Ragni invisibili

È difficile stabilire quando un’idea si trasforma in ossessione. Un pensiero timido, coccolato in segreto e poi liberato fuori dai confini della privacy dove l’avevamo nutrito finora, assume dimensioni impreviste e si avventura in spazi inesplorati. Ha fame di realtà, come Pinocchio vuole diventare un bambino vero.

Come se non bastasse faceva un caldo infernale.

Il nostro condominio era bello, i tre palazzi si affacciavano su una piazzetta interna con delle panche in acciaio e una grande aiuola di fiori rossi. Vi si accedeva da una strada poco trafficata, e gli appartamenti avevano finestre di dimensioni ragionevoli per gli standard britannici. Certo, non c’era l’ascensore, ma io vivevo nel basement flat e comunque non ne avrei fatto uso. Chissà se a lui mancava invece; doveva essere una gran sfacchinata arrivare lassù in cima alle scale con le buste della spesa. In effetti lui era più tipo da spesa online – una volta avevo incrociato il corriere di Waitrose che citofonava al flat 9 – e poi cosa vuoi che sia qualche rampa di scale per un ragazzo sano e ancora giovane. Si teneva in forma lui, riceveva spesso anche pacchi da Decathlon.

Essere in Europa è strano, qui davvero la città si è spopolata. All’inizio faticavo a crederci, poi il silenzio si è fatto sempre più profondo, fino a diventare l’unico elemento che mi sembrava reale. Solo le bici erano aumentate nel parcheggio, vicino all’entrata del mio appartamento. Nessuno vuole prendere più i trasporti pubblici.

Cominciai subito a lavorare da casa rendendomi conto che il mio ruolo non richiedeva la presenza fisica; avrei potuto farlo prima e forse avrei continuato anche dopo l’emergenza.

Ero a Londra da un anno, e avevo l’impressione di essermi circondata di conoscenze rilevanti, persone simili a me con cui condividevo il pub dopo l’ufficio, i compleanni ai quali ero accidentalmente invitata, e l’occasionale uscita in discoteca. Avevo scaricato anche una dating app – la curiosità è in me più forte del cinismo – che mi aveva garantito un paio di uscite interessanti. Per qualche motivo queste situazioni si esaurivano alla seconda nottata insieme, le facce dei tipi sbiadivano, colavano come inchiostro sotto la pioggia e di loro non rimaneva che una sensazione di intrattenimento slavato, tutto sommato rimpiazzabile. E così doveva accadere per loro nei miei confronti.

Ci vollero un paio di settimane, forse tre, per tastare con mano il livello tragico della mia solitudine. Le esperienze vissute con le persone frequentate finora non erano un motore abbastanza forte da azionare una relazione a distanza, anche solo di amicizia.

E se all’inizio non mi dispiaceva aggiornarmi sull’offerta completa di serie televisive su Netflix, film francesi su Mubi, e classici italiani che trovavo in streaming, presto mi feci raggiungere dall’inquietudine, sollecitata dal volo isterico delle quattro mosche che braccate dal caldo finivano imprigionate nel mio bilocale.

In tempi normali questo sole sarebbe stato un trionfo di vita. La bolgia pulsante di cui è fatta questa città, tutta la massa umana che si riversa in festa in qualsiasi interstizio verde e a cielo aperto, a bere, vociare, fare casino. Stavolta i prati sono vuoti, lasciati a ingiallire invano, mentre all’interno delle case si consumano violenze e nascono nuovi disturbi mentali.

Lui l’avevo già notato, si può dire che mi piacque moltissimo da subito. Anche prima del lockdown buttavo l’occhio sulla pila di posta all’ingresso, era divertente capire cosa leggesse (London Review of Books, Granta, New Yorker), per il resto non riceveva gran che, non era un tipo consumista. Durante la quarantena questa presenza di carta, il suo nome sulle scatole di cartone e le sue apparizioni nella piazzetta interna, che attraversava solo per raggiungere il suo edificio, cominciarono a essere per me degli appuntamenti spontanei. Mi tenevano compagnia, ravvivavano monotonia spezzando le giornate solitarie.

Cominciai a tendere l’orecchio spesso e volentieri, nella penombra delle mie stanze surriscaldate, cercando di captare l’entrata di una bici, sperando che fosse la sua – eventualità molto rara, perchè lui aveva la macchina (Smart nera) e la parcheggiava fuori – e uscendo con sacchetti della spazzatura inesistenti per non perdermi l’occasione di un incontro fortuito.

