“Ogni volta che taglio i cavoli mi torni in mente”. Questa era stata la frase più intelligente che Cristina era riuscita a mettere in piedi per rompere quell’assurdo silenzio che dopo soli due mesi si era alzato tra loro.
“I cavoli, hai detto?” chiese Filippo con lo stesso tono con cui avrebbe chiesto l’ora a un passante.
“Sì, broccoli, cavolfiori, cavoli cappuccio, verza… un po’ tutta la famiglia insomma”.
“Dei cavoli?!” disse questa volta quasi infastidito dal paragone a suo avviso poco nobile.
“Escluso il broccolo romano. Quello no perché l’ho comprato per la prima volta solo qualche giorno fa”.
Cristina era bella, di quella bellezza semplice delle persone dignitose ed era elegante anche mentre pronunciava quelle parole vagamente cacofoniche. Il nocciola dei suoi piccoli occhi a mandorla era rimasto vivido nonostante le innumerevoli ore di sonno perse in quegli ultimi sessanta giorni.
“Certo che non è propriamente romantico come pensiero. Voglio dire… il cavolo è una di quelle cose che quando la cucini lascia una puzza malefica per giorni”.
“Eh… un po’ come te”.
“Stai dicendo che puzzo?”
“No. Sto dicendo che anche tu quando riappari aleggi per giorni, ti appiccichi alle fughe delle piastrelle, ti infiltri negli armadi e ti insinui negli angoli di casa dimenticati”.
“Nessuno mi aveva mai paragonato a un cavolo” disse Filippo continuando incurante ad aggiustarsi la stanghetta sinistra degli occhiali. Non c’era nervosismo nel movimento meccanico delle dita, perché quello non era un ambito entro cui la sua vita si muoveva. Lui rimaneva sempre al di fuori di tutto, come se tutto gli scivolasse addosso con estrema normalità. Gli occhiali erano un vezzo che nel tempo però gli era diventato indispensabile o così voleva far credere. Indubbiamente erano la cornice più adatta per esaltare i solchi dei suoi occhi neri. Tornò con le mani sulla tazza calda di the davanti a lui. Non bevve, ma le tenne lì, sull’unica fonte di calore al tavolo di quel bar.
In realtà Cristina avrebbe voluto completare la frase perché in quell’odore di cavoli c’era il calore di casa. C’era la neve impazzita di quella settimana che li aveva visti prigionieri tra le loro mura, il silenzio intimo e ovattato di quelle notti, il negozietto giù in paese chiuso e il frigo pieno solo di cavoli, in una delle poche pieghe salutistiche che aveva visto la loro vita insieme. C’era lo straordinario e l’essenziale riuniti in un connubio irripetibile.
Cristina indugiò qualche minuto con lo sguardo su quelle mani, la prima cosa che aveva amato di lui. Dita forti e affusolate, dita che stavano benissimo sui tasti di un pianoforte, ma ancora meglio sulla sua schiena, quando la sfioravano nuda.
Cercò con gli occhi le labbra di Filippo, pallide e piene, la cui forma serpentina rendeva più terrena la sua bellezza disarmante.
“Io se penso a te invece penso alla poesia” disse con slancio inaspettato Filippo. “Quella che mi hai sussurrato all’orecchio la nostra ultima notte. Mi piaci silenziosa perché sei come assente…”
“… mi senti da lontano e la mia voce non ti tocca” continuò Cristina come se stesse recitando il menù di un pranzo. “Facciamolo per davvero Filippo. Facciamo che da ora in poi intorno a noi rimanga solo silenzio. Come se non ci fossimo mai conosciuti”.
“Se mi lasci ti cancello. Film già visto” replicò lui.
“Tutto il contrario invece. Io non voglio cancellarti, voglio solo che da ora in poi qualunque sia la casualità che ci porti nello stesso luogo e nello stesso contesto, io e te si faccia come se non ci conoscessimo e per nessuna ragione al mondo volessimo conoscerci. Nessuna parola, nessuna domanda, nessun saluto di circostanza. Sconosciuti che non hanno alcun interesse a conoscersi”.
“Come faccio a immaginarti sconosciuta quando a occhi chiusi potrei mappare ogni tuo tatuaggio?”
“Come hai fatto a non amarmi più”? chiese Cristina come se stesse seguendo una sua trama interna.
Il the verde agli agrumi davanti a loro si era raffreddato senza esser sceso di nemmeno un millimetro nelle tazze.
I lunghi ricci spenti di Filippo rispecchiavano la sua anima, un groviglio di intenti morti, simili ai villi intestinali di un celiaco. Rasi, o quasi, al tappeto. Nulla nella sua vita poteva dirsi compiuto, tantomeno lui, re dell’irrisolto. La sua prestanza fisica era inversamente proporzionale a quella dell’anima, una fetta di gruviera morsicata, buona solo a sostenere appena la sua vanità.
Era stata Cristina a dare voce a quanto era accaduto mesi prima, non lui, incapace anche nella gestione dei sentimenti. Dire “non ti amo più” presupponeva un carattere deciso, forte di una scelta presa, masticata e poi sputata. Aveva quindi preferito un “non so più quello che sento” detto di striscio e quasi per sbaglio un mercoledì sera davanti a un filetto di sogliola bollita.
