Insieme alle tre spose di Ahmed, scortavamo Nuur verso la casa del futuro marito. Mancava circa mezz’ora alle 5. L’afa di settembre rendeva l’aria umida e pesante. Boccheggiavo sotto le fitte fila di cotone del mio burqa da cerimonia. Le altre dovevano essere affaticate quanto me, dal momento che riuscivo a percepire i loro respiri affannati divenire sempre più rumorosi ad ogni passo mosso per le strade polverose di Kandahar. Ebbi pure l’impressione di udire i singhiozzi soffocati di Nuur. Avevamo trascorso i pomeriggi di quell’estate ad imparare ad andare sullo skateboard e le uniche lacrime che avevamo conosciuto in quei giorni erano quelle che accompagnavano le nostre risate divertite o quelle che solcavano le nostre guance dopo qualche buffa caduta. Quella semplicità, però, non esisteva più. Io l’avevo abbandonata già da qualche settimana, ad appena 14 anni. l’Imam Kaliq mi aveva concessa a Bashir per 300 mila afghani. Il nostro Nikah si tenne subito, il giorno seguente la stipula del contratto. E adesso sarebbe toccato a Nuur, congedarsi dalla spensieratezza della giovinezza per indossare le vesti di moglie di un soldato. Le dicevano che avrebbe dovuto essere grata di poter condividere il letto con un uomo della fama di Ahmed e che la prole che Allah avrebbe regalato loro sarebbe stato vero, se non unico motivo di orgoglio per lei.
Quella mattina Nuur aveva fortemente voluto che mi occupassi dell’Henna nuziale. Con un pennello a punta sottile avevo realizzato un gioco di forme e linee che, partendo dai polsi le disegnava con delicatezza il dorso della mano sino a cingere le sue lunghe dita ossute. Mi ci vollero alcune ore per concludere l’opera e intanto due delle mogli di Ahmed provvedevano a truccarla e a conciarle i lunghi capelli bruni in una alta coda, poi attorcigliata in uno chignon un po’ scomposto. Nel frattempo la più anziana di quelle accoglieva in moschea le donne che portavano vari doni alla futura sposa.
Fu davvero difficile trovare il momento giusto per poter parlare con Nuur. Se le spose di Ahmed ci avessero sentito mi avrebbero allontanato dalla moschea e non avrei potuto partecipare alla cerimonia. Bashir sarebbe stato furioso.
“Sono felice che tu sia qui oggi Suraya. Sei la famiglia che mi rimane” mi sussurrò Nuur, guardandomi con i suoi grandi occhi neri incorniciati da una spesso strato di kajal che le dava un tocco regale, mentre le dipingevo le mani.
Ricambiai il suo sguardo e sorrisi.
“Sei meravigliosa Nuur.” le sussurrai. “Stasera lascia che accada. Non scappare. Sii più furba” le dissi a denti stretti.
Seguì un istante di silenzio. Rassegnazione, forse. E un forte senso di inadeguatezza. Il giorno del mio Nikah lo ricordo in maniera confusa. Non era molto chiara la sorte cui stessi andando incontro. La madre di Bashir mi disse che quella sera avrei dovuto rendere felice mio marito. Sostenne peraltro che avevano pagato fior di afghani per una buona moglie e io non avrei dovuto deludere le aspettative.
Diedi un ultimo bacio sulla fronte sudata di Nuur e tornammo ai preparativi delle nozze.
Il percorso che portava dalla piccola moschea alla dimora di Ahmed attraversava schiere di baracche alternate a recinti di animali. Per tutto il cammino, circa 2 chilometri, fummo bersaglio della curiosità di molti. Alcune donne, a turno, si avvicinarono a Nuur, augurandole di essere benedetta dalla gioia di dare alla luce tanti figli maschi e rendere così fiero il marito. Degli uomini fuori da una bottega interruppero la loro discussione e volsero i loro sguardi verso di noi senza proferire parola.
Una volta giunte al luogo della cerimonia fui trascinata via da una delle mogli di Ahmed mentre Nuur veniva afferrata da una anziana. Questa le fece strada tra la folla che si era riunita per i festeggiamenti. Si fermarono davanti uno spazio circolare delimitato da bassi blocchi di paglia compressa, realizzato sullo sterrato che si apriva alla destra della casa. La donna fece cenno a Nadia di entrare e venne fatta posizionare con le spalle rivolte verso l’edificio. Un ragazzo dai lunghi capelli crespi, col capo coperto da un pakol grigio con davanti un pennacchio sgangherato le si avvicinò. Teneva in mano una corda al cui capo era legata una capra dal manto marrone. L’animale si guardava attorno e procedeva rigidamente trascinata per il cappio. L’uomo spintonò l’animale per due o tre volte prima di arrivare vicino alla sposa. La folla lo accolse con animati applausi e un fragoroso strepito invase il cortile. Il ragazzo issò un peshqabz dal manico dorato ed intarsiato di pietre verde splendente, che parevano riprendere l’abito nuziale di Nuur. Poi prese ad incitare la folla all’urlo del Takbir.