È difficile stabilire quando un’idea si trasforma in ossessione. Un pensiero timido, coccolato in segreto e poi liberato fuori dai confini della privacy dove l’avevamo nutrito finora, assume dimensioni impreviste e si avventura in spazi inesplorati. Ha fame di realtà, come Pinocchio vuole diventare un bambino vero.

Presi ad allungare le pause pranzo, il mio lavoro mi consentiva di organizzarmi il tempo in modo indipendente. Ecco che ordinavo un costume nuovo su Asos, un intero nero abbastanza sobrio e urbano, con cui mi sdraiavo sulle panchine della piazzetta a mangiare carote con humus. Altri inquilini avevano usato lo spazio comune per i pasti, sapevo che era consentito. Ogni tanto c’era un bambino che si esercitava a pallone con la nonna, e una coppia di ventenni che orbitavano tutto il giorno intorno al cortile, si trasferivano lì con lo stereo, il caffè, e degli asciugamani per stendersi.

Anche così riuscii ad incontrarlo solo un paio di volte.

Alto, spesso con una camicia chiara, già un po’ abbronzato. Percorreva quei pochi metri con un’espressione seria, smentita poi dal piglio solare del saluto educato che rivolgeva a me o agli altri fortunati che si trovavano in piazzetta.

– Good morning, all good?

I dovuti commenti sul meteo sensazionale, e spariva inghiottito dalla porta a vetri del suo palazzo. Poi me ne tornavo in casa, intontita dalla sua apparizione, mai appagata. Ero frustrata, iniziai ad appostarmi lì più spesso, facevo pause in orari ingiustificati.

Il mio umore andava deteriorandosi mentre il paese vedeva il numero dei morti per il virus sfondare il primato europeo.

Mi sentivo marcire in quel loculo angusto, alla luce impietosa dello specchio del bagno la mia pelle era verdastra malgrado le incursioni al sole, compiute solo nella speranza di incontrare M.

Mia madre mi scrutava nel riquadro della videochiamata di Zoom, sospettosa.

– Stai bene?

Diceva avvicinandosi troppo alla camera. Il primo piano era brutale anche per lei, le si vedevano i peletti neri intorno al labbro superiore.

Le mosche ora avevano rallentato il volo, alcune optavano per un suicidio stanco nel lavello della cucina, altre si ostinavano a sbattere sullo schermo del Mac. Mangiavo poco e male, un numero imprecisato di tazze piene a metà di tè ormai gelido decoravano le poche superfici dell’appartamento. Rimuginavo tutto il giorno, mi serviva un pretesto credibile per instaurare una conversazione che andasse più in là delle sciocchezze sul meteo.

Il pragmatismo di cui mi sono servita sempre nelle avversità della vita mi stava abbandonando; mi venne un’idea infantile, più da romanzo rosa per casalinghe che da trentenne moderna. In effetti sono una mente matematica, non un’artista.

Mi inventai così un ladro di posta, un ipotetico inquilino disonesto che arraffava i miei acquisti all’ingresso, dove venivano lasciati dal postino.

Un ladro cattivo che faceva di me la donzella in difficoltà, come in ogni cliché narrativo.

Appesi diversi cartelli in cui denunciavo la scomparsa dei miei averi e intimavo in tono severo e implicitamente accusatorio di restituirli al più presto. Aggiunsi un riferimento alle telecamere presenti nel palazzo, per rendere il tutto più realistico.

Poi, un martedì sera (avevo notato che M. usciva spesso durante la settimana alle sei in punto) scesi con il mio misero sacchetto dell’immondizia, che faticavo ad accumulare dato il continuo utilizzo del pretesto. Cominciavo a indovinare la sua routine, l’esattezza dei miei calcoli fu una prima gratificazione.

Parlammo poco, evidentemente M. non sapeva nulla del furto, ma fu educato nel mostrarsi indignato per la mia perdita, e adorabile nel condire il breve discorso con un paio di battute spigliate. Aveva i modi disinvolti di qualcuno a cui ancora era concesso il lusso di avere a che fare con altri esseri umani.

– Well, enjoy your evening.

Quando mi augurò una buona serata, con le chiavi di casa in mano e già un piede sulle scale (taglia 45, era il numero che avevo letto sulla scatola Nike che una volta aveva abbandonato nel bidone del riciclo), riuscì a farmi credere per una manciata di minuti che davvero sarebbe stata una serata piacevole.

