L’androide

Lui le fa un'improvvisata e non le menziona dell'incidente. E della sua metamorfosi. Un racconto di fantascienza di Giovanni Ferri

“Che pelle dura che hai” fa Naomi. “Vedi quanto ci cambia la vita”, dico senza menzionare l’incidente e la mia metamorfosi, “un tempo era la tua epidermide nera quella dura, ora non è più così”.
Le ho fatto un’improvvisata. “Sono a Londra e ho finito prima del previsto”. Al vecchio numero risponde ancora lei. “Vieni pure Gigio”, dopo un attimo di esitazione, la sua voce suadente non è cambiata. La City Line è in piena. A stento i treni ingoiano piccoli bocconi di folla. Nei vagoni le pance si sfregano. Rivedo quando l’avevo conquistata spazzolandole i seni con i miei folti baffi e mimando la voce di Topo Gigio. Ora so che se ne ricorda. Un punto a mio favore.
Quando entro mi stringe la mano a occhi chiusi. Strisciandomi le dita sul braccio confessa che è diventata cieca. A un certo punto l’oncocerchiasi si è rifatta viva e nessun farmaco ha più funzionato. La consolo dicendo che la scienza e la tecnica fanno miracoli. “Se vuoi ti presento un mio amico esperto di implantologia ottica”. Scuote la testa e desisto perché non vorrei dirle quello che è successo a me, almeno fino a quando non sarà il momento giusto.
Poi quelle carezze ruffiane sulla guancia. “Come sai se mi diverto? Se sono venuto a Londra per un party o per un funerale?” Ah, è il mio tremito sui suoi polpastrelli che le ha detto della tristezza che mi avvolge. Mi consola con un racconto dei vecchi amici, dei pochi con cui ci sentiamo ancora e di quelli di cui sappiamo attraverso di loro. Mette su la mia favorita, Ella Fitzgerald canta Lullaby of Birdland. Un tempo mi avrebbe fatto venire i brividi di piacere.
Sarebbe ora il momento di dirle del mio incidente, di come mi hanno salvato solo a metà dandomi una vita da androide. Ma Naomi non me ne da il tempo. Dato che mi sono calmato mi sdraia sul divano. A occhi chiusi mi scorre gli alluci sui glutei. Ora li preme danzando sulle mie vertebre, come tanti anni fa. Le prime volte pativo, poi avevo imparato a lasciarmi massaggiare nei modi più strani, fino a toccare il cielo quando il dolore sconfinava nel piacere.
Ora le sue mani risalgono la schiena. “Strano, non sudi più”, ma prosegue nella processione verso l’alto. A un tratto mi abbraccia e sente che non ho il cuore. Sa quello che deve fare. Striscia le dita sul mio collo, sotto all’attaccatura dei capelli. Non doveva accadere così ma lo accetto. Trova la matricola. Tasta il mio numero in rilievo. Si ferma pensosa. Le basta un clic per mettermi in standby.
“Anch’io ho avuto un incidente, sai”, si scioglie, “era prima del tuo e il mio modello da spesso questi problemi alla vista”, mi confida, “per il resto siamo pienamente compatibili”. Non ho il tempo di dire niente. Vedo ancora quando mi cava gli occhi. Spero che le servano solo quelli, così potrò continuare ad abbracciarla.

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