Come tutti i Sabato mattina, giro come un cecchino per le vie di Roma. Un Cecchino armato di macchina fotografica: Miro, metto a fuoco e… scatto, scatto e scatto ancora.
Fermo la vita della vecchia che si trascina le buste della spesa stracolme: spuntano 2 baguette e il giallo acceso delle arance. Fermo la vita del bambino che palleggia e segue con lo sguardo il pallone che si alza in aria. Fermo la vita di quel barbone ingrigito dal tempo e dalla sporcizia che sonnecchia a lato della strada.
Senza togliere lo sguardo dall’obbiettivo giro lentamente la testa da destra a sinistra nell’attesa di trovare la prossima vittima. Ed eccola lì.
Seduta al tavolino di quel bar in fondo alla strada: indossa un vestito estivo che mostra spalle abbronzate. Scatto mentre prova a sistemarsi i lunghi capelli neri in una coda di cavallo.
Ormai la vittima e colpita, potrei o forse dovrei cambiare obbiettivo, ma invece no. Quasi ipnotizzato comincio ad avvicinarmi e continuo a scattare. Come in una sequenza in slow–motion la vedo sollevare la tazzina di fronte a lei; poggiare le labbra sul bordo; beve.
Senza farci nemmeno caso sono a un metro da lei. Abbasso per un istante la macchina, lasciandola dondolare appesa al collo:
– Ciao.
Non si gira, continua a sorseggiare da quella tazza come se nulla fosse.
Ma certo! Deve essere straniera. Provo a ricordare qualcosa delle lezioni di inglese fatte al liceo. Ma mi ricordo solo le partite a tris e a battaglia navale. Mi sforzo chiudo anche gli occhi, ma niente… Eccolo in un angolo buio della memoria:
– Hi, nice to meet you.
Poggia la tazza sul tavolino senza degnarmi di uno sguardo. Mi lancio come un bambino, davanti al suo viso
– Bhu.
L’obbiettivo oscilla e colpisce la tazzina che si rovescia sparando schizzi di caffè. Lei riesce a mala pena a seguire la traiettoria con lo sguardo. La chiazza nera si stampa in mezzo al decoltè e comincia ad allargarsi. Si volta di scatto e mi fulmina con lo sguardo, poi con voce gutturale, di gola e lenta quasi affaticata:
– Stronzo.
Come un bambino appena ripreso osserva la marachella compiuta così io fisso la macchia. Lei mi passa una mano davanti agli occhi e con la stessa voce ingolata e lenta:
– Deficiente, sono qui.
Alzo lo sguardo.
– … È che non rispondevi… e non sapevo come…
Indica ritmicamente l’orecchio col dito indice, poi ancora quella voce che dalla gola sembra spinta di forza fuori:
– Sono sorda.
Come una fucilata quella frase mi trapassa il petto. Abbasso lo sguardo e rivedo la macchia stampata sul decoltè a testimoniare la mia coglionagine. Comincio a urlare a rallentare le parole:
– Aspetta ci penso io.
Senza ragionare, prendo un pugno di fazzolettini dal porta tovaglioli sul tavolo, poi ci sputo sopra. Urlo talmente tanto da far girare i vecchi seduti a due tavoli più in là:
– I metodi della nonna non falliscono mai.
Mentre mi avvicino al vestito e alla macchia pronto per strofinare, lei mi dà una gomitata
– Cazzo fai?
Sarà pure sorda, ma le parolacce le pronuncia benissimo.
La guardo e urlo:
– Scusa.
Questa volta mi sente anche il barista, nel bar, mentre schiuma un cappuccino.
Voglio solo fuggire. Mi giro sto per impugnare la mia macchina fotografica, ma quella voce strana, ormai familiare.
– Siediti.
Sembra più un ordine che un invito ma la macchia sul vestito non mi permette di rifiutare.
Mi siedo.
Mi dà la mano e pronuncia chiaramente:
– Mia.
La fisso per qualche secondo, poi mi guardo intorno. Balbetto:
– Giovanni.
Poi silenzio: Il fruscio del vento tra gli alberi; il tintinnio dei bicchieri che il cameriere sistema sul vassoio: mi sembra anche di sentire il cigolio delle anche dei due vecchi che si alzano dal tavolo. Ma lei non sente niente. Riprendo a urlare:
– Vuoi un altro caffè?
Mi aiuto facendo anche il gesto con la mano.
– Giuro di non rovesciarlo più…
Mi fa un mezzo sorriso.
– La smetti di urlare? Sono sorda mica deficiente.
Ordino due caffè. Mentre il cameriere si allontana cerco di imbastire una conversazione:
– Senti, scusa per prima?
Impallidisco di colpo. Che cazzo ho detto?
– No non è che non senti… cioè sì non senti ma volevo dire che…
Guardo l’orologio, poi la porta del bar ma i caffè non sembrano arrivare.
Inizio a sudare e resto con lo sguardo fisso sulla porta del bar. Poi lei interrompe il silenzio:
– Bella quella macchina.
Sollevo lentamente la macchina fotografica, la impugno quasi accarezzo l’obiettivo e poi faccio quello che faccio sempre quando non so che dire: fotografo.
– Lei è mia amica.
Appoggio l’occhio al mirino, Mia davanti al mio obbiettivo solleva i capelli e sorride. Scatto. La sua voce non sembra nemmeno più tanto strana:
– Perché?
Mia porta i capelli in avanti, sembra quasi la sorella del cugino Itt. Sposta un ciuffo all’altezza della bocca e fa la linguaccia.
– Ferma i momenti. Li rende eterni.
Intanto arriva Il cameriere, poggia il vassoio sul tavolo e porge i caffè. Scatto. Lei solleva la tazzina e comincia a bere. Fa uno scatto all’indietro e stacca improvvisamente le labbra dalla tazzina. Scatto.
– Vedi poi a volte le immagini parlano da sole… le parole sono superflue.
La mia frase mi coglie di sorpresa. Abbasso la macchina fotografica e bevo anche io il mio caffè. Senza smettere di guardare mia. E mi scotto anche io. Ridiamo come due cretini. Tenta di insegnarmi il linguaggio dei segni.
Mette l’indice e il medio all’altezza del mento e le porta verso di me e dice:
– Grazie.
Ci provo io. Metto l’indice e il medio all’altezza delle labbra e le porto verso di lei. Ripeto:
– Grazie.
Mia ride:
– No, bacio.
Mette l’indice e il medio all’altezza del mento e le porta verso di me, poi mette le stesse dita all’altezza delle labbra e le porto verso me:
– Grazie per il bacio.
Ride.
Sì ok è simpatica, vorrei rivederla. Che le dico: Risentiamoci? No aspetta dammi il tuo numero? Così finito il caffè mi alzo dal tavolo. Mi chiedo solo fino a che punto le parole sono superflue. Mi sento picchettare sulla spalla.
Mi giro e lei mi bacia. La mia mano tocca involontariamente la macchina attaccata al collo. Scatto e non mi faccio più domande.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.