Tornai nel flat 1, dove l’insoddisfazione mi stanò di nuovo.

Nei giorni seguenti decisi di distrarmi. Mi concentrai di più sul lavoro e arrivai persino a connettermi su Tinder. Un nuovo incontro virtuale sarebbe stato un buon diversivo, magari avrebbe scacciato l’ossessione per M.

Bisogna riconoscere che i miei sforzi erano ancora sinceri allora.

Riuscii a scambiarmi qualche messaggio con un tipo di nome Josh, faceva l’IT consultant come me. Interagimmo sporadicamente consigliandoci serie tv e parlando di cosa avremmo voluto fare come priorità appena il lockdown fosse finito. Fu piacevole, finchè lui non mi mandò una foto del suo membro eretto e io non ebbi il coraggio né la fantasia di proseguire.

Ricominciai a monitorare la vita di M., più di prima e con maggiore dedizione.

L’occasione perfetta però arrivò senza il mio intervento, si può dire che mi cadde dal cielo, ovvero uscì dalla tasca dei suoi jeans.

La pestai con un piede in garage mentre uscivo a fare la spesa. Raccolsi la carta da terra tastando con le dita le lettere in rilievo, e leggendo il suo nome sotto quello della banca una volta raggiunto il fascio di luce che veniva dalla strada.

Mi si aprì davanti un mondo di possibilità fino ad allora insperate: come usare questa fortuna nel modo più conveniente? Presentarsi sul suo pianerottolo o contattarlo online? Ormai avevo una scusa più che rispettabile per utilizzare i suoi dettagli.

Optai per la seconda opzione: avrei avuto più tempo a mio vantaggio per prepararmi all’incontro di persona, quando gli avrei restituito la carta.

Provai a rintracciarlo su Facebook, poi su Instagram, mi apparvero dei profili di omonimi italiani ma nessuna delle foto corrispondeva al suo viso. Digitavo frenetica sulla tastiera, Google mi aiutò a scovarlo su Linkedin. Evidentemente era una persona seria se non aveva ceduto al morbo dei social. Ebbi un fremito di emozione, questi dettagli buttavano legna al fuoco della mia febbrile infatuazione.

Dormii con il cellulare sul cuscino, volevo essere pronta a ricevere la sua risposta.

Mi svegliai con gli occhi gonfi e uno scarso numero di ore di sonno alle spalle, nonostante l’iphone fosse rimasto silenzioso. Mi trascinai in bagno per sciacquarmi la faccia, ma quando la liberai dall’asciugamano la scoprii piena di piccole pustole rosse. Piccoli puntini pruriginosi mi costellavano il mento, le guance e la fronte. Sembrava morbillo.

Mi infilai una tuta e uscii per le strade desolate in cerca di un Boots aperto. Entrai invece in una farmacia locale dopo aver percorso una breve fila distanziata. Un foglio A4 attaccato sulla vetrina informava i clienti dell’esaurimento di mascherine, disinfettante per mani e guanti.

L’impiegata alla cassa, anche lei asiatica, mi scrutò con espressione neutra e con voce altrettanto piatta decretò:

– It’s a bug.

Il mio cervello era più lento del normale a causa della mancata assunzione di caffeina e dello scarso riposo, per un secondo interpretai la frase in gergo informatico. Pensai che con il termine bug si riferisse ad un errore del sistema, forse un difetto della programmazione del mio organismo.

Doveva essere un ragno, o un altro genere di animaletto infido di quelli che si infilano nei tessuti delle lenzuola.

Mi diressi verso casa con l’intenzione di applicarmi al più presto i micro cerotti trasparenti che mi erano stati consigliati:

– Put this and don’t scratch the spots.

Sulla strada del ritorno mi fermai a prendere un croissant da Waitrose, fu lì che li vidi.

Non lo riconobbi subito – stentiamo a visualizzare le immagini quando ci appaiono fuori dal loro contesto abituale, io lui lo avevo sempre e solo visto all’interno del perimetro condominiale – in realtà notai prima lei: la sua coda di cavallo disordinata spuntava al di sopra degli scaffali della corsia della pasta. Una risata a singhiozzo e qualche parola emessa in quella lingua musicale avevano attirato la mia attenzione al reparto bakery.