“Allahu Akbaru” urlò sollevando ancora più in alto la lama.
“Allahu Akbaru” rispose la folla all’unisono.
La bestia intanto girava su sé stessa irrequieta. Due ragazzini si fecero avanti ed immobilizzarono la capra pressando la schiena di questa contro il terreno. Uno dei due teneva strette tutte e quattro le zampe e manteneva i suoi piedi vicini al corpo dell’animale. L’altro invece sfilò dal collo il cappio e, dopo aver serrato le mani sulla testa dell’animale, per impedirgli qualsiasi movimento, fece cenno all’uomo col pugnale. Questo volse prima uno sguardo a Nuur poi, giunto sopra la bestia si voltò verso la folla e recitò:
“Bismi Illahi al-Rahmani al-Rahimi” in nome di Allah Clemente e misericordioso
Si chinò e con un singolo movimento deciso incise la gola della capra da orecchio ad orecchio. L’animale lanciò un ultimo strepito che risuonò come un lamento gutturale, annegando nel suo stesso sangue.
Il sangue dell’animale penetrò l’arido sterrato sottostante. Si formò presto un’ampia pozza rossa che non poté giungere ai nostri piedi giacché la paglia in terra ne ostacolò il cammino.
Quel fluire rosso sembrava portare gioia e felicità a quelli che mi stavano attorno. Una soddisfazione simile a quella della madre di Bashir quando, atteso che il figlio avesse lasciato la mia camera da letto la sera del nostro Nikah, vi fece irruzione per controllare lo stato delle lenzuola bianche che ci avevano ospitato poco prima. Poi si voltò verso di me ed indicandomi la chiazza di sangue che le ricopriva si complimentò. Mi disse che ero stata brava, che avevo fatto il mio dovere. Poggiò in terra delle altre lenzuola, ordinandomi di mettere a posto, di fare il letto e mettermi a dormire perché la mattina dopo mi avrebbe mostrato come preparare alcuni dei piatti che avrei dovuto cucinare a mio marito.
L’uomo col pakol si chinò sul corpo inerme del sacrificio, intinse le dita nel sangue e ne gettò alcuni copiosi schizzi sui sandali di Nuur.
La folla in festa si adunò attorno alla sposa e prese a cantare augurandole una buona sorte grazie alla misericordia di Allah. Intanto due militari sollevarono la carcassa dell’animale e l’appesero dalle zampe posteriori su di un gancio da macellaio, di metallo annerito, che pendeva dalla tettoia di una capanna sul retro della casa.
La folla si separò ordinatamente in due file: sulla destra le donne e a sinistra gli uomini. Una volta entrate, la sorella e la madre di Ahmed ci fecero accomodare nella grande sala da cerimonia, ornata per l’occasione con lunghi drappeggi color oro. Le donne occuparono la destra della stanza mentre gli uomini rimasero a sinistra.
L’attesa durò qualche minuto, poi gli sposi fecero il loro ingresso e i musicisti intonarono Ahesta Boro.
Il matrimonio proseguì senza problemi. La casa era presidiata da decine di soldati armati. Bashir mi aveva confessato che il rischio di un attentato Hazara era davvero alto, soprattutto in occasione delle nozze di uno dei più autorevoli comandanti Pashtun, e Ahmed poteva considerarsi tale. Ma gli uomini con gli occhi del diavolo, quella sera, non si presentarono.
Terminate le varie portate, il rito dell’Aina Musaf fu veloce. Gli sposi, uniti sotto il telo nuziale, lessero un passo del Corano, guardando ciascuno l’immagine dell’altro riflessa sullo specchio e si imboccarono reciprocamente della maleena. Dopodiché promisero di seguire i dettami della Sharia e di non ricorrere mai ad aborto e contraccezione. Infine i due si congedarono dagli invitati in sala e si diressero verso il piano superiore. Seguì Nuur con lo sguardo sino a che mi fu possibile. Avrei voluto urlare e portarla via da quell’uomo che aveva 4 volte i suoi anni. Ma non ne ebbi il coraggio. Così corsi verso di lei e l’abbracciai. Intanto Bashir mi era già addosso, pronto ad allontanarmi intimandomi di stare al mio posto. Ebbi giusto il tempo di bisbigliarle “Stasera lascia che accada. Non scappare. Sii più furba di lui e scegli di sopravvivere”. Non poté vedere i suoi occhi. Si voltò. Ahmed le poggiò una mano sul fianco e si allontanarono. E il lungo velo verde scomparve dalle scale.