Ho per le mani alcuni piccoli libri, altrettante opere recenti, di RITA PACILIO, poeta di San Giorgio del Sannio (BN), e la suggestione, subito, è che la cura estrema messa nell’edizione, l’essenzialità tipografica che pure indulge al senso estetico, siano altrettante spie di grande attenzione per una confezione concreta di qualcosa di così volatile ed evocativo quanto la poesia appunto. Poi mi addentro in uno di essi, La venatura della viola, e, subito, trovo una paginetta, Lettera al lettore: qui Rita Pacilio in persona dichiara esplicitamente (attenzione agli avverbi di modo) di maneggiare la parola poetica perché le sta a cuore resistere e opporsi alle brutture non arrendendosi all’incuria, all’abbandono, all’assenza e alla miseria umana – come? La risposta è nella semplicità e nella dolcezza: la viola, piccolo fiore, è l’immagine della delicatezza tenace, di una grazia forte, resistente appunto. E poi come fanno le viole? Stanno tutte insieme – ci viene subito in mente il quadretto garrulo e impertinente dei daffodils, i narcisi di William Wordsworth, che, giunchiglie a margine dell’acqua, volgono tutte insieme le loro corolle secondo il verso del vento.
Partiamo dalla fine del libro di Rita Pacilio: vi troviamo questi versi ->
Qualcosa di troppo accresce
l’orgoglio e la colpa di essere nati qui
in questo garbuglio di allarmi profondi
dove porti in rovina e chiusi come porte
rendono l’acqua inutile e il tramonto povero
se esistesse l’origine di una parola
dovremmo baciare la sabbia e le conchiglie
farlo in segreto, silenziosamente,
tracciare una virgola dopo l’apparenza
allargarci sul gambo come fa la viola.
Faccio subito notare due cose: l’avverbio di modo che con la grazia placida del suo naturale allungarsi fonda uno stato delle cose e lo espande su tutto, come accade anche altrove nella raccolta (misteriosamente, perfettamente, delicatamente…), denotando poi un’inclinazione ricorrente e altrettanto naturale a rivelare nella scelta di certe parole la reale posizione della autrice rispetto alla propria materia poetica; e la funzione che l’autrice affida alla viola, fiore elegante, fragile – càpita a un certo punto l’aggettivo frale:
C’è un uccello frale sul terrazzo
spalanca la gola per esercitarsi
a ricordare la fine dell’autunno.
È un filo o una fune che fluisce
da un capo all’altro della loggia
dove stendevi il vestito buono
e le spiegazioni esatte dell’insonnia.
– un fiore, la viola, che è simbolo di delicatezza eppure se ne sta teso sullo stelo: nella viola c’è qualcosa di tenero, che allude all’umano, e proprio per questo ha qualcosa di eroico. La viola è un exemplum, un emblema di virtù, di garbo e di forza – così noi fioriamo su sostegni assottigliati e tesi ma forti come fa la viola sul gambo. Un’idea così persistente nell’istinto compositivo che (come si può osservare nelle ‘F’ e nelle ‘V’ sottolineate nel testo sopra) nel dettato stesso dei versi emerge l’allusione anche sonora, in queste allitterazioni, vorrei ci faceste caso, costruite sulle fricative, sorde (F), e sonore (V) appunto.
In più in molti testi della raccolta si possono rintracciare dei monosillabi (qui, lì, e) messi in posizione solitaria tra un’ampia sequenza di versi e la breve chiusura, e, forza dell’insistenza, emerge a un certo punto chiaro quale sia la loro funzione, come si vede bene qui:
Sul ponte torna la sposa
Se non fossi morta
sarei stata in amichevole
gesto con l’epoca dei fiori
e avrei continuato ad amare
l’insaziabile racconto dell’incanto
qui
in questo mese affabile e tremendo
sarei stata completamente
abbandonata alla cera di una candela
e
all’anulare il diamante del platino
trasalire inquietudine, rughe, estati
chissà
quante vene avresti contato sulle mani dei passanti
quanti sorrisi e pianti fino a oggi.