Rideva in un modo deliziato che mi impose di seguire il suo sguardo, spinta dalla curiosità verso l’oggetto di tanta ilarità. E allora riconobbi la testa bruna di M., di fatto era ancora più vicino a me di quanto non lo fosse lei. Le stava dicendo qualcosa di inaccessibile per me, non solo perché intraducibile ma perché espresso con un timbro di voce e un tono diverso, una melodia irriverente di cui le nostre aride interazioni tra inquilini erano prive.

Avvampai, ebbi l’impulso irrazionale di nascondermi. Frenai l’istinto, realizzai di essere completamente invisibile, non solo per loro ma per ogni individuo che si trovava in quel momento a condividere seppur solo geograficamente l’esperienza del supermercato.

Ero diventata un fantasma.

Feci in modo di trovarmi dietro di loro in fila per le casse automatiche.

M. spingeva il carrello parzialmente pieno di cibi nutrienti e poco pretenziosi come uova, pasta, zucchine e tonno in scatola. Alimenti realistici da cucinare non con la conquista di una notte ma con un partner abituale, qualcuno che attraversi con noi la monotonia – intesa come routine piacevole – che segue dopo lo sfoggio iniziale di piatti capolavoro serviti da ristoranti più o meno rinomati e accompagnati da bollicine afrodisiache.

Mi sentii mancare.

Lei appoggiò una mano su quella di lui, e rimasero agganciati in quella stretta assistita dal manico del carrello. Immaginai il calore trasmesso dalla mano elegante di M. sulla pelle di lei.

Abbandonai la busta di carta con il croissant sulla corsia degli snack e uscii dal negozio.

Ero disposta a tutto pur di non compromettere la mia fantasia, ciò che mi aveva mantenuta umana durante quel periodo di clausura e vita robotica.

Vagai per il vicinato senza riconoscere la mia città, e sbandando a ogni curva mi lasciai condurre a casa dalle gambe malferme.

All’interno l’aria stagnante odorava di banane andate a male, compravo sempre troppa frutta e la disponevo come una natura morta in una ciotola. La muffa è aggressiva a Londra, il mio era un piano interrato devastato dall’umidità.

Stavo finendo di coprirmi le punture di ragno con gli appositi cerotti, quando mia sorella mi chiamò su Skype. Pensai che volesse parlare con me, invece voleva parlare con il fantasma, sfogarsi del suo marito inutile e liberarsi dalle preoccupazioni sul crescente razzismo alimentato da Trump, che seguitava a definire la malattia come “il virus cinese”. Solo alla fine, prima di attaccare, parve accorgersi del mio volto in video:

– By the way you look like shit.

Fuori ancora un sole oltraggioso da isola caraibica. Ero indecisa se concedermi il lusso degli psicofarmaci, un avanzo di ansiolitici che mi aveva prescritto il doctor Smith quando papà se ne era andato. Li avevo smessi a causa degli effetti collaterali, non sapevo gestirli e avevo preferito affrontare la tristezza con una più sana alternanza di sport e alcol. Non ricordavo nulla delle controindicazioni, o piuttosto scelsi di dimenticarmene. Formidabile come la memoria selettiva sceglie i suoi strumenti a seconda dei nostri desideri e bisogni più impellenti al momento presente.

Buttai giù una dose di droga che ritenni ragionevole secondo la mia auto-diagnosi, e mi addormentai.

Mi svegliai che era buio, la bocca impiastricciata di un sonno chimico, fatto di colla. Raccolsi il cellulare con un braccio che sentii pesantissimo, come riempito di sabbia.

C’era una notifica di LinkedIn: M. mi ringraziava moltissimo e mi chiedeva di incontrarci la mattina seguente in piazzetta così avrei potuto restituirgli la carta. Erano parole gentili e formali. Me le feci bastare. Mi nutrii di quei messaggi stringati, ci ricamai sopra finché non ricaddi in un dormiveglia melmoso.

Il lembo di sole che era penetrato dalla tapparella e aveva raggiunto il cuscino fu come una carezza stavolta, un buon sole, un sole propizio! Mi dissi, sguazzando ancora per una decina di minuti in quel groviglio di lenzuola sudate e ottimismo medicinale.

Da lì a due ore avrei incontrato M.

Mi spazzolai i capelli seduta sul ciglio del materasso, aspettando il borbottio del bollitore che avevo messo su per il caffè solubile.

