L’abbuffet

Un incontro di lavoro si trasforma in una scena pericolosamente vicina a un'opera di Picasso.

Sono in treno, nel mio sedile sul corridoio, giro lo sguardo intorno. E la vedo. Lei. Silvia.

Non faccio in tempo a decidere una tattica, che i nostri occhi si incrociano.

Mi guarda e abbozza una specie di sorriso, non so se sia un invito ad avvicinarmi.

Rispondo replicando il suo gesto poi, vedendo che accanto a lei non c’è nessuno, mi alzo e mi avvicino.

«Ma sei proprio tu?» Lo diciamo in contemporanea. Ridiamo.

Vengo a sapere che vive dove sto andando io, che anche lei ha tentato di scrivere, che lavora in una libreria.

«Ma tu cosa sei in viaggio a fare?»

Ha preso un accento nuovo, è strano sentirla parlare.

«Vado per una mostra di fumetti».

«Quindi ti fermi qualche giorno?»

«Beh, non lo so, dipende da come si mettono le cose».

«E dove alloggi?»

«Veramente non lo so ancora. Pensavo di cercare una stanza appena arrivato».

«Se vuoi ti posso ospitare io. Sto in centro, è molto facile muoversi».

Non so cosa rispondere, mi risolverebbe un problema, però mi sento salire un fastidioso formicolio…

«Non ti fidi?», sorride. Sorrido anche io.

«È che non vorrei esserti di peso», cerco di salvarmi in corner.

«Ah! Sono attrezzata per queste emergenze. Allora va bene?»

«Allora va bene», dico con la sensazione che non vada bene per niente.

Scendiamo dal treno, mi dice che abbiamo tempo di passare a casa a posare i bagagli, poi mi spiegherà come andare alla mostra. Attraversiamo qualche stradina del centro, arriviamo davanti a un portone dall’aria vissuta, saliamo una stretta scala (ovviamente non c’è ascensore, ovviamente è l’ultimo piano), e sbuchiamo in un bicamere con angolo cottura incorporato. Un gioiellino, a prima vista. Tranne che la vista è subito offuscata da una massa scura che ci investe, calda e umida.

Un cane o un orso? Lei è tutta premurosa e coccolosa.

«Non ti dà fastidio Ciccio, vero?»

Dipende tutto dalla posizione della virgola. Se fosse prima del nome, Ciccio sarei io, e mi pare impossibile, quindi la virgola è dopo, e Ciccio è lui. Rispondo che adoro i cani, sempre che sia un cane. E sempre che mi stia distante, ma questo non lo dico.

Non coglie la mia battuta.

«Senti, io andrei alla mostra, se mi spieghi come arrivarci e come tornare».

«Ma ti accompagniamo!», fa lei.

Andrebbe anche bene. È il plurale che non mi piace.

Usciamo, con Ciccio appresso, o meglio appresso a Ciccio, visto che è lui a trainare noi.

Ci troviamo di fronte a uno spazio recintato, cartelli e locandine indicano trattarsi della nostra meta. Una fila di gente mascherata da videogiochi e manga si accalca all’ingresso.

Biascico qualcosa a Silvia, sul fatto che il cane non può entrare (spero sia vero), e mi precipito dentro.

Il capo è già qui, accanto al buffet, e sta inutilmente cercando di inzuppare un tramezzino dentro un aperitivo, segretaria appiccicata al fianco. Mi nascondo dietro una colonna per comparire facendo credere che ero già dentro.

«Buonasera».

Il capo mi guarda, ha la bocca piena, emette un grugnito, deglutisce in fretta, butta giù l’ennesimo bicchiere di qualcosa, mi da una pacca sulle spalle e mi mette in mano un bicchiere, per avere la scusa di prendersene un altro anche lui.

Vorrei essere a chilometri di distanza. Cerco di scivolare oltre, poi borbotto qualcosa di indefinito al capo, che non sembra fare caso a me, afferro un paio di tartine ed esco. Silvia e Ciccio sono addossati al parcheggio, lui accucciato in terra e lei un po’scocciata.

«Scusa, ma dovevo farmi vedere dal capo». Le porgo le tartine, e improvvisamente qualcosa mi investe e me le sfila di mano. Ciccio si è svegliato con uno scatto insospettabile, e adesso è tornato nella posizione originaria. Appena un’ombra di mascelle in movimento. Nient’altro. Se non sapessi che non può essere stato che lui, avrei dei dubbi sul fatto di aver mai avuto in mano due tartine. Silvia ride. C’è abituata.

«Mi piacerebbe entrare», dice. Guardo lei e guardo Ciccio.

«No, ma lui è buonissimo, non aver paura, sa stare al suo posto».

«Anche di fronte al tavolo del buffet?»

Lei considera la cosa, evidentemente devo averci preso.

«Se me lo tieni, io faccio un giro veloce, poi torno, me lo riprendo e vado a casa. Tanto ci puoi raggiungere da solo, no? La strada non è difficile».

Mi ritrovo con il guinzaglio in mano prima di proferire risposta.

