Siamo tutti alla ricerca della parola più giusta per scrivere la nostra storia. Ma qual è? Quella più musicale o la più forte? La più elementare o la più complicata? Gli scrittori devono saperlo altrimenti la loro vita sarebbe un inferno (e talvolta lo è!). Uno come Stephen King senza dubbio lo sa, riesce a trovarla da molti anni e non ha nessuna intenzione di smettere.
E poiché il 21 settembre King ha compiuto 72 anni, e poiché in questi giorni ho cominciato a leggere il suo nuovo romanzo, L’Istituto, e poiché contiene la bellezza di 576 pagine per non so quante migliaia di caratteri, e poiché ognuna di queste pagine contiene tante parole scelte con cura una per una, ho deciso di lasciare a lui il compito di raccontare la sua ricetta. Come fa in una pagina del suo libro On writing, una sorta di manuale di scrittura che è anche un’autobiografia letteraria, o viceversa.
Uno dei servizi peggiori che potete fare alla vostra scrittura è pompare il vocabolario, cercare paroloni perché magari vi vergognate un po’ della semplicità del vostro parlare corrente. È come mettere il vestito da sera al cagnolino di casa. Il cane sarà imbarazzato e la persona che si è resa colpevole di questo atto di premeditata affettazione dovrebbe esserlo ancora di più. Giurate solennemente seduta stante che non userete mai «emolumento» quando intendete «mancia» e non direte mai «John si fermò per un’evacuazione» quando intendete «John si fermò a cagare.» Se pensate che «cagare» possa essere considerato offensivo o inopportuno dal vostro pubblico, sentitevi liberi di mettere «John si fermò per andare di corpo» (o magari «John si fermò per un bisogno impellente»). Non vi sto incitando al linguaggio sporco, solo a un linguaggio semplice e diretto. Ricordate che la regola fondamentale del vocabolario è: usate la prima parola che vi viene in mente, se è appropriata e colorita. Se esitate e vi mettete a riflettere, vi verrà in mente un’altra parola, è ovvio, perché c’è sempre un’altra parola, ma probabilmente non sarà buona come la prima o altrettanto significativa. Il problema di ciò che volete dire è fondamentale. Se ne dubitate, pensate a tutte le volte che avete sentito qualcuno affermare: «Non so proprio come descriverlo», oppure: «Non è quello che intendo.» Pensate a tutte le volte che voi vi siete espressi, di solito in un tono di lieve o profonda frustrazione. La parola è solo una rappresentazione del significato; anche nel migliore dei casi, la scrittura resta quasi sempre un passo indietro rispetto al pieno significato. Stando così le cose, perché in nome di Dio dovreste peggiorare la situazione scegliendo una parola che è solo cugina di quella che avevate veramente intenzione di usare? E considerate senz’altro ciò che è più adatto; come ha osservato una volta George Carlin, in certi ambienti va benissimo cazzare la scotta, ma è quanto mai inopportuno scottarsi il cazzo.
Come avrete notato, in questo breve brano King, non solo rivela come lui sceglie le parole, ma contemporaneamente gioca con il suo stesso linguaggio, adattandolo allo stile che in quel momento sta commentando. Quando critica chi “pompa il vocabolario”, dice: Giurate solennemente seduta stante (che è una frase decisamente “pompata”). E via così.
Diavolo di un King.