Cristina invece era di una precisione chirurgica quando affondava la lama nel suo vocabolario, soprattutto da sempre odiava le persone che parlavano per negazioni.
“Non so più quello che sento = so quello che sento = non ti amo più. Mi sembra chiaro Filippo, tutto molto elementare”, analizzò Cristina con la freddezza propria di chi pensa stia succedendo tutto a un’altra persona. Pochi minuti da quella frase ed era uscita dalla cucina, senza però chiudere la porta, lasciando Filippo con la sua sogliola spinata.
Erano passati due mesi di silenzi da quando le aveva detto “non so più quello che sento” ma era stata lei a chiedergli quel giorno di incontrarsi per un the, che poi ci si dice: “vediamoci per un the”, innalzando il the a protagonista dell’incontro quando invece il vero protagonista rimane sempre taciuto… anche in quel caso.
“Come hai fatto a non amarmi più?” insistette Cristina illudendosi di ricevere una risposta mirata.
“Accetto” rispose invece Filippo continuando a torturare le stanghette degli occhiali che si era tolto, poggiandoli sul tavolino.
“La tua proposta è folle” continuò “ma forse non c’è nulla di ordinario in tutta questa vicenda” le disse guardandole il sole stilizzato tatuato sulle vene del polso. Cristina era riuscita a definire nitidamente solo in quel momento chi aveva davanti. Una bozza d’uomo uscita dalla matita di un pittore distratto e, se glielo avesse detto, Filippo ne sarebbe andato fiero. Lui, l’artista incompreso alla ricerca della sua maledizione, trasposto in un’epoca sbagliata e senza spessore. L’artista che non si legava a niente e a nessuno, per non vedere il tempo riflesso sul volto di chi ogni giorno avrebbe trovato al suo fianco.
Si videro ancora. Molti anni dopo, a migliaia di chilometri di distanza. In Cina per l’esattezza. Filippo era stato trasferito a Pechino per un festival musicale che ogni anno attirava l’attenzione delle major di tutto il mondo, ma lui era lì senza troppi entusiasmi e senza aver provocato forti scossoni nel suo vivere quotidiano.
La vide in posa davanti al tempio sospeso, a Datong. I suoi lunghi capelli biondi si erano trasformati in un caschetto blu, il sorriso era quello di sempre. Dietro all’obiettivo un uomo distinto, alle cui gambe era avvinghiato un ragazzino in prima età scolare.
Filippo osservò la scena per quell’attimo di una foto che sembrò lunghissimo. Li seguì con lo sguardo muoversi costeggiando il fianco di quella montagna vertiginosa, uno dietro l’altro con il più piccolo sulle spalle dell’uomo. Quell’immagine piramidale da dietro sembrava un monumento nel monumento. Erano belli da guardare, pensava Filippo, erano la vita che scorre, le lancette di un orologio che si muovono, il tempo che cambia e questo sembrava non fargli più paura.
Erano passati anni, la promessa che si erano fatti al tavolo di quel bar forse era decaduta col tempo, come i diritti d’autore di una canzone, pensava Filippo.
La piramide si era scomposta, il più piccolo era rimasto rapito davanti alla statua del Buddha, circondato dai draghi. Filippo gli si avvicinò e guardandolo in un attimo si sentì a casa, su quella bocca pallida e carnosa si rivide allo specchio.
“Certo che fanno proprio paura!” esordì per uscire dal vortice in cui i suoi pensieri lo stavano portando.
“Sono fichissimi!” disse il piccolo. “Anche io sono un drago!”
“Ah sì? quando ti arrabbi sputi fuoco?”
“No, per quello c’è papà! Io attorciglio la lingua come i draghi!vedi?” disse ripiegando longitudinalmente la lingua su se stessa. “Non lo sa fare nessuno eh! Intendo nessuno della mia famiglia! La maestra a scuola ci ha detto che è una cosa genetica”.
“E cosa vuol dire genetica?”
“Che se hai gli occhi azzurri e i capelli biondi e la tua mamma e il tuo papà invece ce li hanno marroni allora sei stato scambiato nella culla”.
“Chiaro. Quindi tu sei stato scambiato nella culla vuoi dire…!”
“Oppure sono il figlio dell’idraulico” come dice mio cugino grande.
Su quelle parole Filippo scoppiò in una risata scomposta. Fu in quel momento che Cristina si accorse di lui. Riconobbe le spalle larghe, alla base di quel triangolo che puntava su due glutei alti e piatti, tremendamente privi di poesia.
Si fissarono intensamente, Filippo si portò gli occhiali in testa, i suoi occhi stavano anticipando meraviglie mai raccontate, ma bastò poco per fargli realizzare che le promesse non sono come i diritti d’autore.
“Ti ho detto migliaia di volte che non devi parlare con gli sconosciuti!” disse perentoria Cristina inginocchiandosi verso il piccolo. Quel movimento fece scendere i suoi jeans sotto l’osso sacro, svelando la coda di un tatuaggio nuovo.
“Ma quel signore era simpatico!” rispose girando lo sguardo indietro verso Filippo e facendogli l’occhiolino.
Filippo non stava più ridendo, pensò alla lingua del piccolo, sapeva di poter replicare quel gesto alla perfezione, ma ancora una volta quella clessidra vivente era una minaccia troppo forte da affrontare, si aggiustò gli occhiali sul naso e continuò a non vedere.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.