HA VISTO L’ASSASSINO

Putrusìnu viene chiamato a rapporto dal capobastone Cittarrà. Putrusìnu non ha fatto esattamente quello che il capobastone gli ha ordinato

All’ordine di don Michele Cittarà, Putrusìnu entra nella stanza, fa pochi passi e si ferma con le braccia penzoloni. Le imposte socchiuse lasciano passare nette fettucce di sole che svelano pulviscolo sospeso, trapassato dalla sagoma scura del capobastone seduto dietro al tavolo. Nella zona più in ombra intravede i due verso cui Cittarà stava sbraitando: finge di non accorgersene. Il ronzio delle mosche e il grattìo della lama del serramanico per togliere lo sporco dalle unghie, mascherano il silenzio. L’odore dolciastro di Linetti prevale su quello di muffa.

«Don Michele…». 

Il saluto del carrettiere riceve appena la sua attenzione, anzi disturba la grezza toletta su cui era concentrato; l’interrompe e, con lo stesso coltello, come sempre, comincia a sbucciare finemente una mela e ad affettarla. Mastica lento il primo boccone e non distoglie lo sguardo dal quadro che ha di fronte: raffigura un cavallo bianco lanciato al galoppo da Mastrosso, ed è valorizzato da una massiccia cornice intarsiata, rivestita di lamine dorate. In paese solo il capobastone può permettersi oggetti di questo valore.

«Hai dovuto ammazzare qualcuno pure tu?» gli chiede sarcastico continuando a fissare il quadro.

Putrusìnu aveva l’ordine preciso di raccogliere il cadavere del sindacalista e gettarlo nella porcilaia del casale, per darlo in pasto ai maiali. Poi i sicari hanno ucciso anche le guardie, e il morto è rimasto lì. Perciò non ha fatto quello che gli è stato comandato di fare. Neanche i due sicari hanno eseguito i suoi ordini e ora sono costretti a stare lì, imbalsamati, quasi invisibili.

«No don Michele, io a nessuno ammazzài: ce lo giuro!».

«Ecco; avete visto come si fa?» riprende rivolgendosi a Zzomburùtu e Milòrdu. «Bravo Putrusi’! Però il morto l’hai lasciato là.»

Deve rispondere senza dire paura, pensare o scappare: «Don Michele, con quel macello se mi vedeva qualcuno eravamo fottuti…».

«E non ti ha visto nessuno, giusto?».

«Giustissimo: nessuno mi vitti» risponde d’impeto, poi ingenuamente: «Aveva nghjornàtu da poco, in quella zona non c’è mai nessuno a quell’ora. Però…», e si blocca intimorito per la reazione che potrebbe suscitare la sua rivelazione.

«Però cosa? Conchiùdi Putrusi’: però cos’è successo?» dice calmo e rassicurante Cittarà, mentre il rumore del coltello che taglia un altro pezzetto di mela infrange il silenzio calato di nuovo nella stanza. «Ho capito, vuoi dirmelo a quattr’occhi?» chiede ammucchiando le bucce.

Il carrettiere annuisce.

«Voi due, cazzuni, andativìnni!, ma restate in zona che poi vi voglio parlare» e con un gesto della testa allontana i sicari, mentre addenta il pezzo di mela. Il bifolco si volta dall’altra parte per non violare la seconda regola della ‘ndrina: l’identità di un sicario dev’essere nota solo al capobastone e, se tutto va bene, al sicario stesso!

«Avanti: siamo soli, ora. Dici!».

«Don Michele, prima di arrivare al boschetto, al curvone della conceria, per poco un furgone mi ammazzava il cavallo, per quanto ha stretto la curva.»

«E che me ne fotte!».

«Voscienza, il furgone veniva dallo spiazzo. E andava a tutta velocità.»

«Putrusi’, che me ne fotte a mia?».

«Eccellenza, penso che stava scappando per non essere visto.»

«Ma cu’?».

«U pajècu che ci stava ammazzando!».

«Quant’è vera la Madonna di Polsi, mi staiu ‘ncazzannu, Putrusi’! Ma che me ne fotte?!».

«Don Michele, il furgone veniva dallo spiazzo. Dico che chi lo portava ha visto tutto. E stava scappando!».