Questo componimento è dedicato alle vittime del crollo del Ponte Morandi a Genova, e fa il paio con la poesia finale che abbiamo letto all’inizio: sostanzia la sensibile adesione ad un canto che si fa poesia civile. È interessante però la posizione spesso riservata a tutta una serie di parole, perlopiù monosillabi, i quali funzionano da interruttori. Non tanto perché interrompono, piuttosto perché accendono altri o nuovi percorsi di senso, rinfocolano l’energia dei testi, determinano una svolta e donano nuova vita ai versi – e succede anche che la E congiunzione, più che coordinare le parti assuma una inedita funzione disgiuntiva.
Poco prima era spuntato APRILE, come noto caro ai poeti, che ci porta indietro / con tenera forza e pigro elemosinare / raccolta sulla spianatoia / la farina […] / costretta a ricordare il giro della mano […] // La voglia desinata smarrisce l’aggiunta delle sei uova […], immagini, queste, di saggezza cuciniera, di vita di casa e di famiglia, più drammaticamente allusi in I figli che avrei potuto, fantasmi mai nati che suonano il campanello ogni sera (sì lunga tratta / di gente, ch’i’ non averei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta, diceva Dante, ripreso da Eliot).
Rapidamente cerco di dar conto di altri due libri di Rita Pacilio. Soprattutto di uno, Al polso porto le catene – una trama di distici (corredata di fotografie b/n di Luigi Coframcesco, RP Libri 2019), un concorso di voci o forse una voce sola in espressione plurale, multiforme nella sua dolente agilità, come multiforme è l’esperienza da cui la voce si leva:
Sono tessitrice di sogni
intreccio sfumature sulle cicatrici
In quale vento ti troverò?
Quale orizzonte sfinirà la verità?
Notiamo anche qui le allitterazioni (di nuovo in ‘F’ e ‘V’: una chiara fascinazione sonora), e poi la formula interrogativa, che ha una sua sempre suggeritrice di mistero.
Ricuci il sangue vermiglio
il melograno rotto singhiozza colori.
Ti ho assolto lentamente
contando le cento lacrime bianchissime.
Qui ritroviamo l’uso caro dell’avverbio che stabilisce uno stato suonando soave e aspro, e soprattutto udiamo echi di mondi di cui ci sono offerte le allarmanti superfici – che sono svelate e rese nella loro crudezza nel prosimetro, Non camminare scalzo (Edilet 2011), monologo che in un percorso sul corpo femminile capovolge nella liberazione e nel contatto con la terra e la vita l’assunto di partenza.
È compiuta questa poesia in cui entrano due dimensioni dell’anima creatrice genuina di Rita Pacilio:
la sua formazione sociologica e la sua professione di mediatrice familiare da un lato, e dall’altro la vocazione al recital, al canto e alla musica, come testimonia Il suono per obbedienza. Raccolta di poesie per il jazz (Marco Saya, 2015), libro legato a una intensa esperienza di cantante jazz – del resto ho di Rita il ricordo netto, in una galleria romana, di un recital in cui mi pare proprio che recitasse L’Oiseau di Jacques Prevert (sentivo solo la voce perché il posto era pieno come un uovo e non solo non si entrava, nemmeno si riusciva a guardarci dentro – ma dopo un po’ ho riconosciuto la voce, piuttosto inconfondibile). Mi resta da dirvi della vocazione di Rita per l’editoria. Velocemente, Rita Pacilio è consulente editoriale e responsabile della collana Opera Prima per La Vita Felice, e ha creato una propria etichetta editoriale (che fa capo all’Associazione Arti e Saperi con sede nella sua San Giorgio del Sannio): RP LIBRI, attiva dal 2017 – è il mio editore!