Deve essere stato in quel momento che mi tornò in mente del giorno prima, del supermercato, della mano di lei sulle sue nocche scure. E se è vero che il pensiero mi fece male, la scena mi sembrò distante, meno reale dei messaggi che M. mi aveva scritto su LinkedIn, premendo invio e trasmettendo un codice che permetteva di leggerli e rileggerli.

Credo che così come io mi sentivo sbiadire al cospetto del mondo, un fantasma sfocato, in modo analogo anche i rapporti con tutto ciò che mi circondava, la dimensione di eventi e abitanti in carne ed ossa, si facevano sempre più arbitrari. A un certo punto credo di aver pensato al mondo come una grossa matrice, simile alla rete digitale, fatta di codici e algoritmi. Rapporti numerici che potevano essere manomessi, sequenze di linguaggio da hackerare a mio piacimento. Come mi dilettavo a fare con il sito dell’università, meno di dieci anni prima.

Questo ragionamento mi seduceva molto più che una possibile accettazione della mia solitudine, del mio fallimento come essere umano in relazione con gli altri.

Buttai giù altre due pasticche.

Col senno di poi non credo sia stata una buona mossa.

Le controindicazioni con cui mi ero confrontata in passato – tra le più violente e complicate tra quelle descritte sul foglietto illustrativo – cominciarono a tornarmi in mente. Preannunciate prima da un leggero tremito delle mani e da un accenno di tachicardia, poi dal velo di sudore febbrile che in mezz’ora mi ricoprì la pelle. Gli effetti fisici erano semplici da gestire in confronto agli scompensi mentali ai quali – ora ricordavo – dovevo prepararmi.

Ma il tempo scivolò, e furono le 11.

Sentivo caldo, indossai solo degli shorts sopra il costume intero e mi avviai in piazzetta. Ero euforica, nonostante i brividi che mi percorrevano la schiena. Lo vidi in piedi davanti all’aiuola, uomo italiano su sfondo di gerani, ma prima di aprire la porta mi accorsi di non avere la carta.

Tornai indietro senza che lui si accorgesse della mia presenza. Per la seconda volta percorsi la moquette del corridoio interno, aprii il portoncino di vetro e lo raggiunsi.

– Hey thanks so much for this.

Mi concesse un sorriso con gli occhi un po’ strizzati alla luce, a distanza di sicurezza.

Gli raccontai di come avevo trovato la carta a pochi metri dall’entrata del mio appartamento, la porta che dà sul garage. Ero sorpresa di poter riferire la verità, al contrario di quanto non fosse avvenuto durante la nostra ultima conversazione sul ladro di posta.

– That is so lucky, thanks again.

Seguirono gli ennesimi convenevoli sulla temperatura estiva, e un altro suo sorriso definitivo.

Dovevo osare di più.

– You know I am kind of going crazy on my own. It’s dark in my flat and I got none to see…

Arrestai lo scorrere di una prima goccia di sudore sulla tempia, con il dito incontrai uno strato di carta lì sulla fronte. Avevo ancora tutti i cerotti sulle bolle di insetto.

Ritrassi la mano, umiliata. Riuscii ad emettere una risatina tesa. M. sembrò seguire la mia mano con gli occhi riuscendo a non indugiare sulle punture, clemente.

– Well I can imagine. Ok, enjoy the sun then and see you around.

Salutai e battei in ritirata.

Tornata alla base mi accasciai sulla sedia con le ruote, facendola slittare per il contraccolpo fino alla parete. La mia testa batté sul muro innestando il mal di testa che già era in agguato.

Mi sentivo reduce da uno sforzo immane.

La visione della ragazza del supermercato contaminava il bel momento appena trascorso con M., il piacevole risultato dei miei sforzi da cui normalmente avrei tratto un po’ di gioia.

Nel vago delirio che ormai attraversavo grazie ai farmaci, vedevo me stessa come una sobria maestra in piedi alla lavagna, tutta intenta a snocciolare equazioni, e lei come una bambina capricciosa che mi scarabocchiava alla spalle, imbrattando tutto di gesso colorato.

Avrei voluto tornare a due giorni prima, quando ancora questa consapevolezza non aveva macchiato la mia illusione preferita.

Non sono più tanto sicura di come si svolsero i fatti dopo quella mattina. Conosco il risultato perché è riportato sui giornali, e perché ne dovrò rendere conto nei prossimi anni sottoponendomi a vari processi e scontando il prezzo delle mie azioni…

Finii gli psicofarmaci. O è forse più corretto dire che loro finirono me, anche se non intendo giustificare in alcun modo ciò che successe dopo.

