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Basta tenere la sofferenza chiusa nella solitudine della fede?

Antipasto

Frequentavo il secondo anno a Giurisprudenza e il 1970 s’era trascinato via, in sequenza, la zia Maria, con un male che aveva violentato il suo corpo fino alla fine. Poi la nonna. A settembre chiuse l’esistenza breve di mio fratello maggiore. Il porco destino se lo prese a 33 anni. Sentivo come egoismo continuare una vita che, solo l’apparenza, rendeva normale. Mia madre teneva la sofferenza chiusa nella solitudine della fede. Tutti i giorni in chiesa, per un’inutile confessione e ogni settimana, con il 2 che partiva da Piazzale Flaminio, andava a Prima Porta a parlare con chi stava  nella nuova vita e passava con loro la giornata. Le invidiavo questa forza. Quel conforto che in me era divenuto odio e maledizione verso un dio se mai ci fosse stato. Dopo la morte di Ruggero, avvertita a spina nel cuore, iniziò come coscienza maturata a gradi che aveva una linea di confine tra ciò che stava dietro ed era la mia vita e quella che avrei continuato solo con mia madre, barcollante sostegno alla sua vita storta. Sentivo schifo di avere ancora un’esistenza davanti che aveva il sapore di una condanna.

Primo

Si insinuò allora una trasformazione che avanzò a riempire il vuoto di uno spazio in cui sopravvivevano solo i ricordi, come una serpe che striscia silenziosa verso la preda, tra i libri che riempivano inutili la mia scrivania. Le pagine ristagnavano negli occhi, ma la mente era persa a ogni attenzione. Tutto appariva fermo e senza futuro. Crebbe di forza un senso di ripudio verso di me, come se la mia esistenza si accompagnasse al senso di colpa. Uno stato d’animo che mi portava verso l‘autodistruzione. Odiavo il mio aspetto e cercai di cambiarlo come era mutata la mia vita. Il rifiuto del cibo fu la strada. Anche i sensi mi aiutarono nel contrappasso. Provavo disgusto per ciò che nutriva. Quando avevo lezione all’Università, tornavo all’orario in cui mia madre si appisolava. Tappezzava il tavolo con biglietti di scritta tonda e calcata con tenere raccomandazioni: la carne è nel forno così non fredda; la pasta scaldala a bagnomaria; mettici un po’ d’acqua di cottura che sta nel pentolino, sotto il piatto, se no si attacca. Quelle scritte sapevano d’amore, ma non bastava il rimorso a fermare il mio gesto che sapeva di violenza, mentre avvolgevo nella carta, pasta e carne da buttare. Sfregiavo così la sua dolcezza. Amore di per sé: una forza di continue rassicurazioni e che non ti fa dubitare. Se la sentivo arrivare, nascondevo i piatti pieni sulla credenza, per non farglieli vedere e poi buttare il cibo. Dicevo che li avevo lavati. Vedeva mentre mangiavo la frutta e non sapeva ch’era quello il mio pranzo. Fumavo e spegnevo ogni languore. Col tempo m’aiutò l’abitudine. Anche l’olfatto s’era adattato alla metamorfosi, attenuandosi fino a non farmi sentire l’odore del cibo. Nutrimento, calorie, grasso, un universo da cui un tempo non ero stato lontano, quando a merenda mi rimpinzavo di pizza e supplì o di mozzarella in carrozza che trasudava d’olio, da Ottavia a Via Paolo Emilio.

