Non ho mai deciso molto in vita mia, però studio la regia del mio funerale e mi scrivo il discorso finale da me, perché almeno stavolta voglio avere l’ultima parola. Mi spetta.
Ho abbastanza tempo (forse) per programmare ogni dettaglio, per poter rammentare a chi rimane tutto il bello che mi porto via.
— Era una donna che odiava il rossetto sui denti.
No, non posso iniziare così. A parte che mica parlerò io, per cui, potrei far dire:
— Era una donna che odiava i denti sporchi di rossetto delle vecchie, perciò ha deciso di non diventare anziana.
Non sono invecchiata per non rendermi ridicola agli occhi degli altri, perché sono generosa con loro e con me, ma nessuno capirebbe da una frase davvero tanto scema. Oltretutto non sono io che decido di cambiare dimensione. No.
Allora potremmo provare con:
— Quelle come lei non invecchiano. Le donne come lei si spengono una volta al giorno come il sole, e poi per sempre.
Però mi pare patetico. Bello, magari, ma patetico.
— Quelle come lei se ne vanno in silenzio.
Io in silenzio mai. Probabilmente deflagrerò nella mia stanza al momento del trapasso. Sono rumorosa, in silenzio mai niente, mai niente. Mai.
— Quelle come lei sanno amare la vita tanto da andarsene al momento giusto.
Che potrebbe essere vero, ma magari i miei figli potrebbero non trovarsi d’accordo: li lascio che sono ancora dei ragazzini e io sono una cinquantenne con un solo ciuffo di capelli bianchi in mezzo a un brulichio di ricci biondi. Neppure vecchia, senza rossetto sui denti, certo, ma neppure un po’ vecchia e già me ne vado.
Me ne vado via in fretta e col terrore acceso negli occhi degli altri che restano.
— Quelle come lei lasciano il vuoto e il terrore negli occhi di chi rimane. L’abisso del silenzio perenne.
Ah, ma io neppure da morta saprò stare zitta, che credete? Verrò a parlarvi interferendo coi canali della televisione e i miei figli sapranno che sono io, proprio io, a rompere le palle come sempre, mentre stanno battendo il calcio di rigore alla finale dei Mondiali.
Che devono dire allora? Cosa possono dire che parli di me, davvero di me?
— Quelle come lei non esistono.
Infatti non esisto più neppure io. No, non va bene neanche questo.
— Quelle come lei sono piene d’amore.
Questo è vero. E in sottofondo metterei “When I’m gone” di Phil Ochs, cantata da Ani Difranco, così comincerò a piangere anche io che sono morta. E nessuno mi sentirà, ma succedeva anche quando ero viva.
— Quelle come lei sono piene d’amore e si godono la vita, perché ne conoscono la fragilità. E si battono per non averne paura, per non abbandonarsi alla sensazione che ogni cosa visibile sia infinitamente labile.
Ecco, labile. Io sono stata labile, lo sono stata in ogni cosa.
— Quelle come lei si battono per non avere paura, ma ne hanno e ne hanno tanta, costantemente e la vincono ogni giorno. Sanno attendere il sole del tramonto e godersi il calore di ogni istante. Sanno vivere vicine agli altri e nel mentre occuparsene.
Una badante, praticamente, una badante di una soap opera.
Cosa cazzo deve dire uno per raccontare qualcosa di me? Mi immagino la chiesa gremita, le persone in lacrime, pure quelle che mi hanno sempre detestata, ma che adesso però si sentono in colpa perché sono morta e sembra loro di mancarmi di rispetto a pensarmi ancora la stronza che mi hanno sempre considerato.
Al primo banco ci saranno mio marito, mia madre e i miei figli, belli miei, pieni di me. I miei fratelli sederanno dall’altro lato. Lascerò che a leggere il mio discorso sia la mia più cara amica Beatrice. Sarà il testamento di una donna che non ha saputo fare la differenza, ma che comunque aveva qualcosa da dire, almeno alla fine.
E Beatrice percorrerà trafelata la navata, in lacrime, con una gonna troppo corta e del tutto inappropriata per il mio funerale. Cercherà di leggere quello che avrò scritto io, quello che ora non mi viene in mente, ma che sarà una bomba. E non avrà fiato per via del pianto e nessuno, tranne la prima fila, capirà una parola di quello che sta dicendo. Ma tutti piangeranno, così, sulla fiducia e da contratto: ai funerali si deve piangere. Al mio piangeranno tutti, mentre guarderanno le cosce magre di Beatrice e cercheranno di capire, fra un sospiro e l’altro, cosa mando a dire. Vi perdono. Forse. O forse no.
E siccome piangeranno pure quelli che mi detestano, ecco che Beatrice li cercherà fra la folla e li guarderà come avrei fatto io: le lascerò una lista dettagliata di nomi. Vi perdono un cazzo!
Ani Difranco mi consegnerà ai presenti come la donna colta che non mi sono mai premurata di essere. Mi farò seppellire con una foto di Favignana e il ricordo di tutti i giorni che ho trascorso pensandone uno, uno solo, come metro e misura di quanto possano aver fatto schifo i mille altri trascorsi nel nulla. Eppure mi è piaciuto così tanto esserci, pure quando faceva schifo. I miei figli piangeranno e io li consolerò quotidianamente nelle loro abitudini, che tanto somiglieranno alle mie. Solo per loro avrei voluto vivere ancora e sarò proprio io a dar loro il dolore più grande e non potrò essere lì a curarli, a guarirli come sempre. Allora lascerò una lettera che mio marito darà loro:
“Paolo mio, ogni tanto ti capiterà di odiare qualcuno o che tu non piaccia a qualcun altro. Serve pure questo, ché non è sempre amore per tutti ed esiste chi ti fa torto davvero e con intenzione; il tuo amore la gente se lo deve meritare. E tu, Sebastiano, tu che sei stato il mio puntello, la ripartenza vera di ogni versione di me, tu invece impara a farti piacere qualcuno, che soli si vive male e lo so che nessuno è come te, ma l’amore degli altri serve. Io vi sorveglio e la notte vengo da voi, mentre dormite, a baciarvi e a dirvi ancora che siete il solo posto al mondo in cui tornerei a costo di essere dannata per l’eternità”. Ecco, questa l’ho già scritta.
Beatrice finirà la sua orazione, che poi è la mia, e usciremo tutti dalla chiesa. Io sola farò un viaggio senza ritorno, ma le mie parole echeggeranno nell’aria per un po’.
Al sole, perché morirò d’estate, tutti mi saluteranno commossi. Beatrice avrà il rimmel colato per il pianto, ma sorriderà ugualmente con un po’ di rossetto sui denti così, giusto per onorarmi e non fare la cosa giusta, perché mai, mai, io ne ho fatta una.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.