My clothes to the wind, prosa del 1952, Amelia Rosselli dà anche un amaro resoconto dei rapporti con la madre). Inoltre sono chiarissime le influenze: di Shakespeare, John Donne, T S Eliot, Montale – echeggiano nel tessuto dei versi, dunque Amelia Rosselli ha fatto suo quel metodo mitico che mette a bagno nella poesia di lei tutta la poesia che lei ha conosciuto ordendola come fili fusi nella trama pure riconoscibili ancora. Lo cogliamo in una sorta di lirico ermetismo ellittico, chiara impronta dickinsoniana. E poi si vede chiaro anche l’andamento narrativo di questi versi e l’intento della Rosselli di farli “quadrare”, di contenerli e sorvegliarli in una misura e una forma che è riquadrata e ritmata, “al dunque” tenuta a bada nei suoi “Spazi Metrici” (1962). Era il suo orecchio musicale a governarli.
Torniamo Nella stanza di Emily, il personal essay recente di Benedetta Centovalli: due settimane siamo partiti da lì per avventurarci in Emily Dickinson, poeta per sempre contemporanea, e parlare di alcune tra le sue traduttrici, poete a loro volta. A pagina 40 di quel librino troviamo,
<<[…] Emily scriveva di notte, al lume della sua lampada
(“Una quieta – Vulcanica –Vita – / Che brillava nella notte –“, J601)
È solo l’inizio di una lirica più lunga, distesa su tre quartine: [A still – Volcano – Life – / That flickered in the night – (…) J601]. Per il testo completo e la traduzione intera vi affido la prossima settimana alle capaci mani di Gabriella Sica, ma per ora vi riporto che quell’accenno di traduzione è di Amelia Rosselli, che poi ritroverete in veste di voce italiana della Dickinson per intero qui in fondo.
Da ultimo, scarne notizie editoriali. Esiste appunto dal 2012 il Meridiano Mondadori a lei dedicato (in esso, tutti i suoi scritti, anche quelli mai tradotti, con una introduzione di Emmanuela Tandello, molto corposa, e un’altrettanto corposa biografia che parte dai genitori i nonni gli zii i cugini (tra cui Alberto Moravia) che sono stati l’humus di questa figura solitaria di donna e di poeta. Esisteva già un’ampia e largamente completa raccolta delle poesie di Amelia Rosselli, con preziosissima prefazione di Giovanni Giudici ne Gli Elefanti Garzanti. Di recente in Sogni e Favole, Emanuele Trevi si è occupato di Amelia Rosselli (la racconta in parte anche attraverso Arturo Patten, fotografo californiano per qualche anno a Roma, che la ritrasse nella casa di Via del Corallo, a un passo da Piazza Navona). Subito Trevi cita da Variazioni belliche, <<Nata a Parigi travagliata nell’epopea della nostra generazione / fallace. Giaciuta in America tra i ricchi campi dei possidenti / dello Stato statale. Vissuta in Italia, paese barbaro. / Scappata dell’Inghilterra paese di sofisticati. Speranzosa / nell’Ovest ove niente per ora cresce>>: era stato Pasolini, che l’aveva presentata sul Menabò, a definirla esule interiore, apolide, “cosmopolita”, ma lei si ribellava a queste etichette “di mondo”: <<Cosmopolita è chi sceglie di esserlo. Noi non eravamo dei cosmopoliti; eravamo dei rifugiati>>. Trevi ricorda poi che in testa le martellava di continuo una voce di cui di continuo si lamentava che ripeteva Good!, e anche quanto Elsa Morante non avesse simpatia per lei: erano cugine acquisite, per il comune e diverso legame con Alberto Moravia. Trevi ci parla della “bontà della sua indole”, della sua delicatezza che destò protezione in lui una sera in cui la riaccompagnò fin su alla soffitta di via del Corallo, ed esaminando i libri le chiese chi stesse leggendo: lei gli rivelò che bisognerebbe ricordare “le vite precedenti quelle che stiamo vivendo”, come Buddha o Pitagora che avevano sviluppato questa perfetta facoltà e Sapevano chi erano stati.
Ci racconta di lei in presa diretta Renzo Paris, poeta romanziere saggista, col destino nel nome (si è occupato di letteratura francese), testimone della grande stagione letteraria italiana di cui è attivo e partecipe fin dalla fine degli anni Sessanta, e a lungo il Paride di Amelia/Elena, donna fine e isolata, inconsapevole di attrarre per la sua bellezza specie da giovane, preoccupata sempre che in ogni uomo si travestisse una spia della CIA, e fissata con “l’uomo biondo”, presa con le molle da tutti, ostracizzata come pazza o strana. Lo racconta nel suo personal essay, MISS ROSSELLI (Neri Pozza – BLOOM -!- gennaio 2020) Renzo Paris che in epigrafe mette questi versi rosselliani: <<ma non ebbe paventato la gioia / che già accostava la noia>> – un distico che comprova il distaccato humor della Rosselli, e un senso del divertimento inteso come contraddizione del senso comune, come paradosso automatico e naturale nella descrizione di situazioni umane o fatti reali, una certa aria smagata, non di superficie ma per metodo. Renzo Paris ci racconta dell’interesse di Amelia Rosselli per il libro dell’I Ching, gli esametri cinesi che consultava compulsivament, e del suo interesse per lo spiritismo. Si rivolgeva, Amelia Rosselli, alla parola poetica quasi come a una divinazione che le schiudesse mondi e sapienze, paralleli a ciò che in modo sciatto e inutile è classificato come reale. La chiave, sempre, era la Parola, incontenibile come un fiume che ingrossa e ruscella impetuoso, proprio come Amelia Rosselli, poeta sempre, in ogni istante, divisa tra vita e vita, come testimonia la sua traduzione da Emily Dickinson (J1651) che su lei, e su noi fin qui, ha aleggiato:
A Word made Flesh is seldom
And tremblingly partook
Nor then perhaps reported
But have I not mistook
Each one of us has tasted
With ecstasies of stealth
The very food debated
To our specific strength –A Word that breathes distinctly
Has not the power to die
Cohesive as the Spirit
It may expire if He –“Made Flesh and dwelt among us”
Could condescension be
Like this consent of Language
This loved Philology
Una Parola fatta di Carne è di rado
E tremando condivisa
Né forse allora riportata
Ma non avrò dunque sbagliato
Ciascun di noi ha assaporato
Con estasi segreta
Proprio quel dibattuto cibo
Secondo nostra specifica forza –
Una Parola che respira chiaramente
Non ha potere di morire
Coesiva quanto lo Spirito
Può spirare se Egli –
“Fatto Carne e vissuto tra di noi”
Fosse condiscendenza
Come questo consenso del Linguaggio
Quest’amata Filologia.
[traduzione di Amelia Rosselli: pagina 112
(Nella stanza di Emily, BCentovalli – Mattioli 1885)]