Di giorno non uscivo più, la luce era diventata troppo aggressiva e aggravava l’emicrania cronica che tenevo a bada con panni imbevuti di acqua fredda. Li poggiavo sulla fronte e rimanevo supina nella penombra, il computer sempre acceso su qualche serie che non guardavo.

Ignoravo le chiamate di mia madre, non osavo risponderle su Skype, ero fin troppo consapevole dei solchi che mi bordavano gli occhi e delle labbra solcate da screpolature.

A volte riuscivo ad alzarmi di sera e andavo in piazzetta. Si creava un effetto sonoro da anfiteatro, dalle caselle dei balconi circostanti mi giungevano brusii di cene, voci dell’intimità altrui. Una volta li sentii. La voce femminile mi arrivò sottile, poco più di una zanzara, seguita da quella di M. inconfondibile nella sua declinazione privata, la stessa con cui le si rivolgeva al supermercato.

A lavoro mi diedi malata, suscitando nel mio team una moderata preoccupazione, tanto che mi fecero recapitare un test diagnostico per il covid-19.

Sebbene le mie funzioni vitali fossero ridotte al minimo, sentivo un’energia anomala scorrermi sotto pelle. Era una frequenza ridotta, a malapena un sussurro, ma io vivevo nel silenzio dove ogni mormorio aveva l’eco di un urlo.

HACK THE MATRIX 

HACK THE WORLD

THE VOID IS REAL

Mi lasciai slittare verso percezioni distorte, i contorni delle cose mi ingannavano e mi mostravano nuovi percorsi. Pur essendo bloccata a letto per la maggior parte del tempo mi sentivo più potente che mai, la mia mente una torre di controllo capace di riorganizzare ogni dimensione.

Il resto lo feci sull’onda di questo sentimento di onnipotenza che mi aveva posseduta, gli eventi mi caddero addosso come un fenomeno naturale.

Di nuovo, l’occasione perfetta si presentò senza che io la cercassi. Esattamente come quando – ah i bei tempi andati – M. aveva perso la carta. Mi piacevano le coincidenze, la simmetria e i cerchi che si chiudono.

Anche il luogo fu lo stesso. Da quando non stavo bene ogni tanto mi sedevo a fumare in garage, traendo sollievo dal fresco di un riparo buio, vicino alla rastrelliera dove erano parcheggiate le bici dei vari inquilini.

Quella sera appunto, ero accovacciata tra una triciclo – avevo poggiato l’acqua e le sigarette nel cestino rosa sul manubrio –  e una matassa di ganci di plastica. L’avevo tastata con mano svogliata e avevo riconosciuto un groviglio di cappi di nylon, quelli che si comprano per imballare qualcosa e possono essere usati per legare la bici, come una catena usa e getta.

La sigaretta era finita, mi ero appoggiata al muro con la schiena e ascoltavo il mio battito del cuore congestionato, quando lei discese la scaletta e spuntò nel vano.

Ancora non capisco come mai proprio quella sera abbia scelto di andarsene attraverso quell’uscita, passando per il garage. Non era il suo condominio, e non aveva lasciato lì né la bici né la macchina. Certo è difficile non pensare a una sorta di destino in questi casi.

Lei non poté vedermi, lo sguardo poco abituato al buio non arrivava alla mia postazione. Io invece seppi subito che era lei, nonostante l’avessi vista una volta sola e avessi tentato di scordarmi anche quella.

Mi alzai dal mio angolo, guadagnai un paio di metri. Allora sembrò vedermi, lo capii dalla rigidità della sagoma illuminata appena dalla luce proveniente dalle scale, dietro di lei. Vidi le braccia magre lungo i fianchi, leggermente separate dal corpo per la sorpresa.

Non disse nulla.

In poche falcate le fui addosso. Non ricordo di aver organizzato i pensieri per agire, ma è vero che mi trovai uno dei cappi di nylon nella mano destra. Non fece in tempo a gridare, le spinsi la fronte contro un pilastro di cemento, sentii il suo corpo farsi subito pesante contro il mio mentre le infilavo il cappio alla testa. Strinsi forte, per dieci secondi fu quasi un abbraccio. Odorava di basilico e di shampoo alla camomilla. Quando la lasciai andare ricadde giù lungo il pilastro come un mucchietto di ossa, una ciocca di capelli rimase attaccata al mio Swatch strappandosi a rallentatore.

Non la guardai mai in faccia.

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