«Uhm, e se iddu non vitti, quacchedunu vitti a iddu accìriri i carrubineri…», per la prima volta Cittarà guarda il carrettiere: «E chi era questo che stava scappando?».

«Era il Leoncino blu dell’Ina Casa. Il cassone era pieno di pietre.»

«Putrusi’ ora ti scanno: ma a chi guidava l’hai visto o no?».

Se Putrusìnu non glielo dice il posto nella porcilaia è il suo.

«Ahu, muto addivintàsti? Hai perso la memoria?» distende le braccia sul tavolo.

«No, per carità don Michele: Littorina era. Littorina guidava» risponde di getto, sentendosi costretto come quando dovette immobilizzare un pastore affinché il capobastone potesse riempirgli la bocca di merda secca di pecora – fino quasi a soffocarlo – solo perché si era rifiutato di cedere il bestiame alla ‘ndrina.

«Cu’ era?».

«Littorina, u figghiu piccittu del capostazione: Duccio!».

Cittarà si pulisce il baffetto pizzuto con la mano; e poi la mano, addosso. Si alza lentamente facendosi indietro con la sedia. Gli si pone di fronte e gli poggia le mani sulle spalle, compiaciuto. «E bravo a Putrusìnu. Ora devi fare un’ultima cosa per don Michele tuo: la fai, vero?».

Sono salvo, pensa: «Tutto quello che volete, eccellenza!».

«Allora, adesso te ne vai dritto-dritto al fontanile, e dici alle lavannare che alla contrada Parasone, stamattina all’alba, c’è stato un chìndici-diciotto. E che qualcheduno ha visto scappare questo Duccio. Vacci subito; ci penseranno le donne a vociare in paese.»

«Cosa fatta, don Michele» l’ossequia, congedandosi con un inchino riverente.

«Putrusi’» lo chiama, «se sei bravo, alla prossima riunione ti nomino picciotto d’onore!».

«Sarà fatto, voscienza!» risponde euforico alla promessa, andando verso la porta.

«Putrusi’» lo richiama, «ma se combini bordelli…».

«Nessun bordello, don Michele: statevi tranquillo» e gli sorride apertamente, soddisfatto di come sia andato l’incontro.

«Putrusi’, vieni qua, va» gli ordina fermandolo, mentre raccoglie tutte le scorze della mela in una mano: «Avvicinati». Poi con l’altra mano lo afferra dalla nuca e gli preme il viso su quelle bucce che gli sfrega come pomice su un callo: «Non ti permettere più di ridermi in faccia, Putrusi’! E ora, vattene. E vedi che devi fare.»

Uscito dalla stanza il carrettiere riconosce i sicari nell’anticamera e, istintivamente, li saluta: è la cosa peggiore che abbia potuto fare! Spera di non essere stato sentito e si affretta a lasciare la casa pulendosi la faccia impiastricciata di succo di mela, con la manica della giacca.

Il tanfo dei maiali è nauseante quando si ferma, chiamato ancora dal capobastone.

«Comandate, voscienza.»

Don Michele gli fa cenno di aspettarlo e lo raggiunge a passo lento, nascondendo il serramanico.

«Ci ho ripensato» è l’ultima cosa che Putrusìnu sente, stretto nell’abbraccio che lo schiaccia sulla lama bagnata di mela che gli trafigge due volte lo stomaco e tre il fianco. Quando viene spinto oltre il recinto della porcilaia non è più lucido. Il grugnito dei maiali che gli si avventano addosso copre il rantolo.

«Ci andrà Milordu al fontanile» dice don Michele, appoggiato sulla staccionata, guardando il corpo di Putrusìnu diventare cibo.

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Ernesto Berretti

In un palazzone al centro di Catania, da bambino giocava a fare il giornale, sdraiato a pancia in giù sul pavimento di marmo, su un foglio enorme, scarto di rotativa. Crescendo, la vita gli ha portato regate, medaglie, trasferimenti, lavoro, impegni familiari, missioni militari. Ma quel giornale, scrivere, era l’essenza, era ciò che avrebbe voluto fare. Voleva riuscire a scrivere per provare emozioni e, magari, per condividerle. Dicono sia successo con il suo libro “Non ne sapevo niente. Serbia 1995, Danube Mission le rivelazioni di un Basco Blu” (Oltre, 2019) e a lui piace pensare che sia così.

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