A chi glielo chieda, Stefano Iucci con invidiabile candore confessa che questo secondo, recente libro di versi, Schermi della risacca (Poesie 2017-2019), pubblicato dall’editore Il Convivio nella collana Ormeggi, è decisamente diverso dal precedente, Tutto all’improvviso è immobile (2012-2016) edito nel 2017 da Il seme bianco.
Ed è vero dopotutto. È un libro molto diverso e molto consecutivo.
Perché io ho anche notato delle somiglianze, alcune non del tutto inconsapevoli.
Perseguite invece, magari da un io creatore che tende a mettere ordine e a ritrovarsi.
Nelle differenze si enuclea poi una immanenza di sguardo e di sistemazione della materia poetica che forse riesce nella scrittura laddove nella vita fallisce, trovando la quadratura di un groviglio esistenziale che la letteratura riesce a sbrogliare e alleggerire intanto evocando.
Istruzioni per vivere (da Tutto all’improvviso è immobile)
1 […] fuori dal tempo
mai spostarsi e mai spostare
[…] farsi specchio muto della terra e del cielo
definirsi, appena, in un riflesso.2 […] Nascondersi solo per risalire
da un buco profondo e nero
verso il cielo e le nuvole.
Farsi oltraggio del mondo
E ferirlo. Immobilizzare la terra
E noi marciare sulla crosta […]3 […] Per vivere bisogna percorrere tutte le strade
Seguire le forme varie […]
[…] evitare scorciatoie
e mostrare devozione al destino nero
[…] fare un passo indietro […]
Se serve, perché scarso è il tempo rimasto,
si può anche correre senza guardare, dritti a perdifiato.4 […] Come un antico matematico
ho bisogno di ricomporre la formula
del vento che batte alle finestre
della bussola che ho dimenticato in una tasca buia
o il salice, il salice quando piega i rami in un inchino
a scherno di noi e del destino. […]
Qui subito si definivano due aspetti fondanti di questa poesia: il riflesso come definizione del sé, possibile solo nello specchiarsi; e il rapporto drammatico col tempo, e col transeunte, col cambiamento a dispetto della nostra lotta strenua che poi altro non è se non una resistenza passiva quando restiamo di sale e un farci agili a seguire la corrente che ci trascina se diventiamo accondiscendenti e scegliamo di giocarci la sorte – come ci indicano questi testi, per esempio, da Schermi della Risacca, nella sezione Sentieri e deviazioni:
È quando vedi gli abbracci e pensi ai prati.
Alle staccionate che sono state scavalcate,
è come il tuffo dei cavalli che volano se nella corsa
calpesti le margherite, il tuo passo le recide.
C’è il riflesso nel cielo, hanno il collo spezzato.
Sono le unghie, scavano a terra e non si fermano,
non danno sangue. Cosa cerchi.
Se arrivi al centro del tuo cuore cosa trovi,
dici che star male fa male, non è vero.
Sentire come una pietra, come un sasso lanciato lontano.
Qui uno dei tropi più interessanti della raccolta: le domande senza punto di domanda, un atteggiamento che sta per una stanchezza che non impedisce di porre questioni ma indica l’inutilità di rivolgere sorpresa e stupore alla sorte come all’altro/a, per cui le domande sono pigre, non chiedono risposte, sono mogie constatazioni. Allora l’orecchio allenato evoca subito J. Alfred Prufrock, la sua overwhelming question, che è bisogno e richiesta d’amore, ma è anche resa a una ripetizione tanto più sterile, di parole facce circostanze modi, quanto più una specie di obbligatoria adesione alla vita che proviene dalla biologia ci desta verso ciò che conosciamo e stancamente riconosciamo.
E così dunque andiamo.
L’asfalto si trasfigura nei fiori,
questo sole che vedo,
il viso riflesso nelle vetrine
che aspettano all’ombra..
i manichini nudi
hanno gli occhi incavati
e se mi specchio non è spazio
di me che vedo perché tutto
ormai è diventato tempo.
La noia è il vuoto che hanno lasciato i gatti.
Quando ti giri e sporgi dal letto.
Rimani fermo come un gatto in attesa.