Secondo

Non vedevo anormalità in questi cambiamenti. L’esistenza ruotava intorno al nutrimento e alla bilancia ch’erano divenuti compagni della mia giornata. A cena mangiavo della verdura, contando le gocce d’olio, poi, uscivo con la scusa di mangiare qualcosa con gli amici e lasciavo mia madre con l’apparecchio e il filo che collegava le sue orecchie sorde alla televisione. Uscivo, ma non c’erano amici ad aspettarmi. Ormai capitava di rado che li incontrassi. Sapevano delle mie uscite serali e mi avevano soprannominato lupo solitario o il vampiro. Camminavo a lungo, seguendo, in automatico, lo stesso percorso, di cui conoscevo lunghezza e tempi. Percorrevo Via Cola di Rienzo, passavo Piazza della Libertà e Ponte Margherita. Attraversavo Piazza del Popolo e mi facevo tutto il Corso. Da Piazza Venezia tiravo su per Via Nazionale e tagliata Via Quattro Fontane, passavo per Piazza Barberini e Via Veneto. Nel mio percorso prediligevo le salite dove si faticava e si consumava di più. Poi Villa Borghese, giù fino a Piazzale Flaminio. Passavo il Tevere e giravo verso Piazza Cavour, per la mia meta: il forno notturno che apriva su Via Cicerone, qui, attendevo il turno, tra i tanti nottambuli che affollavano la via di auto e acquistavo il mio cornetto con la crema che mangiavo, tornando verso casa. Masticavo piano quella flagranza soffice e calda, con la crema che scorreva lenta sulla lingua e riempiva la bocca e la gola di dolcezza. Quei momenti che prolungavo nel piacere accompagnavano i miei passi e risvegliavano, d’incanto, le sensazioni che tenevo in letargo. Era il mio sogno notturno, l’unico eccesso che concedevo al corpo stanco dopo due ore di cammino. Rientravo e, dalla sua stanza, mi arrivava il leggero russare della mamma, tranquillo, per la sordità, che dava silenzio. A volte mi soffermavo sul viso illuminato dallo spiraglio di luce, in quel momento in cui era tranquilla e in pace.  Continuai a lungo questo peregrinare notturno e avevo la sensazione che i rari passanti non mi vedessero, come se il mio corpo non esistesse. L’amica bilancia mi compensava e le taglie calarono dalla 48 alla 42. La mamma stringeva i vestiti e guardava preoccupata questo dimagrimento. Ne parlò anche al parroco di San Gioacchino nelle sue confessioni in cui non c’erano peccati. Mi fermò un giorno a Piazza dei Quiriti. “Tu sei Giampaolo, lo so perché tua madre ti ha descritto bene. E’ preoccupata per la tua salute. Se lei vuoi bene mangia”.

Contorno

Quel giorno, dopo l’Università, la trovai in cucina che m’aspettava  e, per la prima volta, vidi occhi diversi. Mi avvicinai per baciarla e secco suonò uno schiaffo sulla guancia, mentre mostrava un piatto, in cui una muffa multicolore rendeva irriconoscibile la fonte. L’avevo dimenticato sulla credenza e lei l’aveva trovato mentre spolverava. “È così che sprechi quello che ti preparo e costa denaro e fatica”. Quelle parole, più dello schiaffo fecero male. Un’aggiunta alle sue sofferenze che non avrei voluto. La bilancia ora segnava 49 e affannavo a salire le scale fino al terzo piano e ancora mi vedevo grasso. Avevo stracciato le foto che qualche amico m’aveva fatto sdraiato al sole, le rare volte che andavo al mare. Avevano messo della sabbia sulla pancia infossata e le costole segnavano il torace. Di gambe e braccia s’intravedevano le ossa sotto la pelle tirata. Non ero io quell’essere orrendo, ma l’altro, quello longilineo, con pantaloni a zampa d’elefante, taglia 42, anche se il culo mi sembrava grosso. La salvezza fu casuale quando conobbi Massimo che mi abituò alla corsa leggera, intorno ai ponti su cui all’inizio affannai. Questo costrinse il mio fisico a cercare le energie che non aveva e tornò qualche alimento.

Dolce

Avevo trovato equilibrio tra entrate e uscite, tra cibo e calorie bruciate. La passione che mi aveva preso per la corsa quotidiana, mi riportò a una vita quasi normale. Vennero anche le gare, fino alla maratona che un ex asmatico mai avrebbe immaginato. Il mio corpo aumentò, ma restò magro e ricrebbero i muscoli. Il nutrimento divenne essenziale. La gioia della mamma per questa resurrezione m’aiutò a vincere i residui sensi di colpa che mi prendevano quando mangiavo. Dopo la laurea facevo pratica legale e la mamma volle mettere la targa sulla porta. Per lei, più che per me, fu una delle rare soddisfazioni. Quando mi lasciò, nella solitudine di quella casa in cui vivevano solo foto e ricordi, alla tristezza non si aggiunse il rimorso di averla fatta soffrire per quella mia malattia, da cui fece in tempo a vedermi guarito.

Amaro

Il menù comprende un goccio d’amaro dopo il dolce. Sono stato anoressico e credo che non supererò mai questo stato con cui, in maniera attenuata, convivo da decenni. Sempre attento al nutrimento che esclude a priori molti cibi, movimento quotidiano e un doveroso passaggio giornaliero sulla vecchia bilancia. Guarito ma????

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