Mentre sto pascolando Ciccio tenendolo fuori portata, sbircio da una finestra quello che sta accadendo dentro. Vedo il capo che adocchia Silvia, guardandola con più intensità del buffet, non che mi riguardi, ma in ogni caso la cosa non mi piace, sento di dover intervenire, convengo con me stesso che c’è solo una cosa da fare.

Mi avvicino alla porta del padiglione e slego Ciccio.

Con un lungo mugolio, che forse è un grido di battaglia, la mole canina si dilegua verso l’interno, e io resto sulla porta a godermi la scena.

All’interno ci saranno una trentina di persone ignare, occupate a ingozzarsi o a chiacchierare tra loro.

Ciccio annusa, fa qualche passo ritmato, silenzioso, quasi pensasse di non farsi notare.

Poi salta sul tavolo ed è un crescendo.

Un bolide nero che si avventa sul tavolo del buffet, planando tra piatti e bicchieri che iniziano a vacillare, e quindi a piovere in terra frantumandosi, e il cane, usando la tovaglia come un tapis-roulant, scivola per tutta la lunghezza del tavolo, Le persone che si trovano sulla traiettoria fanno un salto indietro, qualcuno riesce a fuggire terrorizzato abbandonando quello che ha in mano, che finisce in terra in un trionfo di cocci e briciole; quelli che stanno dietro vengono schiacciati, si alzano urla e imprecazioni. Una scena degna di Guernica, con Ciccio al posto del toro.

Vedo la faccia del capo aprirsi in una smorfia di dolore nel considerare la perdita di tutta quella buona roba da mangiare e da bere, cerca di afferrare qualcosa e nascondersi. Vedo la segretaria venire trascinata dalla tovaglia a cui è rimasta infilzata con una spilla che le chiude il vestito. Vedo un tizio travolto da una gragnola di arrosticini che vanno a infilzarlo, quasi inchiodandolo alla parete, mentre un’altra scivola su qualcosa di spiaccicato in terra, salvandosi sotto il tavolo un attimo prima del frontale con Ciccio che impatta piatti, sventra vetri, spande panna, squarta tartine, torce torte. Si alzano urla, prima di sorpresa poi di terrore, qualcuno fa in tempo a evitare lo tsunami, altri vengono travolti da Ciccio che vedendoli ricoperti di panna e creme li succhia avidamente, poi riprende la corsa folle, spuma saliva, frange fritti, crepa crepes, spoglia sfoglie, schiaccia cocci, spezza pizzette, sguazza salse, incigna pandispagna, impegola intingoli, investe, rovescia, azzanna, ringhia, rutta, digrigna, senza vergogna, sparge spruzzi, spruzza olezzi. Sembra di essere in una gigantesca tavola di Jacovitti, ci sono anche fette di salame che volano.

All’estremità del lungo tavolo, plausibile punto d’arrivo e d’impatto della scivolata cagnesca, Silvia, allibita, inzuppata di zuppa inglese e frutta sciroppata, esplode in un urlo disperato.

«Ciccio!»

Chiudo gli occhi.

Quando li riapro, dopo un tempo lunghissimo nel quale ho rivisto tutta la mia vita, la scena è apocalittica.

Il tavolo del buffet non esiste più, tutta la sala è cosparsa di scorie e frantumi, un paio di persone sono in terra, cercando di scrostarsi di dosso bevande appiccicose e creme elaborate, altri guardano: alcuni con aria sconsolata, altri con espressione più incuriosita, forse pensano di utilizzare la scena nei loro futuri fumetti.

Il capo ravana sul tavolo rovesciato, ingozzandosi di uova sode e profiteroles tracimati. La segretaria riemerge da sotto una sedia, col vestito strappato e una collana di pomodorini spiaccicati sul petto.

Accanto a me si materializza Silvia, vischiosa e grondante, una extension mezza staccata che le sbandiera sulla fronte, con al guinzaglio Ciccio che mi guarda con aria trasognata leccandosi i peli incrostati di panna.

«Che cazzo hai fatto? Non dovevi tenerlo fuori?»

«Ehm… mi sono affacciato un attimo, e lui ne ha approfittato… non potevo farci niente, lui è più forte di me».

«Più forte di te? Un cuccioletto di un anno, che non farebbe male a una mosca? Certo che se lo lasci fare quello che vuole combina il disastro che ha combinato, ma non è mica colpa sua, vorresti accusare un bambino? E proprio tu avevi detto che era meglio tenerlo fuori… Sei sempre il solito coglione! Speravo fossi cambiato, che potessimo magari tornare a essere amici, ma vedo che sei irrecuperabile. Andiamo, tesoro…»

Intuisco che quest’ultimo epiteto non sia rivolto a me, e non mi muovo. Solo che mi viene un atroce dubbio.

«Ma… e io?»

Lei si volta e mi incenerisce con lo sguardo.

«Tu cosa? Cercati un posto per andare a dormire e fammi sapere dove posso farti riavere i bagagli. E poi fammi il piacere di andartene in malora!»

Quindi gira i tacchi, imitata da Ciccio, e si allontana.

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