Contrappasso

Hai mai pensato che gli altri possono mostrarsi diversi da come sono, se questo gli può fare comodo?

Non credevo che morire fosse così. Lì per lì ti senti leggero, non hai più dolori, non te ne frega più niente, sei anche allegro.

Fluttui in una bambagia incomprensibile e non sai per quanto tempo e dove vai a finire. Pare che lo spazio e il tempo non esistano.

Poi ti sembra di essere tornato vivo, e scopri che sei nella tua camera ardente.

C’è una bara già chiusa, con una foto incorniciata posata sul coperchio e qualche corona di fiori a terra.

Mi piazzo spalle al muro dietro la bara, così posso vedere in faccia la gente che viene a salutarmi.

Penso che non voglio le facce di circostanza, gli occhi bassi, le parole da manuale, i “quanto era bravo” seguiti dai “sì, sì, però”.

Penso a chi mi piacerebbe che venisse.

E a chi preferirei che non lo facesse.

I parenti li iscriverei in ordine sparso nelle due liste; gli amici veri saranno comunque gli unici a esserci; preferirei non rivedere in questo modo le donne che hanno significato qualcosa nella mia vita, ma che proprio per questo vorrei rincontrare.

Alla fine mi perdo fantasticando e non guardo chi c’è e chi no.

Me ne sto assorto a considerare la bara, pensando che forse me la sarei scelta di un altro colore, ma che tanto finirà bruciata.

O no? Non mi ricordo se ho lasciato disposizioni. E se uno non lo fa che succede? Niente: faranno come gli pare, litigheranno sul fatto che io abbia detto o meno qualcosa a qualcuno. Come peraltro hanno sempre fatto.

Mi concentro sulle facce.

E mi accorgo che non ne riconosco nemmeno una.

Non è possibile, io nella vita qualcuno l’ho conosciuto, possibile che non venga nessuno? E chi è invece questa gente?

Non è che ho sbagliato camera ardente? Beh, da vivo ne sarei stato capace. Ma se uno è rincoglionito ci rimane anche da morto? Sai che palle, per tutta l’eternità?

Mi sporgo a guardare la foto sulla bara.

No, no, sono proprio io.

È a questo punto che mi sento chiamare.

Mi giro sorpreso. Accanto a me ci sono Luigi e Alessandro.

«Ma come…»

Luigi ridacchia. Non lo vedo da una vita, il ghigno è rimasto lo stesso, ma lui sta molto meglio di un tempo. Alessandro è sempre uguale, sorride sornione tra i peli radi della barba, arrossendo un poco.

«Ti chiedi come facciamo a vederti?»

«Eh, direi».

«Sarà perché siamo morti anche noi, che dici?»

Già non devo avere un bel colorito, ma impallidisco.

«Mi dispiace, non ne sapevo niente».

I due si guardano con un cenno d’intesa.

«E certo, sei sparito, ovvio. E adesso non iniziare a cercare scuse come fai sempre».

Provo a protestare.

«Però nessuno mi ha avvertito, mettiamola anche così».

«Come se fosse facile».

«È stato sempre difficile fare amicizia con te, ma era più difficile mantenerla, questo lo sai, no?».

Abbasso lo sguardo. Mi sa che hanno ragione.

Tento di cambiare discorso indicando la gente che continua a scorrere davanti alla bara.

«Ma tutta questa gente chi è? Io non conosco nessuno».

Loro mi guardano con commiserazione.

«Sì che li conosci. Solo che guardandoli da questa parte li vedi come sono davvero».

«Non capisco».

Luigi mi si avvicina e mi sussurra in un orecchio.

«Hai mai pensato che gli altri possono mostrarsi diversi da come sono, se questo gli può fare comodo?»

«Certo, però io voi vi vedo come vi vedevo prima».

«Beh, noi invece da vivo ti vedevamo bello e intelligente».

Colgo l’antifona.

«Cioè volete dire che anche io avevo una maschera e voi no?»

Non rispondono.

È vero. Quando ho iniziato a mettere insieme la mia vita, ho un pezzo per volta mollato gli ormeggi con i rapporti del passato, per fare posto a quello che veniva, senza aderenze con il me stesso di prima, e così in qualche modo cancellando anche loro, che erano stati compagni di studi, di bisbocce, di viaggi, di tutto.

E avevo fatto altre scelte. Esagerando.

«Insomma ragazzi, ma ora che volete che faccia?»

Luigi e Alessandro ridacchiano.

«Certo non è che ti possiamo lasciar passare così».

«Lasciar passare dove?».

«Diciamo che non ti puoi fermare qui e basta».

«Hai una possibilità, una sola, per farti perdonare».

«Cioè?»

«Esci da quella parte. Troverai un corpo qualunque. Lo indossi e torni qui, tutti ti vedranno ma non ti riconosceranno», inizia Alessandro. Poi passa la palla a Luigi.

«A questo punto arrivi davanti alla bara e parli male ad alta voce di te, accusandoti di tutte le brutte cose che hai fatto».

«Ma siete matti? E se non lo faccio?»

«Rimani per sempre qui a rimuginare senza riconoscere nessuno».

«Devo proprio?»

«Sei libero», risponde Luigi, serio, «ma poi dovrai accettare le conseguenze».

Tacciono. Penso.

Li guardo. Aspettano.

Vado.

Come mi hanno detto i due, trovo un corpo, appeso a un appendi… appendi che? Vabbè, quello. E lo riconosco, è il corpo di Luigi. Perfetto contrappasso. Mi basta toccarlo per infilarmici dentro. Mi sta largo, strana sensazione, che anche lo spirito abbia una sua misura? Non indago oltre. Mi dirigo alla porta della camera ardente e mi accingo al mio défilé. Si fa per dire. Assumo un’espressione da combattimento, mi piazzo davanti alla bara, guardo intorno per vedere se riconosco qualcuno o se mi guardano, negative entrambe le opzioni, non vedo nemmeno Alessandro e Luigi, ma certamente staranno da qualche parte a verificare che io svolga il compito.

Tiro un profondo respiro, e parto.

«Eccoti qua, brutto stronzo, ce l’hai fatta finalmente ad andartene! Voi lo sapete chi era questo qui?», mi rivolgo all’esterrefatto pubblico che si blocca in un fermo immagine a guardarmi. «Questo era un disgraziato profittatore, egoista e malfidato. Magari non rubava, non ammazzava, non faceva cosacce, si lavava pure, però…», mi godo un attimo di pausa girando lo sguardo sulla gente, chiudo gli occhi,  faccio una pausa per ricacciare un pensiero, deglutisco e sparo. «Soprattutto ha abbandonato me, il suo migliore amico. Ecco chi era!»

A questo punto mi verrebbe un monologo shakespeariano sul cadavere di Cesare, ma vengo brutalmente interrotto da due marcantoni che mi afferrano da ambo i lati e mi trascinano via, mentre continuo a urlare parolacce contro la mia bara.

Mi ritrovo nel retro, e mi accorgo che i miei due ghostbusters sono Luigi e Alessandro, che mi mollano e scoppiano a ridere.

«Cazzo, sei un attore nato!»

«Diciamo un attore morto, piuttosto!»

Anche loro indossano dei corpi fittizi, di cui si liberano, e mi affretto a imitarli.

«Siete soddisfatti, adesso?», chiedo.

Si guardano storcendo il naso.

«Insomma…»

«Che volete, ancora?», sbotto.

Colgo uno sguardo d’intesa.

«Che andiamo a farci una birra. Ovvio che paghi tu!»

 

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