Mangi dalla scodella e vai nella gabbia che è quella dei gatti
ma è la casa, l’intera casa. È enorme e senza muri.
Però se metti un gatto davanti a uno specchio
non si riconosce. Se insisti potrebbe impazzire.
Quando guardi ti vedi, ma pensi ci sia un altro dietro.
Affondi gli occhi e cerchi qualcosa.
È sepolto nello sguardo che è tuo, è una profondità pura
dove non arriva nessuno.
Almeno un filo d’erba che si riflette davanti a te,
almeno ti rimanda che sei solo la tua superficie.
Una persona che affiora insistente nel tessuto di questi versi è il TU che li abita. Ma chi è? È molti: è il poeta, è la moglie del poeta, è la figlia del poeta, è la donna del poeta. È un TU non plurale ma plurimo, è un TU multiforme, anzi è un TU di cui cogliamo le molte pieghe.
Un altro tropo ricorrente è l’aletta del francobollo sollevata e la colla screpolata nell’angolo. Un dettaglio così piccolo che schiude un intero arco di significati legati al tema forse più struggente del libro, il tempo. Che è anche legato alla presenza dell’acqua o alla secchezza che è fine e assenza. Il poeta ci conduce per mano a scoprire cosa è il tempo. Vorrei dirvelo qui ma preferisco lasciarvelo scoprire. È una sorpresa, sapete! Non voglio togliervi il gusto di trovare il tesoretto di questo libro, proprio come si fa con i testi di prosa che sembrano tutti misteri o storie nere ma molto dicono su ciò che siamo, e molto profondamente ci guardano.
Il lavoro di Stefano Iucci sull’immagine consiste sì nel guardare ma anche nel guardarsi, lo studio dei fotogrammi va di pari passo con l’indagine inclemente del groppo che occlude lo stomaco e non scioglie i nodi di fondo. Il nodo dei nodi è l’amore: l’amare certo, e poi l’essere amati su questa terra, per dirla con Raymond Carver. Per la verità Stefano Iucci reclama specialmente in questo libro la lezione e l’influenza di Mario Benedetti, il poeta friulano recentemente scomparso. Onestamente, se devo proprio dire la mia, qui il poeta, che è fotografo e modello, regista e attore, drammaturgo e personaggio, svela una insospettabile natura amletica che non chiama né dubbio né vendetta ma lavoro sulla volontà, e evoca i fantasmi perché indaga la persona. È talmente vero questo che egli ne fa una questione di clima e di cultura, da nuotatore ed esploratore della civiltà orientale, per sapere quale uomo è.
Questa raccolta recente, strutturata secondo uno sviluppo che in due sezioni si conclude in prosa, e in una terza si distende in una serie di prose poetiche, sperimentando poi la forma del diario in versi, per chiudersi, come già la precedente, in un laconico congedo, nuota nel vuoto della perdita (che da qualche parte configura “un’impronta” come “il calco d’ombra” che “già occupa la tua parte di letto”)– come quando si nuota in piscina: accessoriati di tutto punto, pronti a stare in un vapore che dà cecità e nebbia, ma è poca cosa rispetto ai vapori naturali d’Oriente. Eh, la nebbia, la nebbia che gratta la schiena contro i vetri delle finestre mentre ciò che conta è nell’interno, dove un uomo si allaccia una scarpa.
Vi lascio con i due CONGEDI, ulteriori assaggi della poesia del nostro:
Congedo (da Tutto all’improvviso è immobile)
Si muore, pare, più all’alba
che al tramonto.
Non è facile quando cala
la sera chiudere le imposte
e scordarsi del mondo.
CONGEDO (da Schermi della risacca)
Sul tavolo il segno è la posata spaiata.
La bottiglia che non riflette, se non passa la luce[se trattiene.
[…] – Se ti serve qualcosa, dimmelo, dice la voce
che non ascolto più.
Questa mattina ho visto una donna in giardino
[piangere su una panchina.
Teneva in mano un foglio di giornale spiegazzato,
liso, pieno di macchie.
Vedevo delle lettere nere, enormi, e lei ha chiesto
scusa per tutto quell’inchiostro sprecato.